Chi si occupa di pellegrinaggi sa bene che tra i gadgets più comuni in quella che ormai sta diventando sempre più un’occasione turistica se non un business fioriscono, tra le altre cose, labirinti e portachiavi a forma non solo di conchiglia – com’è noto la conchiglia del mollusco “nautilo” arrotolando le sue volute spiraliformi dal centro verso l’esterno, si accresce di un valore proporzionale uguale al cosiddetto “Numero d’Oro”, o “proporzione aurea” -, o di “Tau”, o di croci di Santiago, ma anche di “labirinto”: un caratteristico disegno che si presenta costituito di cerchi concentrici collegati tra loro da piccoli sentieri di raccordo.
Ve ne sono per la verità di molti tipi e con variabili anche importanti (il più famoso forse è a pianta ottagonale, ispirato a quello del pavimento della cattedrale di Amiens): ma il più famoso riproduce in genere quello della cattedrale di Chartres.
Lo ritroviamo scolpito su una pietra collocata nel pilastro di destra dell’antiportico della facciata della cattedrale di San Martino di Lucca e databile al XII-XIII secolo: francamente è molto difficile decidere se questo sia una copia più piccola e un po’ meno accurata di quello, o se invece sia quello una copia ingrandita e solennizzata di questo.
Ne troviamo anche una copia – o una libera reinterpretazione – su una pietra che costituisce ancor oggi uno dei vanti del glorioso centro di Pontremoli, sulla tratta della Via Francigena che, discendendo dal passo della Cisa, portava i pellegrini che provenivano dal Settentrione fino alla città di Lucca, vero e proprio nodo viario sulla via verso Roma dalla quale, attraverso il “padule” delle Cerbaie dominato dall’ospizio detto de alto passu (“Altopascio”, sede anche di un famoso Ordine ospitaliero), conduceva al guado di Fucecchio sull’Arno – ancora oggi sorge nei pressi il luogo detto “Catena” in memoria dell’antico attracco fluviale – ma dal quale, prendendo al direzione ovest senza abbandonare la riva destra dell’Arno, si poteva giungere a un’altra città nella quale il culto di san Giacomo e del suo emblema, il “Tau”, era primario; e al santo di Compostella era dedicato un capolavoro dell’arte sacra occidentale, l’Altare argenteo della cattedrale con le storie dell’Apostolo che gli spagnoli della Reconquista avrebbero denominato Matamoros da una sua leggendaria apparizione in armi, nel corso della battaglia del Clavijo, contro i musulmani.
Echi gerosolimitani Se invece si passava l’Arno a Fucecchio e si procedeva a sud verso Siena, ai confini della Tuscia della quale era signora la magna comitissa Matilde di Toscana si giungeva fino ad Acquapendente, dove sorgeva nella cripta della bella chiesa locale un sacello del X secolo costruito ad instar sacratissimi Sepulchri, come quelli di Aquileia, di Santo Stefano a Bologna, di Pisa, di san Tomè d’Almenno presso Bergamo e di tanti altri luoghi d’Italia e d’Europa.
Erano le stationes, i luoghi di pellegrinaggio “minori” (alcuni di loro tali solo per inadeguata definizione) che punteggiavano la rete stradale che collegava i grandi santuari di Gerusalemme, di Roma e di Santiago de Compostela.
Una rete lungo al quale transitavano papi e vescovi, imperatori e re, santi e pellegrini, crociati e mercanti: una rete ricca di storia e di leggende lungo al quale talora si poteva incontrare perfino il diavolo, magari a sua volta travestito da pellegrino e altra impegnato a costruire arditi ponti alcuni dei quali si ammirano ancora, specie nella bella Lucchesia.
Ricostruire la rete dei pellegrinaggi vuol dire anche questo: riscoprire antiche leggende con i loro reconditi, sovente sorprendenti significati. Ma che cos’è, cosa significa, il labirinto di San Martino?
Sulla fascia verticale a sinistra del piccolo, elegante bassorilievo (quindi a destra guardando) una bella iscrizione in grafia capitale-onciale che suona:
HIC QUEM / CRETICUS / EDIT DEDA – / LUS EST / LABERINT / HUS DEQ(U)- / O NULLU – / S VADER – / E QUIVIT / QUI FUIT / INTUS / NI THESE – / US GRAT – / IS ADRIAN – / E STAMI- / NE IUTUS, che si può tradurre così: “Questo è il labirinto costruito da Dedalo cretese dal quale nessuno che vi entrò poté uscire eccetto Teseo aiutato dal filo di Adriana (Arianna)”.
