Non ce l’ha mai avuto un papa, Orvieto. Ma quella volta che c’è andata a un passo, ha generato la più celebre profezia della storia della Chiesa: un falso così autorevole da continuare a essere preso sul serio ancora oggi.
Era l’autunno del 1590: in agosto era morto papa Sisto V e il 27 settembre lo aveva raggiunto Urbano VII, dopo aver regnato appena 13 giorni nel pontificato più breve della storia.
Girolamo Simoncelli da Orvieto era certo che fosse arrivato il suo momento. D’altra parte un primato ce l’ha anche lui: è il cardinale che ha partecipato a più conclavi – ben dieci, dal 1555 al 1592 – senza mai essere eletto.
Ne erano convinti anche i suoi sostenitori: per questo avevano fatto circolare un libretto attribuito a San Malachia che conteneva profezie sugli ultimi papi, dall’epoca del vescovo irlandese morto nel 1148 fino alla fine dei tempi. La profezia verrà pubblicata per la prima volta nel 1595 dal monaco benedettino Arnold Wyon, ma doveva in realtà circolare in forma manoscritta già da cinque anni.
Il farmaco di Esculapio I motti che l’autore della profezia attribuisce ai papi fino al 1590 rendono infatti molto facile l’identificazione del pontefice a cui si riferiscono: ad esempio Giulio III, al secolo Giovanni Maria Ciocchi del Monte – nel cui stemma compaiono tre corone di alloro – viene definito “De corona montana” e Pio IV (Giovanni Angelo dei Medici) “Il farmaco di Esculapio”.
Successivamente, invece, i motti diventano vaghi e adattabili praticamente a chiunque (nonostante qualcuno si ostini a vedere profezie anche nei motti attribuiti ai papi più recenti come Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco – che sarebbe proprio l’ultimo).
Il motto attribuito al successore di Urbano VII, però, è quanto mai singolare perché è l’unico “sbagliato”: recita infatti “Ex antiquitate Urbis” perché Orvieto significa “Urbs Vetus”, ovvero Città vecchia. Più che una profezia, quindi, un auspicio: obiettivo del falso scritto di Malachia era quello di influenzare i cinquantadue cardinali riuniti nel Palazzo Apostolico (tra i quali anche nomi celebri come Federico Borromeo, Francesco Maria Del Monte – protettore di Galilei e committente di Caravaggio – e Alessandro dei Medici, futuro Leone XI) perché seguissero il disegno divino già tracciato nella falsa profezia eleggendo l’ambizioso Simoncelli, nipote di papa Giulio III che lo aveva elevato alla porpora ad appena 32 anni e mandato a fare prima il vescovo e poi il governatore proprio a Orvieto.
L’orvietano, però, forse aveva un carattere un po’ troppo eccentrico per i gusti del Sacro Collegio: si divertiva, per esempio, a far incendiare i carri di fieno per spaventare i contadini, salvo poi pagare i danni. Così, i cardinali gli avevano preferito Niccolò Sfondati da Sommo Lombardo, sul Ticino. Simoncelli ci riprovò nei due anni seguenti, stavolta senza più nemmeno l’ausilio della profezia: il cardinale perse per sempre l’occasione di agguantare il trono più alto, e la sua città quello di coronare un lungo idillio con il papato.
Sin dall’Alto Medioevo, infatti, dei papi Orvieto era stata residenza, sede dell’incoronazione, roccaforte, santuario prediletto per importanti cerimonie e pellegrinaggi. Le mancava solo un papa, per essere davvero una città papale.
La ribellione dei Romani La corrispondenza di amorosi sensi e soprattutto di strategie politiche era cominciata nel 1157 con il riconoscimento del governo locale da parte di Adriano IV.
Unico papa inglese, appena eletto – nel 1555 – si era scontrato con Arnaldo da Brescia, capo della Repubblica Romana, che non ne aveva riconosciuto l’elezione. Il pontefice era arrivato a lanciare l’interdetto su Roma la Domenica delle Palme, ottenendo l’esilio di Arnaldo. Successivamente aveva accettato di incoronare a Roma l’imperatore Federico Barbarossa in cambio della testa del bresciano: il prezzo da pagare, però, era stata la rivolta del popolo romano e il papa si era rifugiato così a Orvieto, che si stava organizzando in quel momento come libero Comune.
