Il Carlo Martello di Villaggio e De André

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L’amicizia tra Fabrizio De André (1940-1999) e Paolo Villaggio (1932-2017), entrambi genovesi, fu lunghissima. Villaggio la ricorda così: “ho frequentato Fabrizio da quando aveva quattro anni e l’ho perso di vista quando è morto.”

“Che bello questo motivo” dice Paolo Villaggio. “Sembra una musica trovadorica”.
Fabrizio lo guarda. “Tu che sei un patito di storia medievale, aiutami a scrivere le parole”.

Carlo Martello ritorna dalla Battaglia di Poitiers nacque così, in una sera d’inverno del 1962.
Ma gli antefatti del ritratto più dissacrante del maior domus dei regni merovingi, che secondo molti storici cambiò le sorti d’Europa con la vittoria a Poitiers del 732, resteranno per sempre avvolti nella nebbia goliardica e romantica dei ricordi delle disavventure di due amici.

La versione del topo Secondo la colorita cronaca firmata da Villaggio nel libro La vera storia di Carlo Martello (Dalai Editore, 2011), ecco come andarono le cose: “Era venerdì 14 dicembre 1962, io e Fabrizio stavamo perdendo tempo a casa di un certo Repetto, un paralitico molto simpatico che trascinava la propria vita su una sedia di paglia rubata da uno sconosciuto benefattore nella chiesa di Sant’Antonio, a Boccadasse.
Abitava, Repetto, in un antro al pianoterra di un caseggiato fatiscente in cui aleggiava un violentissimo odore di minestra di verza, con una portafinestra che dava su un minuscolo cortile dove si celava un’insidia micidiale: un nano di gesso che con l’oscurità diventava invisibile.
Tutte le notti si radunavano da lui branchi di fannulloni squattrinati che regolarmente si dimenticavano del nano; le conseguenze abituali erano dolorosissime ginocchiate su un maledetto cordolo di cemento coperto di muschio e leggere escoriazioni ai gomiti, ma per la gioia degli astanti c’erano anche state due fratture di zigomi, quattro di tibie e un femore della signora Gandolfi, una vedova di settantasei anni che non apparteneva alla compagnia, ma si era spinta fin lì per chiedere un consiglio”.

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La vera storia di Carlo Martello (Paolo Villaggio, Dalai Editore, 2011). In copertina, un disegno di Dario Fo

E continua: “Segue ingresso improvviso di un gatto, che sotto lo sguardo della compagnia rigurgita un topo morto. De André, al solito imbenzinato, si offre per scommessa di mangiarsi il ratto in cambio di ventimila lire. Il paralitico mette i soldi sul piatto, e Fabrizio – fatto un respirone – addenta il sorcio. Poi gli viene fame, e trascina tutti a una locanda dove ordina «doppia porzione di fagiolane con le cotiche”, che divora in sei minuti.
Dopo, iniziano i problemi. Getti di vomito immani, il conto, la fuga in taxi: “Fabrizio si tappa la bocca, gli esce il vomito dal naso. Si tappa il naso, dalle orecchie gli esce uno spruzzo giallo. Saliamo sulla vettura, ma dopo cinquecento metri Fabrizio vomita sulla nuca dell’autista, un vecchio di circa ottant’anni, che inchioda, afferra un coltello da cucina e si volta guardandoci con gli occhi di un rinoceronte inferocito. “Stronzi maledetti! Io vi faccio a pezzi!”, urla. Spalanchiamo le portiere e scappiamo”. Al rientro, “Fabrizio è pallidissimo: “Passatemi la chitarra”, dice, “suonicchio un po’, così mi passa…”. Tocca le corde, plin plin…”.