Al centro dell’immagine, configurato come uno spazio circolare a una sola entrata – il che significa che l’immaginario viaggiatore avrebbe dovuto percorrere a ritroso, per uscire, la medesima strada che aveva fatto per giungere dall’ingresso al centro – vi sono tracce di una figura abrasa che, stando ad alcuni testimoni o critici successivi, poteva raffigurare Teseo e il celebre mostro guardiano dell’edificio, Minotauro figlio di re Minosse: o meglio, della lubrica regina Pasifae che si era concessa a un toro entrando nel simulacro metallico di una vacca e sfruttando quindi, lì rinchiusa, gli ardori dell’animale; la sua atroce punizione consisté nell’essere chiusa nella statua cava ch’era stata tramite del suo peccaminoso desiderio e che fu riscaldata fino a diventare incandescente.
L’uomo-toro Secondo il celebre mito narrato anche da Plutarco l’eroe Teseo, figlio di Egeo re di Atene inviato dal padre per liberare la sua patria da un tributo di fanciulle vergini che Minosse re di Creta imponeva destinandole come cibo per il suo figliastro Asterione, o Minotauro, mostruosa creatura dal corpo umano e dalla testa taurina, trovò un aiuto nella figlia stessa del monarca cretese, Ariadne o Arianna – sorellastra quindi del Minotauro, che innamoratasi di lui gli affidò un filo di lana ch’egli avrebbe dovuto svolgere dietro di sé addentrandosi nel palazzo costruito dall’architetto Dedalo e detto “della Bipenne”, cioè appunto nel Labirinto – Labyrinthus (greco labŷrinthos) dal termine greco làbrys indicante quel che di solito si definisce pèlekus, l’ascia bipenne da guerra e da taglio dei grandi alberi fornita di due lame simmetriche e simbolo sacro per eccellenza, insieme con il toro, dell’antica civiltà minoica dell’isola di Creta -, un edificio caratterizzato da un insieme di corridoi che costituivano un cammino inestricabile al centro del quale il saggio re Minosse aveva rinchiuso il divino e mostruoso Asterione detto Minotauro che la sua sposa Pasifae aveva concepito unendosi con un macchinoso espediente a un vigoroso toro sacro.
Teseo trovò il mostro, lo uccise e quindi, con l’aiuto del filo procuratogli da Arianna, riuscì a riguadagnare l’esterno dell’edificio.
Per gli antichi il Labirinto simboleggiava la difficoltà del vivere e dell’orizzontarsi nei pericoli e negli imprevisti della vita: esso era difatti un insieme di sentieri che s’intersecavano e che non conducevano a nulla.
Quello di Teseo e della sua avventura nel Labirinto era con ogni evidenza un mito di nekyia, di discensus ad Inferos, di morte, di lotta spirituale e di resurrezione.
Il Labirinto, nella sua struttura spiraliforme – e la spirale è un’altra forma grafica simoblicamente significativa -, rinvia forma delle interiora umane e animali, a loro volta simbolo del mistero della vita come ben sapevano gli aruspici che leggevano il futuro negli intestini degli animali sacrificati.
Probabilmente grazie al tramite di alcuni modelli misterici ad esso tramandati il cristianesimo se ne appropriò: tanto più che esso era molto complesso e includeva anche una sua discesa agli Inferi, dai quali sarebbe risalito grazie ad Eracle.
L’eroe greco divenne quindi, nel Medioevo cristiano, figura Christi, prefigurazione simbolica del Cristo, come accadde anche ad altre divinità o figure eroiche antiche, da Dioniso e Orfeo. Di Teseo avevano parlato due poeti latini notissimi in età medievale, Ovidio e Stazio; lo stesso Dante ricordò più volte sia lui, sia il Minotauro.
Come il Cristo, Teseo aveva affrontato un mostro feroce, che nell’immaginario cristiano diveniva un demonio; come lui era disceso negli Inferi e ne era risalito. Ne consegue che il Labirinto si trasformò in un simbolo della vita, la complessità della quale è facilmente vinta dal credente che segue la fede (il filo di lana) propostagli dalla Provvidenza (Arianna).
