Quando pensiamo alla Scandinavia medievale, la prima immagine che ci viene in mente è quella dei Vichinghi, spietati predoni dei mari, affamati di terre e di ricchezze, che tra VIII e XI secolo imperversarono in Europa, seminando il terrore dall’Atlantico al Mar Caspio, dal Mediterraneo al Baltico.
In effetti, nei libri, nei fumetti, nei film e nelle serie Tv di argomento nordico queste figure sono talmente onnipresenti e dominanti che, tanto nei media quanto nel parlare comune, il termine vichingo viene spesso impiegato a sproposito come sinonimo di scandinavo. Una simile equivalenza è però concettualmente errata oltre che storicamente infondata: difatti, se tutti i Vichinghi furono scandinavi, non tutti gli scandinavi furono Vichinghi.
A questo punto la domanda sorge spontanea: chi erano veramente i Vichinghi?
Per rispondere al nostro quesito dobbiamo anzitutto rivolgere l’attenzione alle fonti medievali, in cui tale vocabolo non solo è privo di qualsiasi accezione o sfumatura etnica, ma designa piuttosto una professione, un’attività, un genere di vita. I Vichinghi, insomma, non erano un popolo bensì soltanto una categoria specifica all’interno del mondo nordico: più precisamente, nelle fonti il termine indica coloro che, tra VIII e XI secolo, si univano in una sorta di contratto o partnership (félag in lingua norrena) e intraprendevano spedizioni in Europa occidentale – Isole britanniche, Francia, Germania, Spagna – e orientale – Baltico, impero bizantino, Russia – a scopo di razzia, commercio, conquista o insediamento.
Chiarita la questione dell’identità, resta aperta quella dell’etimologia della parola, tuttora uno dei problemi sostanzialmente insoluti della filologia nordica. Con l’eccezione di alcuni testi anglosassoni altomedievali, in cui è attestata la parola wicing con il significato di pirata, il termine (nella forma víkingr) si rinviene esclusivamente nelle fonti in lingua norrena: secondo alcuni, esso potrebbe derivare da vík, baia o insenatura, forse con il significato di predone [che approda] nelle baie o predone [che va] di baia in baia, ma è stato anche ipotizzato che, originariamente, il termine si riferisse agli abitanti del fiordo di Oslo, nel Medioevo chiamato appunto Vik (Baia).
In ogni caso la teoria dell’origine scandinava, e quindi autoctona, sembra la più verosimile ed è avvalorata dalla testimonianza del chierico tedesco Adamo di Brema, il quale attorno al 1075, scriveva di
questi pirati, che essi [i Danesi] chiamano Vichinghi [Wichingos] e noi Ascomanni [Ascomannos]
ovvero marinai o battellieri (dall’alto tedesco ascman, dove asc, frassino, è riferito al legno delle barche).
Al di fuori della Scandinavia, i pirati nordici erano poi conosciuti anche con altri nomi. Sempre Adamo aggiunge infatti che
i Danesi, gli Svedesi e i restanti popoli al di là della Danimarca sono tutti chiamati Normanni [Nortmanni] dagli storici franchi
In effetti quest’ultima parola (un prestito forse dal francone Nortmann) è la più utilizzata dagli autori latini di questo periodo per indicare genericamente tutti gli uomini del Nord, ovvero i popoli settentrionali, mentre alcuni secoli più tardi la troveremo nelle saghe con il significato specifico di Norvegesi (pl. Norðmenn).
Nelle fonti slave, bizantine e arabe gli scandinavi (in prevalenza Svedesi) che si diressero a oriente sono invece chiamati Rus’ (da cui il toponimo Russia attribuito alla regione in cui si stanziarono) e Variaghi, entrambi vocaboli di origine norrena: il primo, passato agli Slavi per il tramite dei Finni (cfr. l’odierno nome finlandese della Svezia, Ruotsi), era probabilmente connesso alla parola röd, remo, con il senso di rematori; il secondo indicava originariamente un gruppo di uomini uniti da un giuramento (da væringi, pl. væringjar, compagni giurati), che li impegnava a dividere spese e profitti in vista di un viaggio o una spedizione all’estero.
Tra i cronachisti musulmani, infine, i pirati nordici che attaccarono la Spagna mozarabica (al-Andalus) erano noti con il nome di al-Majus, cioè adoratori del fuoco, maghi (dal greco magos), quindi per estensione pagani: il termine, che in un primo tempo identificava soltanto gli Zoroastriani, dal IX secolo cominciò a essere impiegato in una accezione più ampia che includeva tutti i popoli di religione diversa dalle tre fedi monoteistiche.
