Ilarità e riso nel Medioevo

da

Ridere? Una deformazione del corpo, il modo più osceno di rompere il silenzio, un atto di superbia contrario all’umiltà cristiana. Perché ridere significa giudicare.

Nel Medioevo si ride tanto, ma con qualche senso di colpa e – soprattutto – con la dovuta moderazione.

Gli uomini del Medioevo accompagnano a una fondamentale ostilità nei confronti del riso (motivata con l’idea platonica che il riso sia “sconvolgimento” dell’uomo, e con la convinzione, parzialmente confermata dai Vangeli, che Gesù non abbia mai riso), il convincimento aristotelico secondo cui il riso è proprio dell’uomo, appartiene alla sua natura e come tale non può essere totalmente soppresso.

gorleston-psalter-1024x1024

Salterio di Gorleston

La tendenza generale del Medioevo nei confronti del riso è quindi da una parte quella di condannarlo, dall’altra quella di “regolamentarlo”: in molti testi di ecclesiastici si trovano raccomandazioni che riguardano i modi di ridere, e la posizione cristiana nel corso dei secoli si evolve notevolmente. Come per altre questioni, la Chiesa, di fronte a un fenomeno che le sembra pericoloso e che non sa come controllare, inizialmente assume una posizione di rifiuto, poi, intorno al XII secolo, cerca piuttosto di controllarlo, distinguendo tra riso buono e cattivo, tra modi leciti e illeciti di ridere, giungendo a una sorta di classificazione delle pratiche del riso.

D’altra parte il Medioevo è lungo, e nel corso di mille anni si passerà dal modello monastico del riso represso e soffocato al tempo della liberazione, e che è quello della riscossa dei laici e della letteratura volgare, quando si sviluppano – in ambito letterario – la satira e la parodia. Poi arriverà la Scolastica che redige una casistica del riso: che tipo di riso è lecito? Quando? Come?

Nella letteratura di questo periodo troviamo una serie di testi intorno al termine “hilaris”, che si riferisce al viso e sta a definire un viso giocoso, piacevole, nei termini nostri “ridente”. Le Goff cita anche uno studio di Fernand Vercautern in cui alla fine del XI secolo appare l’espressione di hilaris dator, il donatore sorridente: quando si fa la carità bisogna farla contenti.

Nel XII secolo, nasce poi il topos del “Re faceto”: “È nel quadro della corte – scrive Le Goff – che fare degli scherzi è diventata una delle funzioni quasi obbligate del re. Il primo rex facetus è Enrico II d’Inghilterra, di cui si tramandano le battute, le occasioni in cui si mette a ridere del tale o del talaltro; si intuisce addirittura che il riso diventa quasi uno strumento di governo, in ogni caso un’immagine del potere”.

D’altra parte è significativo anche che san Luigi – consigliato dai frati mendicanti, di cui si circondava – ‘regolamentava’ il riso in modo tanto dettagliato da arrivare a evitare, per esempio, di ridere il venerdì.

Il primo grande testo normativo cristiano sul riso è il quinto capitolo del libro II del Pedagogo di Clemente Alessandrino (morto nel 215) in cui i fautori del riso vengono cacciati dalla Repubblica, con un’attitudine platonica che prolunga il rifiuto del riso da parte della filosofia greca perché conduce alle azioni ‘basse’.

Ritratto del buffone Gonella

Ritratto del buffone Gonella

“La repressione – ricorda Le Goff – è stata una delle principali preoccupazioni dei legislatori monastici”. Il più celebre e il più influente tra questi è san Basilio, le cui Grandi e Piccole Regole, composte nel 357-58 sono state tradotte in latino a partire da Rufino di Aquileia. In queste regole il riso appare come un piacere carnale, conseguenza del peccato e quindi severamente proibito, perché ostacolo all’ascesi e alla salvezza. L’atteggiamento di Basilio in queste regole è duplice: nelle Grandi Regole, influenzato dall’idea dell’enkratèia (temperanza, moderazione), ne raccomanda un uso moderato, senza vietarlo, mentre nelle Piccole condanna il riso senza appello; e sarà proprio questa condanna a influenzare tutte le regole seguenti, attraverso la mediazione di Benedetto di Aniane.