Ma poiché simbolo per eccellenza della vita era nel mondo medievale il pellegrinaggio, ecco che il Labirinto divenne per eccellenza simbolo del viaggio verso una Santa Mèta, minacciato dai pericoli materiali e spirituali (il Minotauro) ma il buon esito del quale era assicurato dal possesso di un filo che sarebbe stato guida sicura: il “filo di Arianna”, la fede.
La Santa Mèta Tuttavia, al centro del Labirinto medievale, raffigurato come un sentiero tortuoso sì, ma dal percorso certo e obbligato nella misura in cui era viaggio di fede, non v’era più il mostro diabolico bensì la santa mèta: Gerusalemme, sia quella terrestre punto d’arrivo dei pellegrini sia quella celeste desiderata definitiva sede degli eletti.
Si è discusso sul significato simbolico del fatto che il Labirinto cretese del Minotauro fosse caratterizzato da sette circonvoluzioni e quello cristiano da undici, senza tuttavia su ciò raggiungere risultati criticamente apprezzabili.
Importante invece il fatto che il Labirinto cristiano sia sempre rappresentato come “monocursale”, vale a dire a percorso obbligato, con una sola entrata e una sola uscita, a indicare la certezza della vita che, trascorsa alla luce della fede, conduce alla salvezza.
Sul Labirinto lucchese abbondano le leggende cittadine a base folklorica o pseudomisterica, come quella che lo ricollegherebbe non si sa né come né perché ai Templari: ma nessuna di esse è significativa.
In altre raffigurazioni medievali troviamo tuttavia, al centro del Labirinto, figure e immagini differenti da quella di Gerusalemme: e lo stesso caso lucchese è al riguardo dubbio in quanto l’immagine raffigurata al suo centro è abrasa e ormai illeggibile.
Al centro di altri Labirinti potevano trovarsi il minotauro-diavolo, se si voleva alludere al pericoloso sforzo iniziatico di purificazione; oppure il giardino dell’Eden, l’albero della Vita simbolo della croce, quindi il Paradiso, se s’intendeva piuttosto indicare la mèta ultima della vita.
Nel primo caso si dava importanza al cammino di ritorno, comportante l’uscita del labirinto; nel secondo si sottolineava invece indicare che il fedele raggiunge la mèta una volta conseguito il centro, cioè compreso l’autentico senso e scopo del vivere (la polarizzazione simbolica è permessa dal momento che il simbolo è per sua natura polisemico e non ha mai un senso unico e univoco, bensì va interpretato nel suo contesto).
Origini remote Di solito si indicano dei possibili archetipi storico-archeologici del Labirinto medievale: la reggia di Cnosso a Creta o il sepolcro del re etrusco Porsenna a Chiusi in Toscana. si tratta comunque di adattamenti di un mito raccolto (o inventato? ) da Diodoro Siculo, vissuto a cavallo tra l’età di Giulio Cesare e quella di Augusto, che lo trasmise a Virgilio e a Ovidio.
La storia del Labirinto sembra in realtà più antica e risalire a un’origine egizia (così come la parola, che secondo alcuni non deriverebbe quindi da Làbrys). È Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, 13, 19) a parlarci di un Labirinto situato nell’Alto Egitto, quindi nella parte meridionale del paese, tra le città di Arsinoe e di Crocodilopolis: un edificio fatto di 12 cortili e 3000 stanze, per la metà scavate sottoterra: Erodoto e Strabone l’avrebbero visitato. Si ignora se avesse funzione cultuale, iniziatica o sepolcrale: certo è divenuto, dagli orfici in poi, simbolo per eccellenza del cammino iniziatico.
A livello antropologico, strutture e camini di tipo “labirintico”, di solito posti in relazione con grotte e cunicoli naturali o artificiali, si trovano in molte tradizioni con un significato ch’è in qualche modo sempre iniziatico.
La fortuna del labirinto come simbolo della vita del cristiano e del pellegrinaggio, ma anche come motivo magico, è esemplare di una quantità di segni carichi d’intenso fascino e rimasti nel nostro immaginario collettivo anche quando se ne è perduto il significato.
Sulle cattedrali del Medioevo, in effetti, si è fatta molta, troppa letteratura: specie esoterica.
