Genserico, il vandalo che umiliò Roma

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“Grande pensatore, uomo di poche parole. Disprezzava il lusso ed era terribile nei suoi scatti d’ira. Desideroso in continuazione di nuove conquiste, era molto abile nel comandare i suoi barbari e nel fomentare zizzania fra i suoi nemici.”

Genserico saccheggia Roma nel 455 (Karl Brjullov, 1836)

Così lo storico Jordanes (VI sec.) descrisse, circa un secolo dopo dal suo apogeo, il carattere del più abile re vandalo.

Genserico era figlio naturale di Godigiseleo, re dei Vandali. Il popolo che noi diciamo Vandalo, era in realtà una confederazione di tribù germaniche situate oltre il Danubio. Lo storico Tacito li situava, nella sua opera La Germania, del I d.C., oltre i territori dell’Impero assieme ai Marsi, ai Gambrivi e agli Suebi.

Paolo Diacono, nella sua Storia dei Longobardi, ci informa che, dopo una migrazione dei Winnili (Longobardi) dalla Scandinavia alla Scoringia, identificabile con l’attuale Polonia, i Vandali, sotto la guida dei due re, Ambri e Assi, guerreggiavano coi popoli circostanti. Dunque verso il IV secolo, essi dovevano trovarsi nell’area dell’Ungheria o della Polonia. Forse nel 406, i gruppi più riottosi, i Vandali Asdingi e Silingi, avrebbero attraversato il Reno presso Magonza, con alla testa Gunderico (primo figlio di Godigiseleo) e, assieme a gruppi di Suebi ed Alani, dopo aver raso al suolo la città, avrebbero invaso la Gallia. Dopo tre anni di marce e saccheggi, li ritroviamo presso i Pirenei, superati i quali, destarono la preoccupazione dell’imperatore d’Occidente il quale richiese ai più fidati Visigoti di attaccarli e cacciarli. Negli anni seguenti il popolo vandalo fu impegnato in Spagna a fronteggiare le tribù barbare rivali, i possidenti romano-ispanici e le truppe visigote filo-romane che li avrebbero rintuzzati nel sud della penisola che, ma non è certo, avrebbe ereditato il nome di Vandalusia, terra dei Vandali, oggi Andalusia.

Le migrazioni dei Vandali

Gli anni della occupazione della penisola iberica dovettero essere particolarmente violenti. Così li ricorda il cronista Idazio: “Imperversando i barbari per la Spagna, e infuriando il male della pestilenza, i tirannici esattori e le milizie, depredano le sostanze nascoste nelle città. La carestia infuriò così forte che carni umane furono divorate dal genere umano: le madri uccisero o cossero i propri nati, mangiandoseli. Le bestie feroci, abituate ai cadaveri uccisi con la spada, dalla fame o malattia, uccidono qualsiasi essere umano con le forze che gli restano, si nutrono di carne, preparando così la brutale distruzione del genere umano. E la punizione di Dio, preannunciata dai profeti, si verificò con le quattro piaghe che devastarono l’intera Terra: la carestia, la peste, la spada e le bestie.”
Nel 420 i Vandali riportano un’importante vittoria contro l’esercito goto-romano capitanato da Castino, assicurandosi il dominio sui porti della Spagna meridionale. Dopo aver assunto dei costruttori di navi del luogo, i Vandali iniziarono timidamente a praticare la navigazione “arte a loro precedentemente sconosciuta”, ma ben presto i vascelli vandali raggiunsero le Baleari ed anche la Mauritania.
A capo dei Vandali, in questi anni, troviamo ancora Gunderico “ma egli – scrive lo storico romano Procopio – era ancora molto giovane, senza quel forte temperamento che invece era la caratteristica precipua di Genserico il quale aveva appreso l’arte della guerra alla perfezione ed era quindi il migliore fra tutti gli uomini”.
Così, verso il 428, la carica di sovrano passò – forse dopo la morte prematura di Gunderico – al fratellastro trentenne colui che avrebbe condotto il popolo vandalo verso memorabili imprese. Genserico doveva assecondare sia il desiderio dei veterani di stabilirsi in un territorio dove poter coltivare i campi, facendosi una famiglia, sia le leve più giovani e ambiziose: dopo aver compreso che essi mai avrebbero potuto rivestire funzioni in nome dell’Impero in Spagna, per la ingombrante presenza dei più fidati Visigoti, il sovrano stabilì di volgere le proprie attenzioni alla vicina provincia d’Africa.

