L’incontro tra Francesco d’Assisi e Malik Al-Kâmil continua a fare discutere e a far pubblicare nuove ricerche. John Tolan ha pubblicato per la Seuil “Le Saint che le Sultan. La rencontre de François d’Assise et de l’Islam. Huit siècles d’interpretation”.
L’incontro tra Francesco d’Assisi e Malik Al-Kâmil, avvenuto a Damietta, in Egitto, nel 1219, è divenuto ben presto un “luogo della memoria”, cioè uno di quegli episodi che si sono caricati di letture e interpretazioni nel corso dei secoli, che ne hanno di volta in volta modificato i connotati ed i tratti di partenza.
Tolan conduce il lettore attraverso i testi e le immagini, che, nei secoli, hanno trasmesso e interpretato (e quindi modificato) il ricordo di quell’incontro. Il lettore non addetto ai lavori potrà forse stupirsi nell’apprendere che le prime fonti non hanno avuto origine nell’ambiente francescano, ma in quello, in parte ben distinto, dei cronisti della Crociata.
Il primo a parlarne è Giacomo da Vitry, vescovo e predicatore, che aveva nella Crociata un ruolo ufficiale. Egli parla della visita di Francesco al sultano per la prima volta in una lettera del febbraio o al massimo del marzo 1220, cioè a una distanza di pochi mesi dall’avvenimento.
Il commento dell’alto prelato, che non fa il nome di Francesco ma dice che si tratta del fondatore dell’Ordine dei Frati Minori, è che, con la sua iniziativa, egli “non ha ottenuto granché”.
Giacomo ritornò poi a parlare dell’incontro qualche anno più tardi, tra il 1223 e il 1225, nella sua opera maggiore: la Historia Occidentalis, composta quando ormai la crociata si era rivelata un fallimento. In questo contesto la valutazione dell’iniziativa di Francesco (di cui adesso si fa esplicitamente il nome) è tutt’altra perché, a dire di Giacomo, adesso “i saraceni ascoltano volentieri i frati minori quando predicano la fede in Gesù Cristo e l’insegnamento del Vangelo”.
La seconda fonte è un anonimo redattore di una cronaca della crociata, o, meglio, di una continuazione di una cronaca precedente. L’anonimo è verosimilmente schierato dalla parte di Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme che, nel corso della crociata, si era più volte scontrato con il delegato papale, cardinal Pelagio. Questa fonte, che risale probabilmente agli anni 1227-1229, mette in cattiva luce il cardinal Pelagio, mentre presenta Malik Al-Kâmil come un saggio sovrano che dialoga cortesemente con i due “chierici” cristiani (anche questa fonte non fa il nome di Francesco) che si erano recati da lui. Le fonti successive sono tutte successive alla canonizzazione di Francesco (avvenuta nel 1228) e quindi inevitabilmente legate al problema di conciliare l’episodio di Damietta con l’immagine di santità che si intendeva proporre attorno alla vita di Francesco.
Il primo a tentare l’operazione fu Tommaso da Celano nella sua Vita beati Francisci. L’idea di Tommaso è che Francesco si sia recato in Oriente (anzi, come lui dice, in Siria) per la sua sete di martirio. Dopo di lui Enrico d’Avranches, che non era francescano, ma era forse il poeta più “alla moda” in quel momento, propose un poema in versi nel quale l’incontro con il sultano assume il carattere di una dotta disputa tra maestri di teologia.
Mentre Enrico non ebbe pressoché alcuna influenza sulla produzione successiva, una delle opere in questo senso più feconde fu senza ombra di dubbio la Legenda maior di Bonaventura da Bagnoregio.
Il dottore serafico, che era nel momento in cui scriveva la sua biografia, anche Ministro Generale dell’Ordine dei Frati Minori, dilatò in modo sorprendente il racconto di Tommaso da Celano, introducendo in particolare l’episodio dell’ordalia. Francesco, davanti al rifiuto dei dotti musulmani, avrebbe proposto al sultano una prova del fuoco: avrebbe cioè camminato sui carboni ardenti per provare al verità della sua fede.
Bonaventura ha però qualcosa in comune con Tommaso da Celano: dovendo spiegare in qualche modo l’insuccesso della missione presso il sultano (che non portò né alla sua conversione né al martirio di Francesco) tutti e due gli autori francescani spiegano che Dio aveva predisposto per Francesco un’altra forma di martirio, quello delle stimmate, che si sarebbe avverato puntualmente qualche anno più tardi.
Altri due autori francescani però danno letture in parte divergenti dell’episodio: il primo è Angelo Clareno, uno dei principali esponenti dei cosiddetti spirituali, e l’altro Ugolino da Montegiorgio, autore degli Actus beati Francisci, un testo destinato a grandissima fortuna letteraria nel suo adattamento in volgare italiana, con il titolo I Fioretti.