Nel 1932 venne pubblicato a Parigi uno strano libro d’un autore rimasto anonimo, lo pseudonimo del quale era Fulcanelli: Il mistero delle cattedrali, nel quale si sosteneva che alcune grandi cattedrali francesi – come Notre-Dame di Parigi o quella di Chartres – sono in realtà, a saperne correttamente interpretare la foresta dei simboli, veri e propri trattati dell’ars regia alchemica eternati nella pietra.
Esiste tutta una letteratura esoterica sui costruttori delle cattedrali del Medioevo, i “Maestri” e i “Compagni” identificati come i fondatori delle logge massoniche ai quali sarebbero arcanamente giunti i segreti architettonici delle antiche piramidi egiziane e del Tempio di Salomone a Gerusalemme. Ma anche a proposito di ciò la critica più avveduta rileva molte forme di arbitrio e di fantasiosa elucubrazione: e invita alla prudenza.
Siamo abituati comunque a considerare il Labirinto come una presenza necessaria sulle pareti o sul pavimento di certe chiese medievali: ma essa lo divenne anche nei giardini, dove si costruivano labirinti utilizzando siepi di vegetali vari – di solito di bosso, secondo la cosiddetta ars topiaria, a scopi che non si collegavano alla meditazione simbologica religiosa sul senso della vita – a ciò nei giardini monastici o in quelli dei chiostri dei monasteri servivano semmai riproduzioni schematiche del “giardino dell’Eden” ispirate al racconto del primo Libro della Bibbia, il Genesi.
Ma possediamo notizia che già alla fine dell’XI secolo il giardiniere fiammingo Louis di Beaubourg avesse costruito per il castello di Ardre del suo signore Arnoulds de Guines, un labirinto che possiamo immaginare fatto di strutture in legno coperte di verzura. In casi come questi siamo piuttosto dinanzi a giochi cortesi ispirati magari alla memoria di giardini visitati in lontane contrade (durante la seconda metà del secolo XII, Luigi VII ed Eleonora d’Aquitania avevano potuto ammirare i giardini che circondavano Damasco; poi c’erano i giardini della Spagna musulmana) o a racconti contenuti nei romanzi cavallereschi.
D’altronde sia i giardini monastici sia quelli signoriali del Medioevo erano costruiti a loro volta in modo da richiamare immagini paradisiache: e il Labirinto di siepi ne era parte.
L’Oriente di Roberto Alla fine del Duecento, più o meno contemporaneamente alla stesura della seconda parte del celebre romanzo allegorico denominato Roman de la Rose, il conte Roberto d’Artois fece realizzare il parco di Hesdin, non lontano da Arras.
Da dove provenivano le suggestioni che presiedettero alla sua ideazione: da un Oriente passato attraverso l’Italia meridionale, che Roberto conosceva bene (ed ereditato quindi dall’esperienza federiciana in Sicilia) perché nel 1270 aveva partecipato alla scorta che aveva riportato da Tunisi, attraverso Palermo, i resti di Luigi IX morto crociato sul litorale nordafricano, e perché di seguito aveva vissuto circa cinque anni tra Palermo e Napoli? O dalla passione meccanica che aveva da tempo contagiato l’Occidente – e viene da pensare agli automi dei Mirabilia Romae e della leggenda di papa Silvestro II -, e che può avere precedenti e modelli orientali, ma che si era oramai anche sviluppata autonomamente?
Quando i racconti e i romanzi cavallereschi parlano di giardini incantati, popolati di mirabili fontane e di automi semoventi, siamo portati a ritenerlo un genere letterario.
Ma sembra che a Hesdin – giardino su cui siamo discretamente documentati – vi fossero realmente un Labirinto con specchi deformanti, getti d’acqua nascosti, automi e macchine in grado di stupire e sorprendere gli ospiti del giardino. È stato notato che in questo caso siamo di fronte a tecniche a quanto pare orientali, il cui effetto è però quello di creare un’atmosfera da “giardino incantato” che parrebbe piuttosto arturiana.
In pieno Trecento, il poeta e musicista Guillaume de Machaut, nelle composizioni Le remède de Fortune e in La fontaine amoureuse, descrive il parco di Hesdin, i suoi automi, le sue celebri fontane decorate di motivi desunti dai miti classici. Esso, dopo l’inevitabile decadenza dovuta alla guerra dei Cent’Anni, venne restaurato nel 1432 dal duca di Borgogna Filippo il Buono e qualcuno si è chiesto se nel parco rinnovato non fosse già matura la sensibilità del giardino rinascimentale.