L’investitura firmata nel 1157 se da una parte avrà un interesse strategico per il papato – deciso a riportare all’interno del Patrimonium sancti Petri la città e il suo contado – dall’altra darà nuovi impulsi allo sviluppo e al prestigio del Comune alimentando, al tempo stesso, i mai sopiti contrasti interni tra varie fazioni e famiglie nobili.
Ma il papa che più di ogni altro ha segnato la storia di Orvieto è senza dubbio Urbano IV. Francese, viene eletto al termine di uno dei conclavi più difficili della storia, quello del 1261: non riuscendo a mettersi d’accordo, infatti, i cardinali affidano la decisione a due delegati, che scelgono un membro estraneo al collegio: Jacques Pantaléon non è infatti cardinale, ma patriarca di Gerusalemme.
Urbano IV non metterà mai piede a Roma: passerà tutto il suo pontificato tra Viterbo (dove si trova quando viene eletto), Perugia (dove muore e viene sepolto) e Orvieto, dove risiede nella tarda estate del 1263, quando viene raggiunto da un prete boemo – Pietro da Praga – che chiede di essere ricevuto in udienza.
Il dubbio di Pietro Il sacerdote sta celebrando la messa nella chiesa di Santa Cristina a Bolsena quando viene assalito dal dubbio sulla reale presenza di Cristo nell’Eucarestia. Durante la consacrazione, però, sente il pane tra le sue mani diventare un pezzo di carne, da cui comincia a stillare sangue. Impaurito e confuso, conclude in fretta la celebrazione, avvolge tutto nel corporale di lino usato per la purificazione del calice, e fugge in sacrestia.
Urbano, per verificare l’accaduto e recuperare le reliquie, invia a Bolsena il vescovo di Orvieto Giacomo, accompagnato, secondo la tradizione, dal teologo domenicano Tommaso d’Aquino e dal francescano Bonaventura da Bagnoregio.
Tra l’esultanza generale, il vescovo torna dal papa con le reliquie del miracolo, che vengono mostrate al popolo dei fedeli e deposte nel sacrario della Cattedrale di Santa Maria. Non passa un anno che il papa – l’8 settembre 1264 – con la bolla Transiturus de hoc mundo istituisce la Solennità del Corpus Domini, che tutta la Chiesa celebrerà il giovedì dopo l’ottava di Pentecoste.
Il 23 marzo 1281, invece, la città della Rupe viene addirittura scelta come sede dell’incoronazione di papa Martino IV, eletto a Viterbo in uno dei conclavi più discussi, grotteschi e pilotati: per eliminare il partito avverso, infatti, il re di Francia aveva fatto imprigionare da cittadini viterbesi i due più influenti cardinali italiani, riuscendo così a far eleggere Simon de Brion che – per salvare le apparenze – aveva scagliato l’interdetto sulla città di Viterbo, “colpevole” di avergli tolto di mezzo gli avversari. Rifiutato dai romani (che non avevano nessuna intenzione di sottomettersi al potere francese), Martino aveva scelto di farsi incoronare a Orvieto, per poi stabilirsi a Perugia, dove morirà nel 1285 lasciando dietro di sé soprattutto il ricordo – immortalato da Dante nella Divina Commedia – di un uomo particolarmente goloso delle anguille di Bolsena.
Cinque anni dopo, per custodire più adeguatamente l’ostia e il corporale del miracolo eucaristico, papa Niccolò IV avvierà la costruzione del nuovo, grandioso Duomo.
Primo papa francescano, Niccolò IV, al secolo Girolamo d’Ascoli, era stato inviato in Dalmazia da San Bonaventura come ministro provinciale e subito dopo era stato investito da Gregorio X del delicatissimo tentativo di sanare la frattura con la chiesa ortodossa. Succeduto allo stesso Bonaventura come ministro generale, era stato creato cardinale da Martino IV nel 1281 e 7 anni dopo un’interminabile conclave lo aveva eletto papa.
