Celestino V, eremita nato con la camicia

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L'incoronazione di Celestino V

L’incoronazione di Celestino V

Era nato con la camicia, Pietro Angelerio.

La madre dell’uomo che il 5 luglio 1294 sarebbe stato eletto papa con il nome di Celestino V, e che avrebbe anticipato di 719 anni tanto la figura di un papa dimissionario quanto quella di un papa francescano e allergico al potere, amava infatti raccontare che quando il bimbo era uscito dall’utero, era rivestito di una sorta di “tunica”, quasi a profetizzare l’abito religioso che avrebbe indossato da adulto.

Tecnicamente, il neonato era ancora avvolto nel sacco amniotico: un evento relativamente frequente quando le donne partorivano in casa e avevano numerose gravidanze, e che veniva considerato di buon auspicio, tanto da dare luogo al celebre proverbio. “A questo evento – spiega Paolo Golinelli in “Il papa contadino” – sin dall’antichità si era attribuito un significato particolare. Quella veste, che copriva come una camicia la parte superiore del corpo, diventava il segno di una distinzione che troviamo associato in tutte le culture a un significato magico positivo”.

Pietro era stato l’undicesimo figlio, ed era nato tra la fine del 1209 e l’inizio del 1210 nel Molise, a Sant’Angelo Limosano o forse a Isernia.

La sua è una tipica famiglia contadina, di piccoli o medi proprietari della terra che lavorano. Il padre Angelerio si dedica al lavoro dei campi insieme ai figli mentre la madre Maria è occupata nelle faccende domestiche e nell’educazione dei figli.

Angelerio muore quando Pietro ha solo cinque anni e l’aspirazione massima della madre è quella di avere un figlio consacrato a Dio.
“Quando Pietro nacque già un suo confratello, il secondogenito, si era avviato al sacerdozio, ma troppo bello e attratto dalla vanità del mondo, si comportava in modo indegno per la sua condizione e tutta la famiglia ne soffriva. La punizione divina non tardò ad abbattersi su di lui e appena diventato monaco morì”.
Benché gli altri fratelli mal sopportino l’idea che braccia tanto forti vengano sottratte al lavoro nei campi, la madre decide quindi di spingere Pietro verso la vita religiosa.

Celestino racconta nella sua stessa autobiografia di essere stato un bambino vivace e che quando giocava con gli altri si lasciava andare a un linguaggio indecente. In ogni caso, entra diciassettenne nel monastero benedettino di Faifoli. Ma dopo appena tre anni – nel 1230 – insoddisfatto della vita che vi viene condotta lascia il monastero e si mette alla ricerca di una nuova forma di vita religiosa.
“Dalle poche annotazioni delle agiografie egli appare un animo inquieto, insoddisfatto della vita normale di quei monaci (di cui non si dice niente di esplicito), ma ancora molto insicuro di sé”.

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Celestino V (probabile) in un affresco della chiesa di Santa Maria Assunta ad Assergi, poco lontano da L’Aquila

Partito alla volta di Roma con un amico, vorrebbe rivolgersi al papa per un consiglio: probabilmente pensa già di fondare un nuovo ordine religioso e vuole l’approvazione del pontefice. Abbandonato dal compagno, Celestino deve attraversare un ponte ma a metà tragitto è preso dalla paura e torna indietro, fermandosi presso una chiesa intitolata a San Nicola, protettore dei pellegrini. “Egli ha bisogno di raccogliere tutte le sue forze per affrontare la nuova vita – commenta Golinelli – e nella preghiera e nella meditazione presso questo oratorio può trovare in sé quel mezzo magico che gli consentirà di superare la prova”.

Il giorno dopo compra due pani e due pesci e sale sul monte. Quando già è vicino all’eremo, ecco che gli si fanno incontro due bellissime donne, che mettendogli le mani addosso gli dicono: “Non andare: l’eremita non c’è, vieni con noi”. A fatica il giovane monaco riesce a liberarsi dell’abbraccio delle tentatrici, poi giunto finalmente all’eremo, ci resta per dieci giorni, salvo poi mettersi nuovamente alla ricerca di un posto ancora più solitario, che individua in una grotta alle falde del Monte Pallano. “Si scavò una grotta nella quale a malapena riusciva ad alzarsi in piedi o a distendersi completamente, anche perché era piuttosto alto”. Qui Pietro vive per tre anni, vestito di una sola tonaca con cappuccio, combattendo la propria lotta personale contro le tentazioni diaboliche.