Nella Hypnerotomachia Poliphili il tema centrale del discorso onirico e iniziatico è costituito dalla conoscenza e quindi dell’appropriazione di sé.
Ma non si può dimenticare che il giardino di Via Larga (o di San Marco), dove, protetti da Lorenzo, i migliori artisti del suo tempo si esercitavano nello studio della bellezza antica, si ispirava direttamente al modello dell’Accademia platonica e quindi a quel conosci te stesso che non a caso Lorenzo stesso rammenta commentando i suoi sonetti.
A Poggio a Caiano Lorenzo aveva voluto costruire un Labirinto – elemento classico dei giardini dell’antichità – accanto a una sorta di orto botanico, a una scena di gigantomachia e a un serraglio, che consentivano lo studio dei tre regni della natura. A Careggi, il riferimento a Platone era immediato. E non a caso fra il XV e XVI secolo il facoltoso cittadino fiorentino Bernardo Rucellai volle riunire in una nuova Accademia, ancora una volta nel suo giardino urbano, gli Orti Oricellari, gli ingegni di una città che stava cercando disperatamente di mantenere le sue libere istituzioni.
I grandi modelli di giardino iniziatico – che sono anche, e ciò non va dimenticato, elaborati da un potere ormai sovrano, quello mediceo divenuto granducale – della Firenze del Cinquecento (vale a dire quelli costituiti da Boboli, Castello e Pratolino), risentono di un discorso iniziatico in cui la letteratura ermetica rappresentata soprattutto dall’enigmatica composizione detta Hypnerotomachia Poliphili non sono passati invano, ma sono al tempo stesso grandi mappe simboliche della regione soggetta al principe e grandi enciclopedie del sapere universale tradotte in immagini.
L’Hypnerotomachia (lotta d’amore in sogno) è caratterizzata com’è noto da una serie di vicende iniziatiche distribuite in una sequenza di giardini dove natura e artificio si confrontano e si mimano vicendevolmente. Dalla selva dell’iniziale disorientamento, Polifilo giunge in un giardino di cristallo dove incontra Logistica (la Ragione) e Telemia (la Volontà): con la loro guida può addentrarsi in un altro giardino, di forma labirintica, costituito da sette canali navigabili; al termine di questo viaggio lo attende un altro giardino ricco di artificialia, in seta, ornato di piante d’oro, di frutti e di gemme. Infine l’isola di Citera: naturale, ma dove le diverse piante si ordinano in ben costruiti settori attorno al tempio di Venere.
Giardini tripartiti I parchi fiorentini di Boboli, di Castello e di Pratolino (soltanto i primi due mantengono oggi in una qualche misura il loro antico assetto, mentre il terzo ha subìto un riattamento ottocentesco che lo ha reso illeggibile) conservano i caratteri fondamentali del discorso iniziatico.
Un rapporto variamente atteggiato tra naturalia e artificialia, questi ultimi costituiti tra l’altro da parchi di automi ormai scomparsi o comunque non più in funzione; in secondo piano una scansione tripartita, costituita da un’area a bosco (il selvatico), una a prato e una più propriamente a giardino architettonicamente atteggiato, il giardino segreto, hortus conclusus di medievale memoria nel quale si addensano gli elementi più elaborati e da mantenere più protetti. Ben conservato altresì è il parco detto “Bosco Sacro” di Bomarzo, nel Lazio settentrionale, caratteristico frutto della fantasia onirica del dominus loci Virginio Orsini.
Seguiamo brevemente questo percorso dal cerchio al centro, e poi dal centro al cerchio, tenendo presente che il primo cammino è di tipo iniziatico, il secondo di tipo politico.
Per quanto riguarda il primo aspetto, il selvatico è la selva dell’insicurezza, dell’ignoranza, del peccato, di una natura non ancor razionalmente interpretata e ordinata; la hyle, la selva oscura.