Sant’Agostino in un affresco di Sandro Botticelli

Zoppo da una gamba, per una caduta mal curata, Genserico avrebbe riassaporato il gusto di condurre i propri uomini alla vittoria dal pontile di una nave, anziché dalla sella di un cavallo. Nel 429 l’intero popolo vandalo, ammontante a circa 50.000 uomini, di cui almeno 15.000 armati, attraversò i pochi chilometri dello stretto di Gibilterra, riversandosi in Mauritania dove la resistenza bizantina era minore: vi erano infatti stanziati solo 5 reggimenti comitatensi, di cui appena due effettivi e altre truppe preposte al presidio dei castelli, per un totale di circa 1.500 armati. La resistenza bizantina, perciò, fu praticamente nulla. A ciò si aggiunga, un possibile invito da parte del condottiero imperiale Bonifacio che, secondo Jordanes e Procopio, avrebbe addirittura favorito lo sbarco vandalo. Ma perché?

Bonifacio aveva mantenuto l’ordine in Mauritania con l’uso della forza, ottenendo brillanti risultati contro i Mauri e altri popoli del deserto. Ma sant’Agostino, in una lettera, lo rimprovera giacché ora quello stesso Bonifacio “tollera che i barbari saccheggino e devastino ampie regioni un tempo popolose e ora ridotte a squallidi deserti”.
Bonifacio viveva a quel tempo un profondo dissidio religioso: avrebbe voluto vivere ispirandosi al messaggio evangelico, e si trovò invece sempre a combattere ed uccidere. Agostino lo rassicurò più volte, affermando che “si inizia una guerra per conseguire la pace”, inoltre, pur avendo pensato di vivere in continenza per farsi monaco, Bonifacio sposò una donna ariana, suscitando lo sdegno del futuro santo il quale, comunque, si era comportato – all’ opposto- nello stesso modo: pur avendo vissuto in concubinato per quindici anni con una donna, da cui ebbe anche un figlio, Agostino infine la lasciò per farsi sacerdote. “Cosa altro posso dire in questo momento in cui i Vandali distruggono l’Africa e tu sei attanagliato da questa imbarazzante situazione, senza che tu faccia nulla? Non avrei dovuto dissuaderti dal farti monaco, almeno non avresti fatto danno alla collettività, continuando con la tua opera militare”! Rifiutatosi di recarsi a Ravenna nel 427 per spiegare i suoi insuccessi, Bonifacio provocò una spedizione finalizzata alla sua cattura. A questo punto –ma gli storici non concordano- avrebbe preferito l’aiuto dell’ariano Genserico anziché affrontare da solo l’esercito imperiale: fu perciò grazie a queste truppe – e la fede ariana della moglie non dovette certo essere un ostacolo!- che egli riuscì a ottenere una tregua con l’insoddisfatto imperatore per poi essere subito impegnato in una lotta contro i Vandali che, irrimediabilmente, perse.

Durante l’assedio di Ippona, dove riparò Bonifacio, moriva anche Sant’ Agostino, come narra il suo biografo Possidio che ricorda come “gli invasori passarono anche nelle altre regioni, e imperversando con ogni crudeltà saccheggiarono tutto ciò che poterono fra spoliazioni, stragi, tormenti, incendi e altri innumerevoli e nefandi disastri. Non risparmiarono né sesso né età, neanche i sacerdoti e i ministri di Dio, neppure gli ornamenti, le suppellettili e gli edifici delle chiese”.
Genserico e i suoi si erano dunque convertiti al cristianesimo, ma nella versione eretica di Ario, e perciò la guerra in Africa assunse anche i toni dell’intolleranza religiosa contro coloro che abitavano quelle regioni e che, come il loro vescovo Agostino, erano invece cattolici.

