Branca, Branca, Branca!
Leon! Leon! Leon!
Il 7 aprile 1966 sulle note della leggendaria fanfara col fischio composta da Carlo Rustichelli, l’Armata Brancaleone marcia sulla penisola e si prepara a conquistare il mondo del cinema e a segnare una nuova era nella comicità e nell’immaginario medievale.
Mario Monicelli, in realtà, ne parlerà semplicemente come di un film “ben riuscito” [leggi anche: Brancaleone nel racconto di Monicelli ]. D’altra parte per il regista toscano – scomparso nel 2010 a 95 anni – L’Armata Brancaleone è solo uno dei tanti classici diretti in 70 anni di carriera, tra i quali si annoverano Guardie e ladri con Totò e Aldo Fabrizi, I soliti ignoti, La grande guerra, Boccaccio ’70, Romanzo popolare, Amici miei, Un borghese piccolo piccolo, Il marchese del Grillo, Caro Michele, Le due vite di Mattia Pascal, Speriamo che sia femmina e Rossini Rossini!.
Per Vittorio Gassman è invece il più grande successo cinematografico e la sua maschera più riuscita. Gigante del teatro, pur avendo interpretato numerosi film (da uno dei primissimi adattamenti di Pinocchio a I soliti ignoti e Il sorpasso) non aveva mai trovato un personaggio capace di esaltare il suo carisma spiccatamente teatrale adattandolo al linguaggio del cinema. Monicelli aveva intuito invece che fargli fare la parodia di se stesso all’interno di una parodia dei kolossal hollywoodiani sarebbe stata la chiave di lettura perfetta del suo talento. E così fu: da quel momento il grande mattatore sfrutterà moltissimo questa anima comica per indimenticabili performance cinematografiche e televisive (come il celebre Gassman legge il menù).
Per Mario Cecchi Gori rappresenta una scommessa vinta (da Monicelli) e la consacrazione definitiva. Il produttore toscano – che si era avvicinato al mondo del cinema come autista di Dino De Laurentiis e Vittorio De Sica – non voleva produrre quel film strambo a causa del linguaggio che trovava incomprensibile, tanto da rifiutarsi di pagare un compenso a Monicelli proponendogli piuttosto una percentuale sugli introiti.
Dopo una partenza in sordina il film diventerà campione di incassi, parteciperà al Festival di Cannes, sarà esportato in Germania e in Spagna e otterrà tre nastri d’argento per i costumi, la fotografia e la musica, trasformandosi così nel primo grande successo di Cecchi Gori, che prima di allora di rilevante aveva fatto solo Il sorpasso e I mostri e in seguito diventerà il più importante produttore italiano degli anni ’80 (sue le commedie di Verdone, Celentano, Benigni e Nuti, la serie di Fantozzi, i primi cinepanettoni, gli ultimi film di Scola, Olmi e Fellini, il postneorealismo di Marco Risi e Gianni Amelio, fino all’Oscar per Il Postino di Troisi).
Quel linguaggio astruso tanto odiato da Cecchi Gori – un cocktail ottenuto mescolando insieme il Cantico delle Creature di Francesco d’Assisi, le poesie di Jacopone da Todi e i vari dialetti italiani, con numerosi neologismi (come “che te ne cale?” o “mai coperto”) – sarà uno dei marchi distintivi dell’opera, e farà scuola: da quel momento, infatti, il linguaggio “brancaleonesco” diventerà parte integrante di qualsiasi visione comica del Medioevo: dal genere cinematografico “decamerotico” degli anni ’70 fino al fenomeno recente di “Feudalesimo e Libertà”. Lo stesso titolo del film – d’altra parte – entrerà nel gergo comune per definire un gruppo improbabile e improvvisato.
Scritto da Monicelli insieme ad Age e Scarpelli (la più importante coppia di sceneggiatori della commedia italiana, insieme a Benvenuti e De Bernardi) il film nasce con il preciso obiettivo di rinnovare il linguaggio cinematografico, a partire proprio dall’uso del dialetto – a quei tempi severamente proibito – e di ridisegnare l’immaginario medievale, che da epoca di santi e cavalieri diventa un quadro grottesco in cui – tra immagini tanto comiche quanto crude e violente – si muovono disperati, miserabili, cialtroni ed appestati.