Perché partire? Le cause del movimento vichingo Oltre al problema irrisolto dell’etimologia del termine vichingo, un’altra questione ancora aperta è quella relativa alle cause che spinsero questi uomini del Nord ad abbandonare le proprie case per cercare fortuna in terre lontane. Accantonate ormai le spiegazioni monocausali avanzate in passato, insufficienti per comprendere un fenomeno così complesso, oggi si è orientati piuttosto a considerare una concomitanza di fattori demografici, economici e politici, sia interni che esterni al mondo nordico.
In primo luogo, in alcune regioni della Scandinavia (in particolare nelle aree costiere della Norvegia) l’aumento della popolazione, favorito da condizioni climatiche più miti rispetto al passato, avrebbe provocato una carenza di terra e una diminuzione delle risorse disponibili, con una conseguente, massiccia emigrazione di uomini.
In secondo luogo, dalla fine del VII secolo l’intensificazione dei traffici tra l’Inghilterra e il continente e poi di quelli nel Baltico favorirono lo sviluppo di grandi insediamenti commerciali, da cui trassero beneficio anche gli scandinavi, i quali non solo appresero le tecniche di navigazione impiegate dagli altri popoli (e specialmente l’uso della vela, fino ad allora sconosciuto in Scandinavia), ma acquisirono anche notizie e informazioni sulle condizioni politiche ed economiche interne ai vari regni e paesi europei.
In terzo luogo, dobbiamo considerare l’attitudine guerriera dei Vichinghi e il loro desiderio di arricchimento e di successo: nella Scandinavia dell’epoca, soprattutto laddove mancava un forte potere centrale come quello monarchico, la guerra poteva infatti essere un mezzo di promozione sociale individuale, perché chi tornava in patria portando con sé un ingente bottino vedeva aumentare la propria influenza e il proprio peso politico.
In genere i partecipanti alle spedizioni vichinghe provenivano dalle classi più agiate della società: re, conti (jarl, pl. jarlar) o capi locali per i quali la guerra rientrava nella normale pratica di governo, essendo la loro autorità fondata essenzialmente sulla forza delle armi. Per loro, organizzare e condurre spedizioni armate era importante anche per ragioni di prestigio ed economiche: da un lato, le vittorie conferivano fama ai signori e ne rafforzavano il potere e la credibilità; dall’altro, costituivano una preziosa fonte di ricchezza cui attingere per arruolare truppe, allestire flotte, stringere amicizie e alleanze.
Tra i Vichinghi era poi facile trovare giovani di buona condizione sociale, per i quali la militanza all’estero era un’opportunità di arricchimento non soltanto materiale: in una società guerriera, infatti, l’esperienza del viaggio in terre lontane, in cui si dovevano affrontare pericoli e battaglie, era visto come il modo ideale per conseguire onore, fama e ricchezza, segni tangibili del successo personale e valori centrali della cultura vichinga.
Tutti questi fattori, comunque, non sarebbero bastati per garantire ai Vichinghi il successo nelle loro audaci imprese: determinante, in questo senso, fu il perfezionamento della tecnica nautica che fornì ai Vichinghi un vantaggio tecnologico sugli avversari, permettendo la costruzione di navi agili e veloci, ideali per compiere raid e azioni fulminee in terra nemica.
Attorno al VII secolo, in particolare, vennero introdotti l’albero a vela e la chiglia, quest’ultima al posto dell’asse orizzontale che, in precedenza, fungeva da base; la chiglia, soprattutto, fu una novità importante perché permise ai marinai scandinavi di affrontare anche il mare in burrasca.
I secoli IX e X, in particolare, rappresentano il periodo classico delle navi vichinghe: in quel periodo vennero introdotti l’albero a vela e la chiglia, quest’ultima al posto dell’asse orizzontale che, in precedenza, fungeva da base; la chiglia, soprattutto, fu una novità importante perché permise ai marinai scandinavi di affrontare anche il mare in burrasca.
I secoli IX e X rappresentano il periodo classico delle navi vichinghe, dalla caratteristica forma stretta e lunga con un basso pescaggio, ideale per risalire il corso dei fiumi; dotate di remi e di una vela centrale, avevano un timone a dritta (tribordo) di poppa. La prua era solitamente ornata con una decorazione mobile, scolpita a forma di animale o mostro stilizzato. A partire dal X secolo si osserva una crescente specializzazione delle tipologie navali, con grandi navi cargo o mercantili (knörr) da un lato, e vascelli da guerra più piccoli e rapidi (skeið, langskip) dall’altro. I nomi delle imbarcazioni, comunque, non devono essere considerati termini strettamente tecnici, dato che nelle fonti vengono frequentemente usati in maniera intercambiabile.