La variante dei gemelli In questa declinazione meno cruenta, rilasciata al giornalista Andrea Monda per RaiLibro, Villaggio premette: “La scelta dell’ambientazione medioevale fu tutta farina del mio sacco; Fabrizio ci mise solo la musica. Cioè, avvenne il contrario: lui aveva già la musica e io ci misi le parole”.
E poi si addentra nei ricordi: “Era una giornata di pioggia del novembre del 1962. Io e Fabrizio, a Genova a casa mia in via Bovio, eravamo tutti e due in attesa del parto delle nostre signore, che poi partorirono lo stesso giorno, infatti Cristiano e il mio Pierfrancesco sono “gemelli”. Ebbene, forse per distrarci o per passare il tempo, Fabrizio con la chitarra mi fece ascoltare una melodia, una specie di inno da corno inglese e io, che sono di una cultura immensa, cioè in realtà sono maniaco di Storia, ho pensato subito di scrivere le parole ispirandomi a Carlo Martello re dei Franchi che torna dalla battaglia di Poitiers, un episodio dell’ottavo secolo d.C. tra i più importanti della storia europea visto che quella battaglia servì a fermare l’avanzata, fino ad allora inarrestabile, dell’Islam. Senza Carlo Martello sarebbe stata diversa la storia dell’Europa. Comunque mi piaceva quella vicenda e la volli raccontare, ovviamente parodiandola. In una settimana scrissi le parole di questa presa in giro del povero Carlo Martello”.

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Il 45 giri del 1963 (Karim, KN 177) in cui uscirono i brani del duo de André – Villaggio. La casa discografica li pubblicò con tre diverse copertine (la prima è numerata KN 103)

La cronaca Andò come andò, Carlo Martello da salvatore dell’Europa si trasformò in un miserabile campione di umanità, posseduto da pressanti necessità carnali e facile a sfoghi iracondi e ignobili dietrofront, dettati da una esecrabile vena di spilorceria.
La canzone, uscita nel 1963 in un 45 giri insieme a Il fannullone (l’unico altro brano del duo De André – Villaggio), passò quasi inosservata. De André non aveva ancora inciso La canzone di Marinella e non era famoso, e Villaggio avrebbe debuttato in RAI, facendosi conoscere dal grande pubblico, solo nel 1968.

Qualcuno però notò la strana filastrocca che sbeffeggiava il potente “re” dei Franchi, e Villaggio racconta: “Fu un pretore, mi pare di Catania, che ci querelò perché la considerava immorale soprattutto per quel verso: “È mai possibile, o porco di un cane, che le avventure in codesto reame debban risolversi tutte con grandi p….”. E pensare che noi eravamo già stati censurati e avevamo dovuto trasformare il verso finale che in originale suonava: “Frustando il cavallo come un mulo, quella gran faccia da c…” con: “Frustando il cavallo come un ciuco, tra il glicine e il sambuco…”. Ma a parte questo pretore nessuno notò la nostra canzone, che fu riscoperta quando Fabrizio divenne famoso dopo Marinella”.

Pochi anni dopo, la casa discografica che aveva pubblicato il 45 giri fallì improvvisamente. Si chiamava Karim ed era di proprietà di alcuni soci, tra i quali figurava il padre di De André, dirigente d’azienda con molti interessi nei più svariati settori. Nel periodo immediatamente precedente al fallimento, Fabrizio fece causa alla Karim con l’accusa di non avere corrisposto una parte dei diritti d’autore dovuti. L’accusa fu prodotta, e vinta, dal fratello di Fabrizio, l’avvocato Mauro De André. Ma la Karim non risarcì la cifra stabilita (40 milioni di lire) e chiuse i battenti di lì a poco.

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Un’altra cover per la canzone dedicata a Carlo Martello, questa volta pubblicata dalla Bluebell Records

Le licenze poetiche Nel corso degli anni, i critici hanno contestato agli autori il titolo attribuito a Carlo Martello, che nella canzone viene chiamato re, sire, sua maestà e sovrano. In realtà fu Maggiordomo di Palazzo (maior domus) dei regni merovingi di Austrasia (dal 716), di Burgundia (dal 717) e di Neustria (dal 719). Ma in seguito alla morte del re Teodorico IV, avvenuta cinque anni dopo la battaglia di Poitiers, di fatto Carlo Martello esercitò il potere regale (dal 737 al 741), pur non avendone il titolo.
L’azione della lirica, inoltre, si svolge in una calda primavera, mentre la battaglia avvenne nel mese di ottobre.
La cintura di castità poi è un grossolano falso storico. Datarla al tempo di Carlo Martello, in ogni caso, è un anacronismo: il primo documento in cui viene nominato l’improbabile strumento di tortura, il Bellifortis di Konrad Kyeser, dedicato alla tecnologia militare, è infatti datato 1405: circa 600 anni dopo il periodo storico in cui visse il Maggiordomo di Palazzo dei regni merovingi.
Come è noto, le uniche cinture di castità conosciute apparvero in alcuni musei europei solo intorno al 1840.
Gli analisti più scrupolosi del testo scritto da Paolo Villaggio citano come spropositato anche il prezzo che la prostituta chiede a Carlo Martello (5.000 lire).
Forse si tratta solo di particolari, licenze poetiche che nel contesto in cui si trovano assumono il significato voluto.