L’idea degli sceneggiatori nasce da film come La sfida del samurai di Akira Kurosawa del 1961 e I cento cavalieri di Vittorio Cottafavi del 1964 e da autori di letteratura cavalleresca e picaresca come Luigi Pulci, Teofilo Folengo e François Reblais e trova i suoi maggiori ispiratori in Don Chisciotte di Cervantes e Il Cavaliere inesistente scritto nel 1959 da Italo Calvino e che rappresentava già una sorta di parodia del Medioevo classico.
Monicelli si diverte in realtà anche a citare se stesso: la trama del film richiama infatti quella di I soliti ignoti (la compagnia sgangherata e raccogliticcia che cerca di compiere una grande impresa) e dello stesso Guardie e ladri (la scena in cui Teofilatto, durante una pausa del duello con Brancaleone, gli consiglia una cura per il fegato).
Il successo sarà tale da costringere il riluttante Monicelli dargli un seguito (cosa che si era rifiutato di fare per I soliti ignoti) nel 1970, a riprenderne stile e linguaggio quasi vent’anni dopo con Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno e a riproporre Gassman in un ruolo simile in I Picari nel 1987.
“L’Italia vera è quella centrale: Toscana, Umbria, Marche, Lazio” amava ripetere. Per questo il film viene girato interamente nel centro Italia. Se molti luoghi citati – Aurocastro, San Cimone, Bagnarolo, Panzanatico – sono immaginari, la patria di Brancaleone (che riprende il nome di un condottiero che prese parte alla disfida di Barletta nel 1503) è Norcia, e non a caso il suo stemma è un cinghiale.
Le riprese si svolgono – tra l’altro – a Viterbo (il portone della vedova appestata è quello di palazzo Chigi), Canino (il convento di San Francesco dove si rifugia Matelda), Calcata, Nepi nei pressi dell’acquedotto (scena iniziale dei predoni) e castello dei Borgia, Vitorchiano (la città che saccheggiano e dove si è diffusa la peste), la cava di tufo di Valentano (incontro con il santo monaco Zenone), a Vulci (Ponte del Diavolo e il Castello dell’Abbadia), Tuscania (presso la cripta della chiesa di San Pietro), Chia presso la Torre (scena dell’accampamento dei cavalieri e quella della morte di Abacuc) e in Toscana, nella zona della Val d’Orcia e delle Crete senesi. Aurocastro è invece ricostruita nel borgo calabrese di Le Castella, situato nei pressi di Capo Rizzuto, mentre la giostra iniziale è ambientata sotto il borgo umbro di Casteldilago.
La troupe – come il cast – si avvale di autentici giganti del cinema italiano: dal direttore della fotografia Carlo Di Palma (collaboratore di Rosi, Antonioni e Woody Allen) al montatore Ruggero Mastroianni (fratello di Marcello e collaboratore di Petri, Corbucci, De Filippo, Visconti, Ferreri, Magni, Cavani e Rosi), mentre scenografie e costumi sono affidati a Pietro Gherardi, due volte premio Oscar per La dolce vita e 8 e mezzo di Fellini e i titoli di testa sono realizzati da Emanuele Luzzati, tra i più grandi illustratori, scenografi e animatori italiani.
La storia, ambientata nel XI secolo, vede Brancaleone da Norcia, unico e spiantato rampollo di una nobile famiglia decaduta, marciare verso il feudo di Aurocastro in Puglia – a lui assegnato da una pergamena fasulla – con un manipolo di miserabili: l’anziano ebreo Abacuc, il robusto Pecoro, un ragazzino di nome Taccone e lo scudiero Mangoldo. Durante il viaggio – che vede anche il passaggio in una città infestata dalla peste – all’armata si aggregano un principe bizantino diseredato, il monaco Zenone e la bella Matelda, che Brancaleone salva eroicamente da una banda di briganti.
A contrapporsi a Gassman nel ruolo di protagonista c’è un altro dei più grandi attori italiani del Novecento: Gianmaria Volonté, che interpreta il principe bizantino Teofilatto dei Leonzi. Una coppia singolare, quella dei due mostri sacri del cinema italiano, perché Volonté rappresenta – sotto tutti i profili – l’anti-Gassman.
