Il 29 marzo 1516 il Senato della Serenissima Repubblica di Venezia delibera che “tutti li Zudei che de presente se attrovano abitar in diverse contrade de questa città, debbano abitar uniti” nella corte di case site presso l’ex fonderia di rame detta “Ghetto”.
“E la neve scende su una fredda e grigia mattina di Chicago – canterà quattro secoli e mezzo dopo Elvis Presley – Un povero bambino è nato nel ghetto. E sua madre piange, perché se c’è una cosa di cui non ha bisogno è un’altra bocca da sfamare nel ghetto”.
In quattrocento anni il termine “ghetto” finirà per indicare la parte malfamata di una metropoli, il quartiere povero dove ragazzi cresciuti senza niente “imparano a rubare e a lottare”. Eppure quando nasce, il 29 marzo 1516, il ghetto è tutto l’opposto: il primo “recinto degli ebrei” è un quartiere ricco, un luogo effervescente e cosmopolita e uno dei principali centri di commercio della città.
Il Ghetto – che si trova nell’attuale sestiere di Canneregio ed è tuttora il fulcro della comunità ebraica di Venezia – prende il nome dal “geto de rame”: qui si trovavano infatti le fonderie pubbliche dove venivano fabbricate le bombarde, una sorta di antenate dei cannoni. Il quartiere già dal XIV secolo aveva preso il nome dal verbo “ghettare”, cioè “affinare il metallo con la ghetta” (il diossido di piombo), parallelo a “gettare”, ovvero fondere i metalli, ed era diviso in due parti: Ghetto Vecchio e Ghetto Nuovo.
Verso l’inizio del Quattrocento le fonderie erano state dismesse e l’area del Ghetto Nuovo era stata affidata ai fratelli Da Brolo, che intendevano costruirci un complesso residenziale comprendente venticinque case da affittare e una chiesa. Attorno al 1460 era sorto però un litigio tra le parrocchie di San Geremia e San Marcuola attorno alla pertinenza ecclesiastica del nuovo quartiere, il progetto era stato abbandonato e l’area era rimasta disabitata per diversi decenni.
Intanto in città c’era già qualcosa di simile a quello che sarebbe diventato il ghetto ebraico: dal XIII secolo esisteva infatti il Fondaco dei tedeschi, un singolo edificio (esistente ancora oggi, ai piedi del Ponte di Rialto) in cui i mercanti tedeschi venivano rinchiusi di notte; anche gli Ottomani avevano un fondaco, dove poter vivere appartati, con tanto di luogo di culto.
All’inizio del Cinquecento gli sconvolgimenti della guerra avevano portato molti ebrei a rifugiarsi a Venezia finendo per risvegliare la diffidenza e l’ostilità dei residenti cristiani, per questo il Senato aveva deciso di risolvere la questione stabilendo che tutti gli israeliti dovessero obbligatoriamente risiedere nella località del Ghetto Nuovo, che si presenta ancora oggi come un’isola i cui accessi avvengono tramite due ponti. In corrispondenza dei ponti esistevano dei robusti cancelli, che venivano chiusi e sorvegliati di notte, poiché agli abitanti era permesso uscire dal quartiere solo di giorno e con dei segni distintivi.
Nel corso del Cinquecento saranno poi edificate varie sinagoghe, una per ogni gruppo etnico: sorgeranno così la Schola Grande Tedesca, la Schola Canton (di rito ashkenazita), la Schola spagnola (di rito Sefardita), la Schola Levantinae e la Schola italiana, i cui edifici costituiscono ancora un complesso architettonico di grande interesse.
Agli ebrei ashkenaziti il governo veneziano concederà, oltre all’esercizio della medicina e della “strazzeria”, il mestiere di prestatori di denaro, un’attività creditizia che ai cristiani era impedita: all’interno del Ghetto sorgono così i banchi di pegno dai quali passerà buona parte del prestito di denaro della potenza lagunare; diventerà così abituale, per i veneziani, andare al Ghetto per contrarre un prestito o a riscattare degli oggetti tenuti per garanzia.