Passati tre anni nell’eremo, Celestino arriva finalmente a Roma e qui viene ordinato sacerdote.

Al rientro dalla capitale della cristianità, il monaco sceglie un altro luogo dove condurre la sua vita eremitica: il Monte Morrone.

Rainaldo di Gentile di Sulmona, medico ottuagenario, interrogato per il processo di canonizzazione di Celestino nel 1306, testimonierà che “mentre era all’età di circa quindici anni e il detto frate Pietro era di circa 23 anni, come gli sembrò, vestito da monaco un giorno lo incontrò fuori Sulmona e Pietro gli chiese di insegnargli il luogo dell’eremo, in cui faceva penitenza un certo fra Flaviano di Fossanova”. Rainaldo lo accompagna sul monte Morrone e trovato l’eremo abbandonato, Pietro lo sceglie come sua dimora. Siamo nel 1241.

Quel luogo gli sembra adatto e invita il giovane Rainaldo a tornare qualche giorno dopo. Quando questi ricompare sulla porta dell’eremo, però, Pietro non c’è: è andato intorno al monte a cercare un luogo più aspro e forte in cui vivere, come riferisce al ragazzo quando torna alla sua cella. A quel punto il giovane gli fa: “Aspetta che cada la neve, e vedrai se questo non è un luogo aspro”.

“Quell’eremo divenne per Pietro il primo vero e proprio luogo di preghiera e di predicazione, nel quale esercitare la sua duplice missione di asceta e di sacerdote”.

Cominciano ad accorrere persone dalla vicina Sulmona, alcuni per aiutare l’eremita a provvedere alle sue necessità, altri per ascoltarne la parole e invocare le grazie che il penitente chiede a vantaggio dei sofferenti, altri ancora per fermarsi con lui e condividerne l’esperienza eremitica, come Bartolomeo da Trasacco e Tommaso di Sulmona. Si va subito costituendo una piccola comunità, nucleo di quello che sarebbe divenuto il nuovo ordine religioso.

“Si alzava nel primo silenzio della notte per render lode a Dio e testimoniare col profeta il suo nome, e gettandosi a terra, in ginocchio con le braccia alzate, e levava sospiri al cielo. Se poi non c’erano altri religiosi con lui, si sottoponeva a una disciplina ancora maggiore e cominciava a implorare perdono per i suoi peccati percuotendosi con una frusta”. Poi scrive, rilega libri, rattoppa e cuce le vesti logore sue e dei suoi compagni, e costruisce cilici con peli di cavalli e di buoi. “Passava la notte sino al canto del gallo in preghiere e genuflessioni, e solo quando la stanchezza lo sopraffaceva, reclinava il capo su di una grata di legno nuda, senza alcun cuscino, perché un sonno troppo profondo non finisse per essere popolato da quelle visioni peccaminose dalle quali aborriva. Giungeva così all’ora delle preghiere del mattutino senza aver né riposato le sue membra, né tantomeno dormito, e ricominciava la sua giornata di preghiera, penitenza e lavoro”.

Dopo cinque anni il Monte Morrone è diventato molto frequentato – troppi pellegrini arrivano a rompere il silenzio – e l’eremita decide di trovare, ancora volta, un rifugio più remoto e meno accessibile sui monti della Maiella, anche se sul Morrone verrà in seguito edificata la grande badia di Santo Spirito, casa madre di tutta la congregazione celestiniana.

Il monte Morrone e, sullo sfondo, il gruppo della Majella

Il monte Morrone e, sullo sfondo, il gruppo della Majella

Sull’“asprissima” Maiella, Pietro restaura le cappelle e gli edifici abbandonati dagli eremiti che lo hanno preceduto, tra cui Desiderio, abate di Montecassino, succeduto a Gregorio VII con il nome di Vittore III.

