Per quanto gli assetti creati sotto le insegne di Roma siano stati in genere duraturi, le morti delle città antiche furono eventi relativamente frequenti nella Penisola.
Sin da tempi remoti, il tema ha attratto l’attenzione degli studi: una morte va sempre spiegata. Due i “serial killer” sovente portati alla sbarra: invasioni barbariche e terremoti hanno predominato (e predominano) gran parte dell’edito inerente. Tuttavia, se la scelta di insediare un luogo è estremamente multifattoriale, ancora più complessa è la decisione di abbandonarlo dopo secoli.
I muri si caricano di significati che esulano dalla topografia, tali da far restare anche di fronte a migliori opzioni: andarsene è sempre la scelta più difficile. Vediamo ancora città distrutte da fiumi in piena, sciami sismici ed eserciti in lotta ma si ritorna, le macerie si rinnalzano e la vita continua, diversa ma sempre lì.
Non sono pertanto scosse o invasori, incendi né alluvioni a uccidere una città: questa muore quando non vi sono motivazioni per tornare; e ciò è spesso avvenuto decenni prima che il “serial killer” sferri il colpo di grazia.
Trevi in Umbria è il giusto sito per cogliere la variegata complessità della morte di un insediamento. Le città piccole, infatti, si prestano alla lettura di quei fenomeni che, nella vastità di insediamenti maggiori, ci parrebbero confusi da un ronzante rumore di fondo.
Lì gli scavi diretti da Donatella Scortecci (UniPG) stanno portando alla luce nel sito di Pietrarossa tracce di un passato ben più articolato di quanto un tempo creduto.
La cittadina dovette sorgere con la romanizzazione del territorio umbro, suggellata dalla fondazione della Colonia Latina di Spoleto e dal passaggio della Via Flaminia. Ceramiche e monete emerse nel 2016 (III sec. a.C.) fanno da pendant all’enorme base repubblicana con dedica a Giove, rinvenuta nel 1980: quel Giove Capitolino, emblema dell’espansione romana fatta di strade di penetrazione e piccole repliche di Roma.
La grande domus attualmente indagata dovette essere costruita intorno al I sec. a.C., mentre a modifiche medio-imperiali si devono gli splendidi mosaici policromi appena scoperti.
Per il resto, i ritrovamenti stanno sottolineando l’inserimento di Trebiae nel sistema commerciale basato sulla navigabilità del Clitunno, il quale dovette fare della città una sorta di succursale commerciale per Spoleto da e verso Roma.
La domus restò in uso fino al V secolo, quando gli spazi vennero sottoposti a una drastica selezione: alcuni definitivamente abbandonati; altri rifunzionalizzati, con la realizzazione di un piccolo cimitero infantile sulle pavimentazioni antiche.
Trebiae sta morendo: i terremoti? I barbari? No, sta solo cambiando aspetto in ragione di un mutato contesto. Sul grande mosaico marino rinvenuto nel 2017 viene deposta una spessa colte di ceneri, ossa animali e ceramiche: decenni di cucina e formidabili informazioni sulla transizione tardoantica.
Non è solo la cenere a depositarsi: anche l’argilla in due secoli di alluvioni ricoprirà (e salverà) pavimenti e muri dallo smontaggio e dal riuso che ne ha asportato il resto. E se il dissesto idrogeologico è un riflesso della morte dello Stato romano, questo finì per far scomparire importazioni a lunga distanza, con la perdita della navigabilità fluviale.
È la fine? No! C’è ancora vita, diversa, ma sempre tale: un’officina si impianta su quello che quasi certamente è il lato orientale del peristilio, lungo la più probabile Flaminia.
Si fondono metalli per farvi oggetti d’uso quotidiano, antiche monete con effigi femminili vengono raccolte per farne monili, si strappano e immagazzinano lastre di marmo così da rivenderle.
È il ciclo del recupero a dare nuove motivazioni ed è “vita”, così come lo sono le tombe. Una necropoli di individui dai tratti culturali germanici viene creata pochi metri dalla chiesa (VI-VII sec.).
Facile tirare in ballo i Longobardi, a pochi passi da un Ducato nascente. Nel frattempo altra vita sta accumulando uno spesso strato organico su ciò che resta dei ruderi della città. Poi? Man mano che si lascia la tarda antichità, le tracce di Trebiae vengono sempre meno. A 2 km di distanza, ora, c’è la nuova Trevi. Lì “cocci” rovinati lungo le pendici del colle e tombe (VI sec.) stanno dando finalmente un “quando” a delle mura di incerta datazione.
Ma anche quando una città muore ne resta la memoria, in fondo l’unica cosa a sopravvivere alla morte.
Il nostro “luogo della memoria”, a dirla con Andrea Augenti, è la chiesa di Pietrarossa: quella S. Maria de Trevi, non a caso, delle carte bassomedievali, forse l’antica cattedrale per il vescovato trevano, presto assorbito dalla “mega-diocesi” spoletina.
Ma la memoria è un fluido potente per le istanze contingenti, come i totalitarismi del passato recente ci hanno tristemente mostrato.
Tuttavia una città con un suo vescovo non basta per rivendicare autonomie e filiazioni: nel mondo medievale serve un santo! Già Foligno nel X secolo aveva avanzato rivendicazioni, sognando il proprio martire, Feliciano, abbattere un tempio in quel Castrum Trebatium che è la Trevi in altura. Anche Perugia farà morire il suo Costanzo a due passi dalla Porta del Cieco.
Nel XII secolo, però, con un Ducato in progressiva crisi, i tempi sono maturi perché Trevi giochi le proprie carte nel sorgere dei comuni. La Passio di S. Emiliano, opera di un ignoto benedettino, è un piccolo capolavoro di diplomazia e uso strumentale della memoria.
Trevi ha avuto un suo santo! Giunse come vescovo su consiglio degli spoletini (“date a Cesare quello che è di Cesare”), scampò miracolosamente a mille supplizi e, infine, subì “doverosamente” il martirio. Dove? Guarda caso nel retro dell’Abbazia di Bovara: il vero mandante ideologico delle svolte comunali trevane. Emiliano porse il capo ai suoi carnefici a tre miglia da quella “civitas Lucana” (Pietrarossa) che dista, appunto, esattamente tre miglia dal millenario Ulivo del martirio.
Emiliano, eroe fondatore della diocesi d’un tempo, in quella città antica esistita in quel luogo che nello stesso secolo ancora compare come “Trevi de Planu”.
Bisogna allora distruggere la città erede, esecrarla con il furto delle reliquie e razziare l’Abbazia, garante del ricordo della città antica (e dell’uso dello stesso).
Così, nel 1214, Spoleto vendicò l’affronto di una sovranità non riconosciuta. Ma era troppo tardi e Trevi è ancora lì a far mostra di sé: la città vecchia con le sue storie, vere e presunte, diede alla nuova altri motivi per restare.
Stefano Bordoni