Il Papato voleva liberarsi della ingombrante e pericolosa presenza dei Longobardi, i quali miravano ad ingrandire i propri possedimenti in Italia; per farlo il Pontefice aveva bisogno dei Franchi, ma doveva anche evitare che questi si sostituissero a quelli da cacciare. I Longobardi volevano tenere lontani i Franchi dalla penisola e, per questo, avevano stretto alleanze matrimoniali con i regnanti d’oltralpe. I Franchi, però, erano già intervenuti a favore del Papa in più occasioni e l’idea di allargare i propri confini non era peregrina. Da questa situazione ingarbugliata e politicamente instabile prese corpo l’idea di un’Europa unita che facesse risplendere i fasti dell’impero romano.
La richiesta di aiuto
Carlo re dei franchi, come già aveva fatto il padre di Pipino il breve, venuto in aiuto di papa Stefano II contro Astolfo re dei Longobardi nel 754 e nel 756, accolse senza pensarci sopra più di tanto la richiesta di aiuto di papa Adriano I e scese in Italia con un forte esercito, diviso in due colonne, contro Desiderio, duca di Toscana e ultimo re longobardo. L’inviato di papa Adriano giunse alla corte di Carlo a Thionville, sulla Mosella, a nord di Metz, recando una richiesta di soccorso: «Essi (i Longobardi) intendono attaccarci da terra e dal mare, conquistare la città di Roma e prendere noi stessi come prigionieri… Perciò, in nome del Dio vivente e del Principe degli Apostoli, vi imploriamo di accorrere in nostro aiuto, altrimenti saremo distrutti». Carlo aveva già rotto con re Desiderio dopo averne sposato e ripudiato la figlia, quella Ermengarda (il cui nome viene riportato da Manzoni, ma non da fonti storiche), forse perché sterile («abbandonata dallo sposo come morta» scrive il biografo Eginardo) e contestando «di non aver osservato le clausole che l’accompagnavano. Era stata promessa la riconsegna delle città dell’Esercato e della Pentapoli al Papa, come pegno di quella pace che le nozze tra Carlo ed Ermengarda dovevano esaltare».
L’organizzazione della spedizione
L’entità delle forze di Carlo Magno è sconosciuta, anche se alcune fonti affermano che poteva disporre soltanto di alcune migliaia di cavalieri, secondo altre poteva mettere in campo centomila uomini tra cavalleria e fanteria. Sappiamo con certezza che Carlo divise le sue forze in due colonne (anche nel corso delle guerre contro i Sassoni e gli Avari dimostrò di poter coordinare eserciti divisi su due o tre colonne per stringere il nemico in una tenaglia) per entrare in Italia attraverso le Alpi: lo zio Bernardo seguì la direttrice che passava per il valico del Gran San Bernardo, mentre Carlo puntò sul Moncenisio e a passare la Dora a Susa. Dopo aver passato le alpi Bernardo investì Ivrea e, secondo il “Chronicon Imaginis Mundi” di fra’ Giacomo da Acqui, percorse la Via Francesa, diretta verso Vercelli e Pavia. Oltrepassato senza difficoltà il punto più alto dei valichi alpini, le truppe franche al comando di Carlo iniziarono a scendere verso la pianura, ma trovarono la strada bloccata da una fortificazione presidiata dall’esercito di Desiderio: le Chiuse di Susa.
La linea difensiva longobarda
«Da cosa fossero costituite queste difese è difficile dire: si può ipotizzare che fossero in muratura solo in piccola parte, viste le poche tracce ritrovate. Più probabilmente erano formate da un terrapieno ottenuto con la terra scavata, sul quale si trovava una palizzata più o meno alta e più o meno rinforzata con pietre, pali acuminati e rami spinosi, secondo una tecnica che le legioni romane avevano diffuso in tutta Europa. Il sistema inoltre doveva essere completato con fortini, baraccamenti per i soldati, recinti per i cavalli e magazzini di armi e rifornimenti».
L’intenzione di re Desiderio, nel costruire un vallo sulla Dora e un campo trincerato a Mazzè, era quella di impedire agli attaccanti, provenienti da nord, di passare il fiume e prendere alle spalle i difensori delle fortificazioni principali del regno. Costruire uno sbarramento sulla sponda vercellese non era, inoltre, possibile a causa del terreno paludoso e scarsamente difendibile. Un campo trincerato sulla sponda occidentale della Dora, invece, avrebbe permesso di frenare l’impeto della cavalleria pesante franca.