“Non fu una scelta popolare la sua: anche i suoi discepoli più fedeli che lo seguivano ovunque protestarono per le difficoltà di accesso a quell’eremo, lontano e raggiungibile solo con una mulattiera, e non mancò chi cercò di dissuaderlo, anche con mezzi non proprio pacifici”. Nel suo libro Celestino, Paolo Golinelli rievoca l’episodio dell’incendio delle fascine che l’eremita e i suoi compagni avevano posto a chiusura dell’ingresso della spelonca.

Era andato in cerca di solitudine, Pietro, ma si ritrova a fondare un nuovo ordine religioso. Sono sempre di più, infatti, i frati che si uniscono a lui. Dal romitorio di Santo Spirito Pietro si sposta – dopo cinque nani – a San Bartolomeo in Legio, sempre sulla Maiella, a seicento metri di altitudine: qui l’eremita sceglie una spelonca scavata sotto un enorme tetto di roccia lungo cinquanta metri, ai piedi della quale scorre il Rio Freddo. Poi passa a San Giovanni all’Orfento, nella parte opposta della Majella rispetto a Sulmona, in una grotta inaccessibile e a 1227 metri di quota, quindi in San Nicola della Maiella e altri eremitaggi.
“Quando il luogo prescelto diveniva troppo noto e accessibile, egli ne cercava un altro – spiega Golinelli – lasciando due o tre compagni nel precedente. In questo modo finì per costituirsi una famiglia monastica sparsa in celle poste lungo un circuito eremitico tra il Monte Morrone e la Maiella e le montagne circostanti, che egli visitava periodicamente”.

Quando il Concilio di Lione del 1274 proibisce la costituzione di nuovi ordini religiosi, Pietro rende pubblica la conferma del suo da parte di Urbano IV nel 1263, poi decide di abbondare le sue montagne e la loro solitudine e recarsi di persona, a piedi, a Lione. “Sarebbe troppo lungo raccontare quanti e quali pericoli si trovò ad affrontare con i suoi fratelli lungo questo viaggio: nell’andata, nella sosta e nel ritorno da Lione” scrive Tommaso da Sulmona. Ma il viaggio non è inutile: Pietro torna con il privilegio di conferma del suo ordine, al quale è assegnata la regola di San Benedetto.

A complicare la vita di Pietro non sono solo i briganti che incontra per strada, ma anche i vescovi delle diocesi dove si trovano gli eremi, che hanno già requisito i beni dell’ordine “andando dicendo a tutti che l’ordine era stato soppresso” e sono ora costretti a restituire il maltolto.

Nel 1275, quando la sua Regola viene approvata, sono 16 le comunità che fanno capo a Pietro del Morrone: santo Spirito di Maiella, San Giorgio di Roccamorice, San Giovanni di Maiella, San Bartolomeo di Legio, San Cleto di Musellaro, Santa Maria e Sant’Angelo di Tremonti, Santa Maria del Morrone, Sant’Antonio di Campo di Giove, San Giovanni d’Acquasanta, San Comizio d’Acciano, Santo Spirito di Isernia, Santa Maria di Ajelli, Sant’Antonio di Campagna in Ferentino, Sant’Antonino di Anagni, San Leonardo di Sgurgola, San Francesco di Civita D’Antino.

Nel 1276 Pietro decide anche di recuperare e restaurare il monastero in cui era entrato a diciassette anni – Santa Maria di Faifoli – ormai abbandonato e fatiscente. Ci vive per due anni come abate, poi lo lascia ad un altro frate, quando la comunità è ormai arrivata a quaranta monaci. Col passare degli anni sempre più abbazie vengono aggregate alla congregazione dei morronesi.

Il 6 ottobre 1287 Nicola, vescovo dell’Aquila, concede a Pietro l’esenzione della giurisdizione episcopale per la chiesa che si sta costruendo – grazie a loro – a Collemaggio, nella città dell’Aquila. “Con questo atto i monaci di Pietro del Morrone si insediavano in una città – commenta Golinelli – certo piccola e praticamente in costruzione, ma ugualmente una città”.