Il primo presenta il viaggio in Oriente come l’inizio di tutte le disgrazie dell’Ordine, dato che i frati malvagi, ispirati dal diavolo, avrebbero colto l’occasione per introdurre dei rilassamenti nella primitiva regola di vita. Clareno non fa altro che situare nel 1219 quegli scontri tra Spirituali e Comunità di cui lui stesso era uno dei protagonisti, quasi un secolo dopo.
Ugolino da Montegiorgio invece osa proporre una lettura innovativa dell’episodio. Negli Actus infatti l’insuccesso viene trasformato in successo perché Francesco arriva a convertire il sultano, che però si farà battezzare solo in punto di morte, qualche anno più tardi.
Una seconda parte del volume di Tolan è poi dedicata agli sviluppi successivi di questo “luogo della memoria”. A partire dalle rappresentazioni iconografiche dal XIV secolo fino alle edizioni a stampa della leggenda di Bonaventura, passando per i testi contemporanei alla grande lotta contro i Turchi, che ha impegnato l’Europa a partire dal XV secolo. Testi che, ovviamente, mettono in risalto la violenza del sultano e dei suoi sbirri. Si arriva così all’Illuminismo che, con Voltaire, dipinge Francesco come un religioso fanatico davanti ad un sultano colto e tollerante. Mentre nel XIX secolo Francesco verrà salutato come antesignano della presenza europea in Medio Oriente, apostolo della civiltà occidentale. Il quinto ed ultimo capitolo è invece dedicato alla costruzione dell’immagine di Francesco come “apostolo della pace” tra XX e XXI secolo, giungendo fino a parlare della Giornata Mondiale per la Pace promossa da Giovanni Paolo II nel 1986.
Alla fine si resta quasi persuasi: le immagini che le diverse generazioni si sono costruite attorno a questo “luogo della memoria” sono non solo tante, ma, spesso, divergenti se non contrapposte. In effetti le fonti spesso ci dicono di più della sensibilità di chi le ha scritte e della generazione nella quale furono concepite che dell’episodio di Damietta in sé. Se è vero però che le immagini costruite su questo luogo della memoria sono cangianti, non è vero per questo che la verità storica di quell’avvenimento sia ormai perduta. Affermare una cosa simile sarebbe come dire che il lavoro degli storici non serve a nulla.
Ma, alla fine, Francesco, ha davvero incontrato il sultano? Proprio le fonti citate da Tolan spingono a dire alcune cose semplici, che non possono essere confutate. La prima è che quell’incontro vi fu. Gli storici credono alla verità di un avvenimento quando esso è attestato da più fonti non dipendenti l’una dall’altra e questo è esattamente il caso di quel che è avvenuto a Damietta.
La seconda cosa è che quell’avvenimento suscitò la meraviglia dei contemporanei.
La terza cosa è che, una volta conosciuto il protagonista, è lecito guardare alle altre fonti che lo riguardano per interpretare i motivi per cui è giunto a compiere un tale gesto.
Forse, generazione dopo generazione ci si è avvicinati ad una verità che i contemporanei han fatto fatica a capire.
Il vantaggio che oggi abbiamo riguarda proprio la conoscenza delle fonti. Per molti secoli il racconto pressoché unico dell’evento è stato quello fornito da Bonaventura nella Legenda Maior, che, come giustamente mette in guardia Tolan, non è privo di interpretazioni e amplificazioni.
Un discorso forse a parte meritano le fonti di parte araba.
Come sanno tutti gli specialisti, si deve al grande arabista francese Louis Massignon la scoperta di un Kawâkib (elogio funebre) di un saggio musulmano, Ibn al-Zayyât, che era consigliere spirituale di Malik Al-Kâmil, nel quale si dice che questo saggio ebbe una hikâya mashhûra (un’avventura memorabile) con un râhib (un monaco cristiano). Massignon non ebbe dubbi: si trattava di un riferimento alla visita di Francesco a Damietta.
Le cose che ora sappiamo sono dunque quelle che abbiamo provato a dire: che l’incontro vi è stato, che è stato percepito come straordinario dai contemporanei e che i due protagonisti erano uomini, per ragioni diverse, propensi alla pace.
Malik Al-Kâmil secondo le cronache della Crociata propose più volte un accordo ai crociati, che rifiutarono nella presunzione di poter giungere ad una vittoria militare, e, anche in seguito lo stesso sultano firmò il famoso accordo con Federico II per la concessione decennale dei Luoghi Santi.
La pace cercata dal sultano era dunque principalmente una pace politica. Davanti a lui Francesco aveva fatto della pace un asse della sua scelta di vita, al punto di scrivere nel suo Testamento: “L’Altissimo mi rivelò questo saluto: il Signore ti dia pace”. La pace di Francesco era dunque anzitutto un’idea religiosa, che non ricusava però ripercussioni sul piano storico e politico, come la sua predicazione testimonia.
Marco Bartoli
tratto da “Adesso” n.41 – www.reteblu.org