«Carlo, avaro del sangue dei propri soldati, decise di non tentare un attacco frontale, cercando un passaggio alternativo. Fu probabilmente un informatore, vuoi il diacono Martino di manzoniana memoria, vuoi un giullare longobardo, a indicare un sentiero non custodito sulla riva destra della Dora, forse una delle vie di transito alternative alla strada romana più conosciuta e che era stata bloccata dalle mura longobarde. I reparti scelti di Carlo sfruttarono quindi l’itinerario passante sul lato destro della Dora fino all’attuale Villar Focchiardo, accedendo ai sentieri della Val Sangone sconfissero rapidamente l’esercito longobardo». Le mappe turistiche odierne indicano un sentiero che si inerpica tra i monti come “Sentiero Franco”, indicandolo come il tragitto seguito dai soldati del conte Eccardo.
La battaglia
La famosa battaglia delle Chiuse si svolse all’imbocco della Valle di Susa, esattamente tra i contrafforti del Monte Pirchiriano, dove sorge la Sacra di San Michele, e il Monte Caprasio. Il racconto della battaglia delle Chiuse di Susa trova spazio, con toni poetici, nella tragedia “Adelchi” di Alessandro Manzoni. Il figlio di Desiderio vorrebbe inseguire Carlo che finge la ritirata, ma «Sull’armi sue! Nol posso! In campo aperto. Stargli a fronte, non posso! in queste Chiuse». La ritirata, dopo tre giorni d’assedio, è una finta, perché la cavalleria franca ha trovato un passaggio per giungere alle spalle di Adelchi, il quale viene sconfitto e costretto a riparare a Verona. Un anno dopo dovrà cedere la città ai Franchi e fuggire a Costantinopoli.
«Dopo aver tentato senza successo di aprirsi un varco, Carlo avviò inutili trattative, mentre i suoi uomini brontolavano. Finalmente, autorizzò un piccolo reparto a esplorare una possibile via alternativa; ne venne scoperta una, forse per un caso fortunato, oppure (stando alla tradizione) grazie a un menestrello longobardo disertore, che venne lautamente ricompensato per il suo voltafaccia. In qualunque modo vi siano riusciti, quando uno squadrone di cavalleria comparve sul fianco longobardo, i difensori furono presi dal panico e fuggirono verso la città fortificata di Pavia, a sud-ovest di Milano. È anche verosimile che la loro fuga fosse provocata dalla notizia che Bernardo si avvicinava da est. Gli impazienti soldati di Carlo si gettarono avidamente sulle ricchezze abbandonate nella fortezza longobarda».
Nel 754 Pipino aveva aggirato le difese longobarde, appare quindi difficilmente credibile che i Longobardi si siano lasciati sorprendere, nuovamente, allo stesso modo. Forse non fu un giullare ad indicare la via a Carlo, ma forse qualche duca longobardo che tradì; d’altronde i duchi di Spoleto e Benevento, per quanto longobardi, non avevano voluto aiutare Desiderio e il duca del Friuli non aveva mosso un soldato dopo essere stato defraudato, secondo lui, del titolo di re proprio da Desiderio.
Carlo Magno trovò sostegno anche nella vicina abbazia di Novalesa e nel monaco Frodoino (tra i due nacque un’amicizia, tanto che Carlo Magno dopo essersi fatto incoronare a Roma, consegnò all’abate il figlio Ugo, affinché ne facesse un buon monaco). Frodoino fornì a Carlo indicazioni sui sentieri di montagna, chiamò pastori e contadini, mandriani e boscaioli per scoprire e indicare i sentieri che avrebbero potuto aggirare le fortificazioni longobarde e dilagare in pianura. Dalla battaglia di Susa inizia a circolare quell’insieme di voci e leggende che accompagneranno la figura di Carlo. Come nel caso del «cervo bianchissimo, con quattro rami di corna, mandato da Dio per guidarlo attraverso gli anfratti fino alla vittoria. In altre cronache postume si attribuisce lo stratagemma della discesa alle spalle dei Longobardi a un misterioso diacono Martino, spedito a Carlo provvidenzialmente dall’arcivescovo di Ravenna per svelargli il cammino … Altre guide miracolose dell’impresa di Carlo furono adombrate in giovani pastori silenziosi improvvisamente comparsi alla Novalesa per trascinarlo ai favori della battaglia. Fu persino inventato un trombettiere longobardo che venne ad offrire il tradimento in cambio d’una investitura. Sarebbe diventato signore di San Michele». Dalle leggende si può estrapolare una parte di verità, dal tradimento ai sentieri indicati dai pastori, fino alla notizia che la colonna franca di Bernardo era ormai alle spalle dei difensori, velocizzando la rotta. «Lo Scudiero: I Franchi! i Franchi!; Desiderio: Che dici, insano?; Un altro scudiero: I Franchi, o re; Desiderio: Che Franchi?; (la scena s’affolla di Longobardi fuggitivi. Entra Baudo); Adelchi: Baudo, che fu?; Baudo: Morte e sventura! Il campo. È invaso e rotto d’ogniparte: al dorso piombano i Franchi ad assalirci; Desiderio: I Franchi! Per qual via?; Baudo: Chi lo sa? Adelchi: Corriamo; ei fia. Un drappello sbandato (in atto di partire); Baudo: Un’oste intera: Gli sbandati siam noi; tutto è perduto». Tra Giaveno e Avigliana i longobardi furono colti di sorpresa e sbaragliati. Nell’Adelchi un conte riferisce a Carlo: «i Longobardi, tra il nostro campo e il suo, sfilati in folla, sfuggono a destra ed a sinistra». Sgomento e sbalordimento furono tanto grandi e più che parlare di battaglia si può raccontare di fuga. Secondo un’altra leggenda la battaglia fu sanguinosissima e Adelchi si coprì di gloria, piombando più volte sul nemico con una mazza di ferro e facendone strage. In base alle più recenti interpretazioni storiche Adelchi non si sarebbe trovato alla Chiuse di Susa, ma a sbarrare il passo all’armata franca comandata da Bernardo e scesa dal passo del Gran San Bernardo.