Se Gassman è il gigione per antonomasia, animale teatrale che recita sempre sopra le righe e qui si fa addirittura la auto-parodia, Volonté è invece un attore di scuola americana, un camaleonte capace di rubare l’anima al carattere che interpreta e nascondersi dietro qualsiasi tipo di personaggio, che sia il bandito antagonista di Clint Eastwood nei film di Sergio Leone o Aldo Moro in versione sarcastico-metaforica (Todo Modo di Petri) o storico-civile (Il caso Moro di Ferrara), o ancora Enrico Mattei, Bartolomeo Vanzetti o Giordano Bruno. Una tipologia di artista senza dubbio molto lontana dalla commedia italiana di cui Monicelli era maestro, e forse proprio per questo il regista considerava Volonté l’unica nota stonata del film. Probabilmente anche perché la scelta dell’attore milanese era stata imposta dal produttore e Monicelli avrebbe voluto Raimondo Vianello, che aveva però rifiutato categoricamente, per rancore nei confronti con il mondo del cinema che lo aveva sempre ignorato.
Senza dubbio un perfetto Abacuc è invece Carlo Pisacane, tra i più grandi caratteristi della commedia italiana, con al suo attivo centinaia di film, da Paisà a Fratello sole sorella luna passando per le commedie di Franco e Ciccio. Il personaggio del vecchio ebreo, peraltro, avrà una sorta di seguito ideale in Il marchese del Grillo dello stesso Monicelli, con la figura dell’ebanista Aronne Piperno interpretato da Riccardo Billi.
A dare volto e corpo a Matelda è invece Catherine Spaak – diva allora ventunenne – per la quale il film rappresentò un’esperienza traumatica: “Già studiare il copione era per me molto difficile – racconta in un’intervista all’AdnKronos – quando arrivavo sul set venivo poi accolta con prese in giro e parolacce. All’inizio trattenevo a stento le lacrime ma capivo il loro divertimento e non potevo rovinargli la festa”. “Noi donne eravamo pochissime, però, e da parte degli uomini c’era un atteggiamento molto maschilista – racconta ancora l’attrice francese – Poi ad aiutarmi è stato il destino: un giorno accettai un passaggio in macchina da Gassman, per tornare a Roma dal set. Il viaggio si è svolto in totale silenzio, fin sotto casa mia, quando lui mi ha detto una sola parola: ‘Scusa’. Da allora non c’è più stato bisogno di parlarne”.
A completare un cast stellare un altro mostro sacro del cinema italiano: Enrico Maria Salerno, regista impegnato e attore versatile che veste qui i panni del monaco Zenone. È lo stesso Salerno, dopo aver letto il copione, a chiedere a Monicelli di affidargli il ruolo e contribuisce a costruire il personaggio, che è ispirato a Pietro l’Eremita, il monaco francese che sotto lo slogan “Dio lo vuole” aveva guidato la cosiddetta “Crociata dei pezzenti”.
Secondo la tradizione Cristo stesso era apparso a Pietro a Gerusalemme nel 1093, chiedendogli di liberare i luoghi sacri della Terra Santa dal dominio islamico. Durante le sue entusiasmanti predicazioni in giro per l’Europa l’eremita aveva raccolto oltre 12.000 persone che nel 1096 si erano messe in marcia senza seguire le indicazioni di papa Urbano II e andando, di fatto, allo sbaraglio.
La Crociata dei pezzenti si era risolta con una serie di saccheggi e aggressioni ad ebrei ed era finita con il massacro dell’armata da parte dei Turchi Selgiuchidi.
Non è quindi certo un caso se il film si conclude proprio con la partenza dell’improbabile armata – incitata da Zenone – alla volta della Terra Santa e sarà seguito, quattro anni dopo, da Brancaleone alle crociate.
Arnaldo Casali
Da vedere:
Guardie e ladri di Mario Monicelli, 1951
I soliti ignoti di Mario Monicelli, 1958
La sfida del samurai di Akira Kurosawa,
I cento cavalieri di Vittorio Cottafavi, 1964
L’Armata Brancaleone di Mario Monicelli, 1966
Brancaleone alle crociate di Mario Monicelli, 1970
Il marchese del Grillo di Mario Monicelli, 1981
Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno di Mario Monicelli, 1984
I picari di Mario Monicelli, 1987
Da leggere:
Arnaldo Casali, Brancaleone nel racconto di Monicelli, Festival del Medioevo, 2016
Miguel De Cervantes Saavedra, Don Chisciotte della Mancia, adattato da Arturi Pérez-Reverte, Bur, 2016
Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, Einaudi, 1959
Mario Monicelli, Furio Scarpelli, Agenore Incocci, Il romanzo di Brancaleone con disegni di Emanuele Luzzati, Gallucci editore, 2014
Age, Scarpelli, Monicelli, L’armata Brancaleone – la sceneggiatura, a cura di Fabrzio Franceschini, Edizioni Erasmo, 2016.
Stefano Della Casa, L’Armata Brancaleone, Lindau, 2006.