Non mancano comunque le professioni liberali e la cultura. Favorita anche dalle consistenti ondate immigratorie da tutta l’Europa, la comunità ebraica veneziana crescerà così tanto che per ricavare un numero sufficiente di alloggi gli edifici finiranno per espandersi in verticale e a tutt’oggi le costruzioni del Ghetto – caso unico a Venezia – si caratterizzano per la notevole altezza, tanto da arrivare fino a otto piani.
Nel 1541 il territorio verrà inoltre ampliato con l’aggiunta del Ghetto Vecchio, concesso agli ebrei giunti dalla penisola iberica e dall’impero Ottomano e nel 1633 sarà aperto il Ghetto Novissimo: una piccola area a est del Ghetto Nuovo, composta da appena due calli.
Ben presto l’esempio di Venezia viene seguito anche da altre città italiane ed europee, che iniziano a confinare gli ebrei in quartieri chiusi, tanto che il nome proprio “Ghetto” diventa prima sinonimo di quartiere ebraico e successivamente di luogo di segregazione.
Nel corso del Medioevo esistevano già in tutta Europa quartieri ebraici che in genere si chiamavano “giudecca”. A differenza del ghetto, però, nella giudecca non c’era alcun obbligo di residenza e in qualche caso le comunità godevano di una propria autonomia politica, amministrativa, giudiziaria e patrimoniale: provvedevano all’imposizione e alla riscossione delle imposte e svolgevano servizi fondamentali come la scuola, il notariato, l’ospedale, il cimitero, il macello e l’assistenza ai più bisognosi.
Solo in Sicilia si contavano oltre 90 giudecche popolate da circa 37mila ebrei e nel 1310 il re di Sicilia Federico II di Aragona aveva avviato una politica restrittiva nei confronti della numerosa comunità ebraica siciliana, costringendola a contrassegnare vesti e botteghe con la “rotella rossa”.
Nel 1555 papa Paolo IV, seguendo l’esempio di Venezia, crea il ghetto di Roma con la bolla Cum nimis absurdum, che forza gli ebrei a vivere in un’area specifica con una serie di restrizioni, che resteranno in vigore per secoli. Il Ghetto di Roma, a Trastevere, diventerà uno dei quartieri più importanti della città, ancora oggi sede della Sinagoga ma anche di centri culturali e ristoranti tipici che offrono ai turisti piatti a base di cucina ebraica, come i celebri “carciofi alla giudìa”.
L’istituzione dei ghetti a partire del XVI secolo sarà comunque limitata al centro-nord d’Italia. In alcune realtà locali gli ebrei saranno capaci di ritardare (come in Piemonte) o evitare (come a Livorno o a Pisa) l’istituzione del ghetto, o limitarne alcuni degli effetti restrittivi. Ma sarà solo alla fine del Settecento, con la diffusione degli ideali della Rivoluzione francese, che i ghetti verranno progressivamente aboliti. L’ultimo sarà proprio quello di Roma, che dovrà aspettare fino all’annessione allo Stato italiano nel 1870.
Sarà poi il nazismo a ripristinare il sistema dei ghetti come tappa temporanea finalizzata alla realizzazione della “soluzione finale” in Europa orientale. A Varsavia, dove non era mai esistito un ghetto, nel 1942 saranno concentrate 500mila persone in 3,4 chilometri quadrati, tanto da portare – tra l’aprile e il maggio del 1943 – all’insurrezione che costerà la vita a 13mila ebrei e la deportazione ai superstiti mentre il ghetto sarà completamente raso al suolo.
Negli Stati Uniti, invece, il ghetto riguarderà la popolazione nera: dopo l’abolizione della schiavitù la discriminazione nei confronti degli afroamericani li porterà a vivere in determinati quartieri (si pensi al Bronx e ad Harlem, a New York) che prenderanno il nome di “ghetto”.
Paradossalmente, però, saranno proprio le leggi sui diritti civili degli anni ‘60 che – permettendo agli afroamericani più facoltosi di trasferirsi nelle “zone per soli bianchi” – contribuiranno al collasso economico di molti ghetti, il cui livello di benessere scenderà sotto la media, mentre aumenteranno gli indici di criminalità e di degrado urbano.
Well, the world turns
And a hungry little boy with a runny nose
Plays in the street as the cold wind blows
In the ghetto.
In the Ghetto (Elvis Presley, From Elvis in Memphis, 1969)
Arnaldo Casali