Le Goff nota come lo stesso significato di eutrapelìa cambia nel corso dei secoli, divenendo sempre più peggiorativo: per i Greci, infatti, contraddistingueva l’uomo saggio, che sa essere serio e gioioso, mentre per i cristiani diventa sinonimo di scurrilitas.

Condannando il riso, sottolinea sempre Le Goff, il cristianesimo condanna e congeda il mimo, il buffone, l’attore comico, il teatro, il gesticolatore, e il commediante, insomma il ‘giullare’. “Il nuovo eroe della società cristiana è l’uomo che non ride, il monaco, che il Medioevo definirà come ‘colui che piange’”. Particolare rilievo assume quindi il fatto che ‘l’uomo nuovo’, Francesco d’Assisi, che si trova a vivere da protagonista il passaggio dalla società altomedievale a quella bassomedievale, dalla Chiesa alla borghesia mercantile, adotti per se stesso l’epiteto di “giullare di Dio”.

Martirio di san Lorenzo (Pietro da Cortona)

Martirio di san Lorenzo (Pietro da Cortona)

L’aneddotica riguardante l’umorismo dimostrato da molti santi è sicuramente molto densa. E anche se di solito si ritiene che gli uomini di chiesa difficilmente siano inclini al riso, ci sono personaggi che vengono oggi ricordati dall’agiografia proprio per il loro spiccato senso dell’umorismo. Passando in rassegna solo pochi esempi, possiamo ricordare che Sulpicio Severo dice di san Martino che non fu mai visto da alcuno né in preda all’ira né in preda all’ilarità, ma ricorda del santo – come sottolinea Eco ne Il nome della rosa – alcune risposte argutamente spirituali (spiritualiter salsa). Giovanni di Salisbury dal canto suo raccomandava una “modesta ilarità”.

Ci sono poi i due episodi di san Lorenzo e san Mauro, entrambi protagonisti di scherzi durante il martirio: esempi quindi di umorismo capace di farsi beffe della morte e dei carnefici. Di san Mauro si racconta che quando i pagani lo posero nell’acqua bollente per martirizzarlo, egli si lamentò che il bagno fosse troppo freddo; il governatore pagano mise la mano nell’acqua per controllare e si ustionò. Ambrogio nel De officiis raccontando il martirio di san Lorenzo menziona la graticola, strumento del supplizio, rimarcando la frase con cui il protodiacono della chiesa di Roma rivolgendosi ai suoi aguzzini dice: “Sono cotto, rigirami e mangia!”.

Nel Liber de gradibus humilitatis et superbiae, san Bernardo dedica il terzo grado dell’orgoglio alla “inepta laetitia”, particolarmente sospetta in un monastero, nel quale devono regnare le lacrime della compunzione e dal quale sono bandite le risate. Bernardo ritorna sulla questione del riso nei suoi celebri sermoni sul Cantico dei Cantici, ma in questo caso, come nota Jean-Claude Schmitt, il suo giudizio è più attenuato: “Il corpo riceve e diffonde attraverso le membra e i sensi la luce dello spirito; quest’ultima rifulge in ogni atto, nella parola, nello sguardo, nell’andatura, nel riso temprata di gravità e colma di onestà”. Il ridere – commenta Schmitt – non è dunque sempre una cosa esecrabile: san Bernardo nomina esclusivamente il risus, ed evita di utilizzare il termine cachinnatio che ha una forte connotazione diabolica, designando proprio il sogghigno del diavolo.

A fianco di questa componente, di carattere psicologico, c’è poi, l’altra, di carattere fisico: il riso è deformazione del corpo. La condanna del riso si ricollega quindi alla condanna del teatro, dovuta, in parte, proprio al fatto che i giullari modificano il proprio corpo e lo rendono simile a mostri. E la stessa accentuatissima fisicità conferita al diavolo va in questa direzione.