Da pontefice Girolamo era stato iperattivo: si era occupato di riformare il collegio dei cardinali, di sanare i conflitti nello Stato Pontificio, di promuovere una crociata in Terra Santa e un’altra in Ungheria, unificando gli ordini cavallereschi e raggiungendo accordi con tutti i sovrani d’Europa. Ma era stato anche un grande protagonista della storia culturale e artistica della Chiesa, fondando quattro università, promuovendo il restauro delle basiliche di San Giovanni in Laterano e Santa Maria Maggiore, e – appunto – il Duomo di Orvieto, affidato probabilmente a uno dei suoi più stretti collaboratori: Arnolfo di Cambio, che sulla Rupe aveva già scolpito il monumento funebre del cardinale De Braye.
Decisamente più conflittuale il rapporto di Orvieto con Bonifacio VIII, che d’altra parte con i conflitti ci andava a nozze: nemico del suo predecessore Celestino V (che dopo aver spinto alle dimissioni, aveva fatto imprigionare e – forse – assassinare), nemico dei francescani spirituali, nemico di buona parte delle famiglie aristocratiche romane, nemico di Dante Alighieri, nemico di Filippo il Bello di Francia, Bonifacio decide di usare la forza anche con la città di Orvieto, che nel frattempo ha raggiunto una popolazione di 30mila abitanti (superiore perfino a quella di Roma), estendendo molto i suoi domini e diventando un’indiscussa potenza militare.
Bonifacio non esita a lanciare scomuniche e interdetti per ridurla all’obbedienza; e ci riesce: viene nominato Capitano del Popolo, fa avviare la costruzione del Palazzo Papale e fa apporre una sua statua nei due più importanti ingressi della città: Porta Maggiore e Porta Postierla; statue oggi custodite nel Museo Civico Archeologico. Ma non usa solo il bastone, Bonifacio: nel 1297 celebra infatti a Orvieto la solenne canonizzazione di re Luigi IX di Francia.
Papa e mecenate L’ultimo grande regalo alla Rupe lo fa invece, quasi due secoli dopo, Giuliano Zanobi dei Medici, figlio di una delle vittime più illustri della Congiura dei Pazzi e cresciuto dallo zio Lorenzo il Magnifico. Nominato dal cugino Leone X prima vescovo e poi anche governatore di Firenze, è stato eletto papa con il nome di Clemente VII nel 1523 a soli 45 anni (primato tuttora imbattuto) e si è trovato a fronteggiare lo scisma anglicano e il Sacco di Roma. Ma ha anche approvato l’Ordine dei Cappuccini e affidato a Michelangelo l’affresco della Cappella Sistina, commentato e fatto pubblicare tutte le opere di Ippocrate, promosso la teoria Copernicana, fondato l’Università di Granada e sviluppato la Biblioteca Vaticana e la costruzione della basilica di San Pietro. Eppure quando muore, forse avvelenato, nel 1534, sul Pasquino, la statua parlante di Roma, viene esposto il ritratto del suo medico con la scritta “Ecce qui tollit peccata mundi”.
È lui nel 1527 ad avviare a Orvieto la costruzione del Pozzo di San Patrizio: quasi un viaggio metafisico nelle viscere della terra lungo 248 scalini. Il nome, d’altra parte, richiama quello della grotta irlandese dove Cristo avrebbe indicato a San Patrizio la porta del purgatorio.
Le ragioni di Clemente, in realtà, sono assai poco mistiche: reduce dal Sacco di Roma, vuole un pozzo per rifornire la città di acqua in caso di assedio. Alcune curiose coincidenze, però, rendono misterioso il fascino del luogo: durante gli scavi vengono ritrovati infatti corredi funerari di tombe etrusche. E le due rampe di scale elicoidali, progettate per la salita e la discesa, riproducono perfettamente, sotto il profilo geometrico, la doppia elica del Dna, il codice della vita, scoperto nel 1951.
Arnaldo Casali
Articolo pubblicato su MedioEvo N° 256 di maggio 2018