Le rovine della città romana di Ippona

Alla guida di Ippona venne posto l’alano Aspar, il quale stabilì rapporti più amicali con Genserico, che era “Re dei Vandali e degli Alani”, al punto da far riconoscere i Vandali come foederati. Aspar aveva mantenuto il controllo su Cartagine fino al 434, lasciando comunque a Genserico la possibilità di fare razzie dal porto di Ippona. Nel 439, con un attacco a sorpresa, stando a Idazio, i Vandali si impadronirono di Cartagine, del suo porto e dei suoi cantieri, riuscendo in breve tempo a far costruire una flotta assai potente. Già un anno dopo la conquista di Cartagine, Alani, Vandali, Goti e Mauri saccheggiano le coste della Sicilia che, dopo la caduta della Provincia d’Africa, era divenuta la principale fornitrice di olio e cereali dell’Italia. La flotta bizantina, con a capo il goto-romano Aerobindo, dovette rapidamente fare retromarcia, ancor prima di impegnar battaglia, per una minaccia unna nei Balcani e per gli attacchi persiani nel limes orientale.

L’imperatore, a questo punto, dovette riconoscere a Genserico il titolo di Governatore indipendente, concedendogli ampi territori della Mauritania, da Gibilterra a Cartagine, su tutte le Province dell’Africa occidentale (Proconsolare, Bizacena e Tripolitania). Genserico aveva ottenuto ciò che per molti germani era un sogno: essere cioè inquadrato in quel sistema imperiale che era l’autorità riconosciuta da Oriente a Occidente.
Il poeta Merobaudo così descrive questo mutamento: “Il barbaro che ha osato devastare il palazzo reale di Didone […] ora non si presenta più come nemico e desidera ardentemente avvicinarsi alla dottrina di Roma, per trattare i Romani come suoi congiunti e per far unire in matrimonio la sua prole”. In effetti una proposta di matrimonio fra Eudocia, figlia dell’imperatore d’Occidente, e Unnerico, figlio del re vandalo, era stata probabilmente avanzata dal generale Ezio, consapevole dell’impossibilità di sconfiggere in battaglia i Vandali. L’allettante proposta però indusse Genserico a commettere il suo primo grande errore politico: Unnerico era già sposato con una principessa visigota, ma Genserico, per liberarlo da quel vincolo, fece accusare ingiustamente la fanciulla di aver tentato di avvelenarlo. Dopo averle fatto tagliare naso e orecchie, fu rimandata a Tolosa dal padre che giurò vendetta. Da allora tra Visigoti e Vandali fu guerra aperta mentre la proposta di matrimonio proveniente da Roma fu annullata: Genserico aveva acquisito soltanto un nuovo nemico.

Medaglione di Licinia Eudocia, V secolo

Dopo la conquista africana, Genserico dovette probabilmente godersi i frutti delle sue conquiste: il poeta Sidonio lo descrive come “un ubriacone, la cui flaccidezza ha preso il sopravvento e il cui stomaco, già pieno di cibarie, riesce a malapena a digerire altro”. Se il disilluso poeta latino voleva raffigurare un condottiero dimentico delle sue imprese e oramai sprofondato nel vizio, i fatti degli anni successivi lo dovettero far lungamente ricredere.
Dopo l’omicidio del generale Ezio, ordito dal sospettoso imperatore Valentiniano, quest’ultimo fu pugnalato a morte dai buccellarii, le guardie del corpo, che così vendicarono il generale alano. La situazione politica a Roma precipitò: la vedova di Valentiniano dovette sposare Petronio Massimo, nuovo imperatore, ed Eudocia, precedentemente promessa al figlio di Genserico, fu data in sposa al figlio dell’usurpatore. Ora che Ezio e Valentiniano, coi quali Genserico aveva stipulato un trattato di pace, erano morti, anche il trattato aveva perso la sua validità: Eudossia, inoltre, orripilata dal comportamento del suo nuovo marito, scrisse al re vandalo, richiedendo la sua protezione.
Per dieci anni i Vandali avevano rafforzato la loro flotta per una grande spedizione: ora era giunta la grande occasione. La missione fu organizzata in tempi rapidissimi e la bella stagione favorì la riuscita dell’impresa.