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Una immagine medievale dei trovatori, i poeti lirici occitani che utilizzavano la Lingua d’Oc per le loro composizioni

Il Medioevo di De André La canzone dedicata a Carlo Martello non è l’unica incursione medievale, o meglio medievalista, della produzione artistica di De André. Se è vero che Villaggio amò molto la Storia, Faber si avvicinò spesso ai temi trattati dalle liriche dell’Età di Mezzo, soprattutto nelle sue produzioni giovanili.
Al tema della passione, che può avere in Al cor gentil rempaira sempre amore di Guido Guinizzelli (1235-1276) una delle più note espressioni poetiche medievali, De André si accosta con La Canzone di Marinella e La canzone dell’amor perduto.
Il binomio amore e morte, affrontato spesso nei testi poetici e nelle melodie trobadoriche, come nella canzone Tan mou de cortesa razo dell’occitano Folchetto da Marsiglia (1155 circa – 1231), riecheggia in pezzi come la Ballata dell’amore cieco, mentre gli ideali e i valori che muovono l’uomo verso grandi imprese (In morte del nobile Blacatz di Sordello da Goito, 1200-1269) sono presenti in Si chiamava Gesù.
La Chanson de geste e la Chanson de Roland hanno i loro paralleli in Il re fa rullare i tamburi e Fila la lana, dove affiorano i temi dell’eroe e della battaglia, mentre il bistrattato Carlo Martello trova i suoi alter ego nei personaggi descritti nel Roman De Renart, raccolta di racconti in lingua francese dei secoli XII e XIII e nei successivi lavori del Boiardo, di Pulci e del Folengo, pregni di ricca ironia nei confronti del tono epico.
A Villon (1431-1463), poeta pitocco, senza eredità, che con il suo Testamento fa elogio a chi muore e scherno a chi resta, sembra ispirarsi il celebre omologo componimento di De André del 1968. E svariati sono i punti di contatto tra la poetica di Villon e quella del cantautore genovese: entrambi cantano i disadattati, i marginali, i condannati e prendono le parti degli uomini colti dalla debolezza della propria condizione sociale. E naturalmente tra le muse di De André c’è Cecco Angiolieri (1260 –1313), scrittore maledetto che amava farsi gioco di tutto e tutti, persino chi gli aveva dato la vita, come in S’io fossi foco, lirica musicata e cantata proprio da Faber nel 1968.

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Georges Brassens (1921 – 1981), uno dei più grandi maestri della canzone d’autore internazionale. Fabrizio De André lo considerava un maestro. Alcune delle sue canzoni sono adattamenti da composizioni di Brassens

Secondo lo storico Tommaso di Carpegna Falconieri, quello di Faber è un Medioevo “anarchico e di sinistra”. “Brassens e De André cantano nuovamente i versi fulminanti de La ballata degli impiccati di François Villon; De André grida con Cecco Angiolieri S’i fossi foco (1968) e insieme a Brassens si immedesima in quei poeti maledetti di un Medioevo di passioni forti, di sentimenti vivi, di delinquenti pieni di cuore”.

In una intervista di Berto Giorgeri (su ABC del 1967), alla domanda se sia soddisfatto di vivere in questo periodo De André spiega: “Sembrerà un luogo comune rispondere di no, ma rispecchia esattamente la mia convinzione. Il periodo che mi affascina veramente è il Medioevo. Potendo conservare alcune conquiste sociali fatte nel corso dei secoli successivi, vedrei molto volentieri una società moderna ambientata nel Medioevo”.

Sembra quasi che per De André il Medioevo sia stato un luogo dell’anima. Forse ispirato da istantanee come quella evocata dai versi di Verlaine: “È verso il Medioevo enorme e delicato/ che il mio cuore guasto dovrebbe navigare/ lontano dai nostri giorni di spirito carnale e di carne triste”.

Daniela Querci