«Adelchi: (avviandosi) O padre; accorri, veglia alle Chiuse. (parte seguito da Anfrido, da Baudo e da alcuni Longobardi); Desiderio: (ai fuggitivi che attraversano la scena) Sciagurati! almeno alle Chiuse con me: se tanto a core vi sta la vita, ivi son torri e mura da porla in salvo. (sopraggiungono soldati fuggitivi dalla parte opposta a quella da cui è partito Adelchi); Un soldato fuggitivo: O re, tu qui? Deh! fuggi. (attraversa le scene); Desiderio: Infame! Al re questo consiglio? E voi da chi fuggite? In abbandon le Chiuse voi lasciate così? Che fu? Viltade v’ha tolto il senno. (i soldati continuano a fuggire. Desiderio appunta la spada al petto d’uno di essi, e lo ferma) Senza cor, se il ferro fuggir ti fa, questo è pur ferro, e uccide come quello de’ Franchi. Al re favella: Perché fuggite dalle Chiuse?; Soldati: I Franchi dall’altra parte hanno sorpreso il campo, gli abbiam veduti dalle torri. I nostri son dispersi; Desiderio: Tu menti. Il figliuol mio gli ha radunati, e li conduce incontro a que’ pochi nemici. Indietro!; Soldati: O sire, non è più tempo; e’ son pochi; e’ giungono, scampo non v’è: schierati ei sono; e i nostri chi qua, chi là, senz’arme, in fuga: Adelchi non li raduna: siam traditi; Desiderio: (ai fuggitivi che s’affollano) Oh vili! Alle Chiuse salviamci; ivi a difesa restar si può; Un soldato: Sono deserte: i Franchi le passeranno; e noi siam posti intanto tra due nemici: un piccol varco appena resta alla fuga: or or fia chiuso; Desiderio: Ebbene moriam qui da guerrier; Un altro soldato: Siamo traditi, Siam venduti al macello; Un altro soldato: In giusta guerra morir vogliam, come a guerrer conviensi, Non igozzati a tradimento; Un altro soldato: I Franchi!; Molti soldati: Fuggiamo!; Desiderio: Ebben correte, anch’io con voi fuggo: è destin di chi comanda ai tristi. (s’avvia coi fuggitivi)».
L’epilogo
La linea di ritirata dell’esercito longobardo e dell’inseguimento dei Franchi risulta perfettamente coerente lungo il percorso della strada regia o francigena fino a Pavia. La città venne assediata.
Il fatto che Carlo abbia circondato la città per 10 mesi indicati disponesse di tutte piuttosto numerose Ma che non possedesse macchine per abbattere le mura i Franchi Inoltre potevano attingere alle risorse offerte dai campi intorno a Pavia nel tempo del raccolto10. Le scarse conoscenze ossidionali portano i «Pipinidi, ancora al tempo di Carlo Magno, mostrano a loro volta di trovarsi alquanto a disagio davanti alle cerchie urbane tardo-antiche” tanto che Carlo Magno “impose al duca di Benevento Grimoaldo di abbattere le mura di Salerno, Conza e Acerenza»11.
Nel giugno del 774 re Desiderio dovette capitolare senza condizioni e accettare di finire in un monastero a Corbie. «Vincitore, Carlo s’installò nel palazzo regio e fece distribuire ai suoi guerrieri il tesoro del suocero … Il re franco non abolì il regno conquistato, e neppure lo incorporò nel suo regno; decise, invece, di mantenere le strutture di governo e l’autonomia amministrativa, e s’intitolò egli stesso, a partire da allora, rex Langobardorum». Il Papato era la sicuro e la stella di Carlo Magno era più brillante che mai.
Umberto Maiorca