Il saccheggio di Roma in un’opera di Heinrich Leutemann del 1870

Alla fine del maggio del 455 la flotta giunse alle foci del Tevere e nessuno osò ostacolarla. L’esercito, composto da guerrieri vandali e cavalieri mauri, bloccò Porto e si accampò Ad sextum, probabilmente sulla via Portuense.
La notizia gettò Roma nel panico e lo stesso Petronio Massimo, preso da timore, il 31 maggio montò a cavallo per fuggire. La folla però, sentendosi abbandonata, dopo averlo riconosciuto, atterratolo da cavallo a sassate, lo linciò e il suo cadavere, fatto a pezzi, fu gettato nel Tevere: l’usurpazione di Petronio, durata appena tre mesi, si era conclusa nel modo più tragico.

I Vandali entrarono a Roma il 2 giugno, senza nessuna milizia ad ostacolarli. Il sovrano fu ricevuto da papa Leone – lo stesso che nel 452 aveva fermato Attila alle porte di Roma- il quale lo convinse a non mettere a ferro a fuoco l’Urbe. Perciò Genserico, che per le due settimane seguenti risiedette nel Palazzo imperiale sul Palatino, ebbe campo libero per saccheggiare la città, scegliendo i monumenti, razziando i palazzi, facendo un enorme bottino e riportando a Cartagine un grande numero di prigionieri. Prospero d’Aquitania, testimone degli eventi, ricorda che “per 14 giorni Roma fu spogliata di tutte le sue ricchezze, attraverso una sicura e libera ricerca del bottino”.

Valentiniano aveva fatto restaurare appena cinque anni prima il palazzo imperiale, da cui fu portata via una enorme quantità d’oro e di gemme. Fu asportata metà della volta dorata del tempio di Giove Capitolino, i tesori del Tempio di Salomone, portati a Roma da Tito, furono caricati sulle navi vandale, assieme a centinaia di insegne imperiali che andarono ad adornare il palazzo di Genserico.
Furono risparmiate solo le statue bronzee della città. A differenza di Alarico, che mostrò clemenza verso i luoghi di culto, Genserico – ariano intransigente – si accanì contro le chiese e le reliquie care ai cattolici. Inoltre, furono condotti come prigionieri anche l’imperatrice Eudossia con le sue figlie, Eudocia e Placidia, e anche Gaudenzio, figlio del generale Ezio. Roma, dopo secoli di imbattibilità, fu violata e oltraggiata lasciando nella memoria collettiva un terribile ed indelebile segno.

Dopo questo enorme successo, la grandezza di Genserico non venne più contrastata. Forte di questa consapevolezza avrebbe introdotto delle riforme innovative e clamorose. Per evitare congiure di tipo tribale, ai giovani furono concesse ampie fette nella gestione del potere, senza talvolta che essi appartenessero a famiglie vandale aristocratiche; persino la successione al trono non fu limitata alla sola famiglia reale, andando contro l’antica consuetudine germanica.

Procopio ci informa poi di una importante riforma militare: Genserico avrebbe infatti inquadrato i suoi guerrieri dividendoli in 80 compagnie guidate da capitani detti in greco chiliarca, che significa “comandante di 1000 uomini”. Lentamente però i veterani alani e vandali abbandonarono le armi, per crearsi una famiglia, lasciando spazio nell’esercito a guerrieri moreschi che andarono a costituire la nuova forza militare di Genserico.