La badia di Santo Spirito sul Morrone

La badia di Santo Spirito del Morrone

Poi viene costruita la badia di Santo Spirito del Morrone che ospita nel giugno 1293 il capitolo generale dell’Ordine che delibera di trasferire qui l’abate della congregazione, visto che l’ordine si è ormai molto ampliato e la Maiella è troppo difficile da raggiungere.
Pietro però, non rimane nel nuovo monastero, ma si rimette in cerca di un eremo più inaccessibile. E si rifugia in una grotta sulla parete scoscesa del Monte Morrone.
Ed è proprio qui che lo troveranno gli inviati del Conclave per consegnargli le chiavi di San Pietro.

Quando muore Niccolò IV sono 12 i cardinali che si ritrovano in lotta per la successione: Latino Malabranca, imparentato con gli Orsini, rappresentante dei frati domenicani, che presiede il Conclave e convoca la prima seduta nel palazzo dei Savelli sull’Aventino, presso Santa Sabina. I francesi sono rappresentati da Giovanni Cholet, che però muore qualche giorno dopo l’inizio del conclave, e dal domenicano Ugo Aycelin de Billom. La famiglia Orsini è rappresentata dal potentissimo Matteo Rosso – che ha partecipato a tutti i conclave degli ultimi trent’anni, e parteciperà anche ai successivi fino al 1305 – e da suo nipote Napoleone, che è invece al suo primo conclave. I Colonna sono rappresentati da Giacomo e da suo nipote Pietro. C’è poi Benedetto Caetani, esponente di una famiglia della piccola nobiltà della campagna – Anagni – in ascesa ma non ancora affermata, che mantiene una posizione molto defilata. Infine ci sono Giovanni Boccamazza, nipote di papa Onorio IV, Gerardo Bianchi, Piero Peregrosso e l’umbro Matteo d’Acquasparta, della famiglia dei Bentivegna.

Nessuna delle fazioni riesce a raggiungere i due terzi dei voti e la situazione di stallo si protrae per ben due anni.

CelestinoV in un'opera di Niccolò  Di Tommaso (ca.1343-1405)

CelestinoV in un’opera di Niccolò Di Tommaso (ca.1343-1405)

I due principali contendenti sono Matteo Rosso Orsini e Giacomo Colonna “pari nell’odio e da pari contendenti” come vengono definiti da un cronista vicentino contemporaneo. Quando però nel conclave entra la peste (uccidendo Giovanni Choelt) l’assemblea viene sospesa per riaprirsi dopo un anno e mezzo a Perugia. Gli schieramenti restano contrapposti: quattro per Orsini e quattro per i Colonna, mentre non riescono a decollare candidature di compromesso come quella di Matteo d’Acquasparta. Qui passa anche Carlo II d’Angiò, che – reduce dall’accordo con gli Aragonesi per il governo della Sicilia – esorta i cardinali a dare in tempi brevi un papa alla cristianità. Sembra che sia proprio in quest’occasione a nascere l’ipotesi di un candidato esterno al conclave e di conclamata santità. D’altra parte se Malabranca è amico di Pietro, il Re di Napoli ha già concesso privilegi alla congregazione del Morrone, cui fa visita proprio tornando da Perugia per assegnare una speciale rendita al romitorio.

Dopo l’incontro con il sovrano, Pietro decide di intervenire in prima persona sul conclave, inviando ai cardinali una lettera nella quale si profetizzano sventure in una Chiesa che da più di due anni è senza pontefice. A quel punto il cardinale Latino Malabranca, destinatario della lettera, propone proprio lui come papa. E l’idea accoglie l’adesione quasi immediata di tutti i cardinali.

Nel mondo cristiano si diffondono stupore e speranza: l’elezione di Celestino sembra compiere la profezia di Gioachino da Fiore sull’Avvento dell’Età dello Spirito Santo e all’incoronazione – che avverrà il 29 agosto all’Aquila – parteciperà una folla di 20mila persone.

“Finalmente – fa commentare a un popolano Ignazio Silone nel suo capolavoro teatrale “L’Avventura di un povero cristiano” – avremo un papa che crede in Dio”.

Arnaldo Casali