“Il riso – sottolinea Le Goff rifacendosi a Marcel Mauss – è un fenomeno che si esprime nel corpo e attraverso il corpo; la codificazione del riso, la condanna del riso nell’ambiente monastico derivano, almeno in parte, dal suo pericoloso legame con il corpo”. Anche nella Divina Commedia, l’Inferno è caratterizzato proprio da un’accentuata corporeità, laddove il Paradiso è invece etereo e quasi indescrivibile, ed è non a caso nell’Inferno che troviamo i caratteri più grotteschi, ridicoli, a volte persino burleschi.

Nelle regole monastiche del V secolo il riso è descritto come il modo più osceno di rompere il silenzio, virtù essenziale del monaco. In seguito, con san Benedetto, la prospettiva cambia: secondo il fondatore del monachesimo occidentale il riso è contrario all’umiltà, proprio perché comporta in sé una forma di giudizio sulla cosa di cui si ride.

San Benedetto da Norcia

San Benedetto da Norcia

La Regula Magistri parla di “lucchetto della bocca” e della “barriera dei denti”. Quando il riso sta per esplodere, bisogna assolutamente impedire che questo riso si esprima, e si vede come tra tutte le forme negative di espressione che provengono dall’interno, il riso sia la peggiore: “la peggiore lordura della bocca”, così le buffonerie, e le parole oziose che portano al riso, sono condannate a reclusione perpetua.

Più sfumato del Maestro, Benedetto evoca nella sua regola quattro volte il riso. Nel capitolo IV lo proibisce due volte, dapprima lo associa a propositi cattivi o alle chiacchiere immoderate, stabilendo che bisogna astenersi da parole che possano provocare il riso, poi raccomanda la preghiera mescolata a pianti e gemiti. Infine, nel capitolo VI sulla taciturnitas, riprende la condanna del riso negli stessi termini del Maestro.

Il sollazzo è tuttavia tipico anche degli ambienti ecclesiastici: Innocenzo III, racconta Salimbene de Adam, sa alternare interdum gaudia curis quando risponde ad un giullare. Questi, in segno di omaggio, si rivolge al Pontefice con un piccolo componimento sgrammaticato. Il Papa risponde allora, dopo essersi informato riguardo alla sua provenienza, ‘Si veneris Romam habebis multam bonam’. Salimbene non specifica qui la forma di divertimento di Innocenzo III, ma è chiaro che si tratti dello stesso sollazzo di cui godono altri prelati”.

La rivoluzione definitiva arriva con Francesco d’Assisi, che considera la giocondità e la letizia addirittura un rimedio contro le tentazioni diaboliche, subordinate – tuttavia – all’origine religiosa. Beato il religioso, dice Francesco che ha giocondità e letizia, ma solo nelle “parole e nelle opere santissime del Signore”, e mediante queste conduce gli uomini all’amore di Dio.

Insomma, il riso e la letizia non sono rifiutati dal santo, ma ‘orientati’. Francesco arriva a condannare severamente “quel religioso che si diletta in parole inutili e frivole e conduce gli uomini al riso”. Il giullare di Dio è ben diverso dal giullare tout-court. Vale la pena, però, di sottolineare che, in un contesto religioso in cui si tende a spiegare come bisogna essere allegri, Francesco spiega perché bisogna esserlo. Il giullare di Dio, insomma non condanna la risata, così come non esalta l’allegria. A lui interessa sempre quello che c’è dietro; le motivazioni e gli obiettivi, cioè, che si celano dietro l’allegria o dietro uno scherzo: non è una moderazione che chiede, ma una motivazione. Non è il riso il sé che il santo condanna, ma la frivolezza.

Francesco giullare di Dio (1950)

Francesco giullare di Dio (1950)

Il riso può quindi essere un mezzo importante, ma non deve essere un fine, un diletto.