I vandali si stabilirono nella prima metà del V secolo in Africa settentrionale. Il regno vandalo, che aveva la sua capitale in Cartagine, durò poco piú di cento anni e crollò nel 534, quando venne riconquistato dai bizantini

Negli anni seguenti la flotta vandala continuò incontrastata a saccheggiare le coste del Mediterraneo. Dopo il velleitario tentativo di reazione dell’imperatore Maggioriano (†460), Genserico riprese le sue scorribande nel Mediterraneo, soggiogando la Sardegna, la Corsica e le Baleari. Nel 467, però, Genserico commise il suo secondo errore politico, violando, durante una razzia, il territorio della Grecia meridionale, di pertinenza bizantina.
La reazione imperiale questa volta fu unanime e concorde: sarebbero stati stanziati 30.000 chili di oro e 300 di argento per allestire una flotta di 11.000 navi e 100.000 guerrieri. Le cifre – tramandate dagli storici coevi – sono certamente esagerate, ma l’azione imperiale fu seria, al punto da ridurre le finanze dell’Impero romano a poca cosa. Con a capo il generale Basilisco, la flotta bizantina si congiunse con quella italica di Marcellino e con quella africana guidata da Eraclio.

In Sardegna, Marcellino impegnò seriamente la flotta di Genserico, fino a recuperare il controllo sull’isola. In Sicilia, addirittura, Basilisco trionfò affondando 340 galee vandale. Eraclio, giunto in Tripolitania, sbarcò con una grande armata che ben presto si sarebbe scontrata con l’esercito vandalo che utilizzava una falange fatta di cammelli e uomini appiedati, armati di lance, scudi e giavellotti. Eraclio però neutralizzò la falange vandala grazie a un contrattacco di arcieri a cavallo, per lo più unni: per Eraclio la strada verso Cartagine era aperta.

La flotta di Basilisco attendeva gli eventi poco distante da Cartagine, attraccata all’attuale Capo Bon. Genserico dovette utilizzare tutta la sua abilità di stratega per uscire da una rischiosa empasse: dopo aver caricato di materiale infiammabile alcune vecchie galee, il condottiero vandalo le fece andare al largo, contro le navi di Basilisco. Al mattino, complice il vento, la flotta imperiale era in rotta. Marcellino, in Sicilia, cadde vittima di un attentato, probabilmente per mano di un sicario vandalo. Eraclio, rimasto solo, preferì ripiegare verso Oriente, anziché proseguire in quella che ora era una missione impossibile. I due imperi erano stati sconfitti, le finanze imperiali erano sul lastrico e Genserico risultava il condottiero più forte del Mediterraneo. Col fine di mantenere intatto il suo regno, “incoraggiava il re dei Visigoti, Eurico, ad ampliare i suoi territori a danno dell’Impero d’Occidente”, scrive Jordanes, e altrettanto fece con gli Ostrogoti per l’Italia e con gli Unni di Attila che contrappose, elargendo favori, ai Visigoti.

Negli ultimi anni della sua vita, Genserico mostrò un atteggiamento particolarmente mite, specie nei confronti dei cristiani cattolici. Dopo l’incontro con il magnanimo e incorruttibile ambasciatore bizantino Severo, che rifiutò ingenti somme di denaro pur di riportare in patria gli ostaggi, Genserico avrebbe ottenuto, grazie alla sua tolleranza, il riconoscimento da parte dell’Imperatore d’Oriente, di tutti i suoi territori, comprese le Baleari, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica.
L’anziano sovrano, oramai, rifuggiva la guerra: aveva assistito alla caduta dell’Impero d’Occidente, aveva creato un potente regno, era sopravvissuto ai più potenti condottieri del suo tempo ed aveva persino saccheggiato Roma.

Un anno dopo la deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente, nel 477, Genserico moriva, a circa 80 anni, di morte naturale, in uno scenario in cui i sovrani e i condottieri erano spesso mira di assassini e congiure.
Il suo regno, una creazione dovuta alla sua abilità e intraprendenza, non gli sarebbe sopravvissuto: dopo appena 50 anni, il regno vandalico viene riconquistato dai Bizantini di Giustiniano e il suo ultimo successore, Gelimero, sconfitto dal generale Belisario, viene condotto come prigioniero nel 534 a Costantinopoli.

Federico Canaccini
Questo articolo è stato pubblicato nel n. 207 della rivista MedioEvo (Aprile 2014).