La parola giullare deriva dal latino joculator, a sua volta proveniente da jocus (scherzo, gioco), ma i giullari nel medioevo, sebbene basassero il loro repertorio sullo scherzo e sul gioco, dovevano stare molto in guardia e calibrare ogni parola. Il gioco, più che liberarli, poteva diventare un giogo, farli quindi imprigionare e finire il resto dei loro giorni in una buia e tetra segreta.
Solitamente fornito di un ampio bagaglio culturale, il giullare medievale conosceva la storia e le storie, usava la fantasia e le abilità linguistiche, sapeva improvvisare versi così come comporre canti cavallereschi e d’amor cortese. Girava così di corte in corte in cerca di una dimora e di un pasto, e a volte grazie alla sua arte poteva assurgere a favorito dei principi e dei re.
Il giullare poteva esserlo di professione e allora era musico, danzatore, giocoliere, ammaestratore, acrobata, lottatore, cantante, trampoliere, poeta e narratore per diventare un caleidoscopio di attività e di mestieri.
Aveva senno e «provedenza / in ciascun mestiere» e, come testimonia Ruggieri Apugliese, giullare e poeta siciliano del XIII secolo, so «bene esser cavaliere / e donzello e bon scudiere, / mercatante andare a fiere, / cambiatore ed usuriere […] so cantare, / fisica saccio e medicare, / so di rampogne e so’ zollare […] Orfo so’ e dipintore, / di veggi e d’arke facitore, / mastro di petre e muratore / bifolco so’ e lavoratore […]».
Insieme a tutte queste specificità, arti e artifici, il giullare si ammantava anche di effluvi solforosi: la sua lingua aguzza, tagliente e biforcuta lo rendeva prossimo al diavolo, il diabolo, l’essere dalla doppia lingua. È per questo che veniva considerato troppo spesso un essere spregevole e dunque confinato ai margini della società, sia da vivo che da morto: la terra che lo avrebbe accolto sarebbe stata quella sconsacrata, lo stesso destino che spettava alle meretrici, che come lui vivevano dello sfruttamento del proprio corpo.
Infatti accanto all’istrio scurre esisteva anche l’istrio turpe: mentre il primo si produceva in volgarità verbali, il secondo si lasciava andare a oscenità fisiche.
Oggi riemerge rivitalizzato e forse purificato dalla tradizione popolare delle rievocazioni storiche, un novello giullare erede di quella lontana tradizione, ma meno poliedrico e più specializzato: a volte attore, musico o solo giocoliere, altre acrobata, trampoliere e menestrello.
Fra queste specificità quella che maggiormente gode di una propria originalità e non eccessiva riproducibilità tecnica, per dirla con Benjamin, è la figura dell’improvvisatore in versi, poeta estemporaneo che riflette se stesso nello spettatore: e la parola si fa nota, dun- que diventa musica, canta e incanta.
Cercando l’appoggio e la collaborazione del pubblico, l’improvvisatore ne rapisce l’attenzione, ne carpisce le intenzioni, crea una tenzone dialogica, che va verso lo spettatore e lo spinge a vivere la tensione dell’attesa che nasce dall’ignoto.
L’improvvisazione diventa così l’arte di mescolare, miscelare e unire. Una sorta di moderna alchimia dove nel crogiolo dei senza palco moderni si fondono le doti istrioniche, l’abilità teatrale, la comicità pungente, la cultura profonda, la rapidità cerebrale, il guizzo inaspettato, la sagacia buffonesca, l’intelligenza acuta, e la psicologia raffinata: uno spettacolo vivo, mai ripetitivo, che di volta in volta rinasce come la Fenice, ma non dalle proprie ceneri, bensì dalle scintille zampillanti della lingua italiana.
Il giullare di oggi è figlio diretto della tradizione medievale, che solo a tratti lambisce i rimandi tardo-rinascimentali dell’arte affabulatrice di Dario Fo e quelli più schiettamente contadineschi di Roberto Benigni.
Che ne sarà del giullare nell’epoca invasa dalla cibernetica, dal digitale, dalle macchine, dalle app e dai social? Sarà in grado di trovare uno spazio tutto per sé una professione prettamente artigianale ma legata all’immateriale, al semplice prodotto del proprio intelletto o della propria abilità fisica? Accadrà anche al mestiere del giullare, come ad altre professioni, di essere sostituito da una macchina, fagocitato dalla tecnologia? O sarà come per il libro cartaceo, che attraverserà i secoli e arriverà a noi con tutto il suo fascino, a differenza dell’e-book, che a stento sopravvive al proprio possessore?
L’uomo può disumanizzarsi, ma la macchina non può diventare umana, in particolare nell’ambito dello spettacolo, quello dal vivo, che si regge su uno scambio di energia fra l’attore e lo spettatore: un equilibrio fatto di sguardi, ammiccamenti, gesti, sentimenti, un rispecchiarsi l’altro nell’uno. Le macchine tutto questo non lo sanno e non lo potranno mai sapere.
Più questa società si farà tecnologica, meno spazio ci sarà per l’uomo, ma a lungo andare, in un tempo non troppo lontano, sarà necessario rimettere al centro l’essere umano, con la passione, il sudore e le parole per continuare a gioire, a divertire, a divertirsi.
Gianluca Foresi