È interessante vedere come il messaggio di Francesco sia stato recepito dai frati. Le Goff sottolinea che con Francesco “il riso diventa una vera e propria forma di spiritualità e di comportamento”. Sta a dimostrarlo il racconto redatto da Tommaso di Eccleston, francescano inglese del secolo XIII (De adventu fratrum minorum in Angliam), sull’insediamento dei francescani in Inghilterra negli anni 1220-23.

Tommaso racconta che nel convento di Oxford i giovani frati avevano accolto le raccomandazioni di Francesco fino al punto di lasciarsi andare a crisi di pazze risate, cosa che finì con l’impensierire i superiori. Il ministro generale fece perciò sapere a questi giovani frati che non era il caso di esagerare, che lo stesso Francesco non passava la vita a ridere come un folle né aveva proposto ai suoi seguaci un modello di questo genere.

Vale la pena di sottolineare che nel momento in cui l’episodio è ambientato, Francesco è ancora vivo, il suo messaggio è particolarmente incisivo e la condotta dei frati potrebbe essere – anche se indirettamente – verificata dallo stesso fondatore. Ebbene, Tommaso racconta che i frati di Oxford erano in ogni momento tra loro così amabili e gioiosi che a mala pena potevano trattenersi dal ridere quando si incontravano. Ma siccome i giovani frati ridevano troppo spesso, fu ordinato a uno di loro che ogni qual volta avesse riso in coro o alla mensa, altrettante volte si dovesse punire con la disciplina. Il racconto prosegue in modo così curioso che finisce col diventare involontariamente comico: Tommaso racconta infatti che in un solo giorno quel frate ricevesse la disciplina undici volte senza poter tuttavia reprimere il riso. E una notte ha una visione: vede il crocifisso della chiesa che rimprovera personalmente i frati che ridono e, addirittura, cerca di staccare le mani dalla croce per scendere e andarsene, tanto che il frate guardiano sale e si mette a ribattere i chiodi per impedire al crocifisso di liberarsi!

Il Nome della rosa, Guglielmo da Baskerville

Il Nome della Rosa, Guglielmo da Baskerville

Se in questo episodio Tommaso di Eccleston ci mostra la degenerazione a cui aveva portato un’interpretazione troppo ‘estrema’ dell’invito alla gioia di Francesco, lo stesso autore, in un altro episodio della stessa cronaca, illustra come la mentalità di tanti frati avesse semplicemente ignorato il messaggio gioioso di Francesco, per adottare l’atteggiamento monastico tradizionale nei confronti del riso. Tommaso parla infatti di frate Enrico di Bruford, che quando era ancora novizio compose durante la meditazione un canto contro le tentazioni che il frate deve combattere, e che si apre proprio con un invito a non ridere perché “tu sei frate minore, non ridere mai, perché convengono a te soltanto le lacrime”. Eppure, a testimoniare come l’umorismo sia stato effettivamente ereditato dall’ordine francescano, ci sono molti esempi illustri (a cominciare da Bernardino da Siena, autentico show man, in grado di catturare l’attenzione dei fedeli anche con la comicità) perfettamente sintetizzati da un passaggio del Nome della Rosa di Umberto Eco, che mette in scena il conflitto tra la visione monastica (di Jorge de Burgos) e quella francescana (del protagonista, Guglielmo da Baskerville):

Il Nome della rosa, Jorge de Burgos

Il Nome della Rosa, Jorge de Burgos

“Tu sei peggio del diavolo, minorita”, disse allora Jorge. “Sei un giullare, come il santo che vi ha partoriti. Sei come il tuo Francesco che de toto corpore fecerat linguam, che teneva sermoni dando spettacoli come saltimbanchi, che confondeva l’avaro mettendogli in mano monete d’oro, che umiliava la devozione delle suore recitando il Miserere invece della predica, che mendicava in francese, e imitava con un pezzo di legno i movimenti di chi suona il violino, che si travestiva da vagabondo per confondere i frati ghiottoni, che si gettava nudo sulla neve, parlava con gli animali e le erbe, trasformava lo stesso mistero della natività in spettacolo di villaggio, invocava l’agnello di Bethlehem imitando il belato della pecora”.

Arnaldo Casali