Dal selvatico si esce nel prato, che in realtà può essere una distesa ampia, anzi un panorama variato di aiuole, siepi fiorite, giochi d’acqua, vasche, fontane, peschiere, labirinti, montagne artificiali, parchi d’automi, colossi abitabili al loro interno (si pensi al gigante di Pratolino), teatri vegetali, il luogo centrale e privilegiato del racconto del giardino. Là vi saranno il labirinto, che è gioco ma anche simbolo dell’avventura esistenziale e iniziatica dell’uomo; la grande vasca che sovente arieggia a un simbolo oceanico (un esempio evidente, con tanto d’isola centrale, a Boboli) ma che allude anche all’acqua come elemento santificante, fons vitae; la grotta, sentiero sotterraneo per eccellenza misterico, nel quale appaiono squadernate le meraviglie della natura (come nel bestiario scultoreo della villa di Castello).
Superato anche il prato, cioè il corpo ampio e complesso del giardino, gli iniziati – cioè gli intimi del Principe – godono le delizie e i misteri del giardino segreto, dal quale, non visti, si ammira l’intero quadro del parco.
Una metafora del potere Se il giardino segreto, annesso più strettamente alla corte, è il luogo della perfezione spirituale e della conoscenza, esso è appunto metafora politica della corte stessa. Avviamoci qui per il secondo viaggio, dove dalla reggia al giardino segreto si puo’ accedere, se si vuole, anche alla periferica campagna, al contado, ai luoghi piu’ vicini, a una natura libera che però, per gli uomini del Rinascimento, non ha assolutamente il fascino che avrà con la meditazione rousseauiana. Architettura di piante, di acque, di animali, di pietre rare, di architetture, di statue, il giardino diviene una sorta di complesso museale ad uso dei suoi fruitori: è anche orto officinale, jardin potager come a Villandray in Francia, giardino botanico, specola, serraglio, Wunderkammer, collezione di antiquitates e di mirabilia, studiolo. Quando il Principe voglia, esso di trasforma anche in teatro, in arena per tornei, in lago per naumachie, in spazio per rappresentazioni drammatiche.
Luogo d’incontro di natura e d’artificio (di “natura” e “cultura”, diremmo noi; di natura e di ars, meglio si dovrebbe dire), esso è anche luogo d’estrinsecazione della volontà sovrana. In esso il potere manifesta la sua più autentica natura e la sua più intima vocazione: giocare con la volontà dei sudditi come con gli automi, trattare lo stato con la stessa energia demiurgica con il quale il mago tratta, nell’universo artificiale evocato dai suoi incantesimi, le sue creature.
Attraverso la meditazione ermetica rinascimentale, si può dire che il mistero del Labirinto, cristianizzato nel Medioevo, torna alle sue radici pagane per poi “laicizzarsi” in forme ludiche e ornamentali. Tutti ricordiamo il gigantesco, terribile Labirinto nel parco dell’albergo all’interno del e attorno al quale si svolge la storia paurosa di Shining, il film di Stanley Kubrik.
Ma siamo partiti dalla raffigurazione labirintica di Lucca, piccola per dimensioni ma elegante per la sua fattura e la scritta che l’illustra.
In omaggio ad essa, dedichiamo queste pagine a un viaggio “da Lucca a Lucca”.
Non lontano dalla bella città toscana sorge il piccolo e incantevole centro demico di Collodi presso un’altra cittadina di grande pregio, Pescia. A Collodi, paese originario del Carlo Lorenzini autore di Pinocchio che si scelse il nome del paese come suo nom de plume, è ancora visitabile la settecentesca nobile villa Garzoni con il suo parco: all’interno del quale si può percorrere un Labirinto di verzura perfettamente conservato, arricchito da bei giochi d’acqua. I riti iniziatici che vi si svolgevano non erano certo sacri: erano deliziosamente mondani, forse anzi erotici. Ma il “Labirinto d’Amore” giuntoci dal Settecento aristocraticamente libertino è pur sempre, attraverso il Medioevo e il Rinascimento, l’erede di un legato sacrale che viene da lontano.
Un simbolo primordiale Il suo messaggio archetipico si collega, in ultima analisi, a quello della Spirale: tra le forme simboliche di base, una delle più diffuse nelle civiltà tradizionali. Quando è semplice, si tratta di una linea che si avvolge su se stessa in modo circolare, allargandosi successivamente se parte dal centro o, viceversa, restringendosi se ha direzione centripeta; ma sovente assume un carattere elicoidale, cioè una direzione centripeta per giungere a un centro dal quale riparte per riguadagnare l’esterno (spirale doppia). Il suo motivo grafico trova vari modelli in natura, ma soprattutto due nel regno animale: la conchiglia e il serpente; e sembra collegarsi al principio del divenire, dell’eterno e immutabile svolgersi della natura, dell’emanazione e dell’estensione.
La Spirale ha un carattere per molti versi affine al Labirinto: ma, a differenza di esso, non cela né pericoli né inganni. Seguendo le linee del Labirinto si può perdere (quando non sia “monocursale” come lo era il modello cristiano medievale) l’orientamento, restar imprigionati, mentre la Spirale conduce sempre e comunque al centro o alla periferia di se stessa.
Un percorso iniziatico Come il labirinto, essa sembra in questo senso assumere un significato esistenziale, di cammino della vita o del percorso iniziatico, quindi di rapporto tra morte e resurrezione iniziatiche.
I percorsi degli iniziandi nelle varie cerimonie non-cristiane di questo tipo sono – come nel nostro stessoMedioevo, nel quale si riferivano al pellegrinaggio a Gerusalemme – labirintici o spiraliformi (sovente i disegni a spirale hanno comunque un percorso obbligato, seguendo il quale non si può sbagliare: sono pertanto dei “falsi Labirinti”, che conducono sempre al punto voluto.
Nella tradizione indù della kundalini, al pari che nel caduceo greco, le due Spirali serpentiformi che si avvolgono in volute ascensionali di tipo elicoidale attorno all’asse costituito dal bastone o dalla colonna vertebrale rinviano alle polarità dell’esistere, le alternanze vita-morte, freddo-caldo, notte-giorno e così via. Per questo, oltre che per motivi tecnico-pratici, una spirale ascensionale è sovente la parte di base di un attrezzo tecnico: la frusta che serve a frullare il latte nel rito-mito induistico, oppure l’accendifuoco ad archetto, o ancora il trapano (una forma ripresa nel nostro comune cavatappi).
La Spirale domina e ripartisce le forze, e per questo è anche simbolo di fertilità dominata dai movimenti ascensionale e discensionale delle acque e dalla luna, che con la sua attrazione provoca le maree.
Andamento spiraliforme assumono anche molte danze rituali, da quelle di alcuni native Americans a quelle dei “dervisci rotanti”, dove il girar su se stessi acquista il significato della permanenza del centro dell’essere nella mutevolezza del cambiamento. Nei mondi maya e azteco, la figura della spirale era collegata allo scorrere del tempo: rappresentava l’inizio di un ciclo calendariale, allorché il cosmo ha bisogno di sacrifici umani per mantenersi equilibrato. Dall’Eurasia buddhista e induista all’America questo movimento rotatorio era collegato al girar su se stesso del sole ed espresso dal simbolo dello swastika. Nelle culture africane la Spirale o l’Elica rinviano alla dinamica dell’esistere: per questo, anche nella cultura del voodoo, la divinità che presiede al ciclo vitale è rappresentata da un serpente che si morde la coda – ’Ouroboros ermetico-alchemico -, simbolo dell’”Eterno Ritorno”, dell’eternità cosmica che non si esaurisce mai nel ciclo delle singole esistenze.
È stato lungo il cammino che, partendo dalla piccola pietra scolpita lucchese, ci ha condotto alle soglie dei misteri archetipici radicati nella nostra preistoria e vivi nel nostro inconscio. Veramente l’uomo è animal symbolicum.
Franco Cardini
Articolo pubblicato su MedioEvo n.279, aprile 2020
Da leggere:
M. Cristina Fanelli, Labirinti. Storiografia, geografia e interpretazioni di un simbolo millenario, Il Cerchio, Roma 1997
Gianni Pirrone (a cura di), Il giardino come labirinto della storia, Atti del Convegno Internazionale (Palermo 14-17 aprile 1984), Centro per l’Arte e la Storia dei Giardini, Palermo 1984
Priya Hemenway, Le Code Secret. La formule mysterieuse qui régit les arts, la nature et les sciences, Evergreen, Köln 2008
Hermann Kern, Labirinti, Feltrinelli, Milano 1981
Giorgio Padoan, Il mito di Teseo e il cristianesimo di Stazio, «Lettere Italiane», XI, 1959, pp. 432-57.
Paolo Santarcangeli, Il libro dei labirinti, nuova edizione, Feltrinelli, Milano 1984