Spesso la forma della decorazione di prua poteva designare, per metonimia, l’intera nave: così fu, per esempio, per il Lungo Serpente (Ormrinn langi), del re norvegese Óláfr Tryggvason (995-999/1000), e per il Bisonte (Visundr), del re suo omonimo e successore Óláfr Haraldsson “il Santo” (1015-1030). Altro nome particolarmente ricorrente è dreki, cioè drago (pl. drekar da cui deriva drakkar, termine oggi molto in voga ma in realtà inesistente nelle fonti), con il quale venivano chiamate le navi da guerra che avevano una testa di drago scolpita sulla prua.
Due secoli di espansione Dal punto di vista cronologico, le data con cui si fa convenzionalmente iniziare l’età vichinga è il 793, anno dell’attacco norvegese al monastero inglese di Lindisfarne (8 giugno): da quel momento, per più di due secoli gli uomini del Nord infuriarono praticamente su tutto il continente, che fu incalzato sia da est che da ovest. Le spedizioni si svilupparono infatti lungo due direttrici principali, una orientale, l’altra occidentale.
La prima, continentale, dal Baltico seguiva il corso dei grandi fiumi russi (Dniepr, Dvina, Volga) e conduceva ai territori dell’Impero bizantino e oltre fino al Mar Caspio e al califfato di Baghdad; per ragioni evidentemente geografiche, essa fu percorsa soprattutto dagli svedesi, che nella prima metà del IX secolo gettarono le basi del futuro principato della Rus’ di Kiev, in norreno chiamato Garðaríki (Regno delle città) o Svíþjóð in mikla (Svezia la Grande), e nell’860 giunsero persino ad assediare Costantinopoli.
L’altra, marittima, fu intrapresa prevalentemente da danesi e norvegesi, che imperversarono in tutto l’arcipelago britannico e nell’Europa sud-occidentale, procurandosi basi logistiche o insediamenti veri e propri in cui svernare e da cui ripartire per ulteriori scorrerie: tra questi, solo per citarne alcuni, ricordiamo lo stanziamento in Irlanda nell’area dell’odierna Dublino (839); in Francia quelli alla foce della Senna e della Loira (841-845) e poi nella terra che da loro prese il nome di Normandia (911); nell’Inghilterra nord-orientale la creazione del Danelaw o [terra sottoposta alla] legge dei Danesi (878).
La furia vichinga non risparmiò neanche l’Europa meridionale, dove i pirati nordici si affacciarono per la prima volta nell’844, attaccando senza successo la città galiziana di La Coruña e poi espugnando Lisbona, Cadice, Medina e Siviglia, prima di essere finalmente respinti dalle forze musulmane dell’emiro Abd al-Rahman II (822-852).
Ben più nota, anche se semi-leggendaria, è la spedizione condotta circa quindici anni dopo dal capo vichingo Hásteinn (o Hasting), che in alcune tradizioni più tarde troviamo affiancato a Björn Ragnarsson detto Járnsíða (Fianco di Ferro).
Salpati nell’859 dalla Bretagna, Hásteinn e Björn colpirono dapprima la penisola iberica per poi proseguire verso sud, superando – primi tra gli scandinavi – lo stretto di Gibilterra; dopo aver compiuto altri saccheggi in nord Africa e in Spagna, i Vichinghi raggiunsero la Francia meridionale, attaccando Nîmes, Arles e Valence (860). Ricacciati indietro, Hásteinn e Björn si diressero ancora più a est, verso l’Italia, espugnando la città di Luni (erroneamente scambiata per Roma), e risalendo poi l’Arno fino a Pisa prima di riprendere il mare.
Da questo momento in poi i loro spostamenti si fanno incerti: forse proseguirono verso l’oriente bizantino, ma nell’861 li ritroviamo nel Mediterraneo occidentale. Qui tentarono di riattraversare lo stretto di Gibilterra ma si imbatterono in una grossa flotta araba, che inferse loro gravi perdite; finalmente, nella primavera dell’862, le navi superstiti fecero ritorno alle loro basi in Francia.
Almeno fino al X secolo inoltrato la maggior parte delle incursioni vichinghe potrebbero essere definite imprese private, in quanto finalizzate alla razzia e/o all’insediamento ed erano organizzate e guidate da capi locali che partivano con il loro seguito e con chi desiderava unirsi a loro.
Le spedizioni erano all’inizio su piccola scala, e andarono progressivamente intensificandosi nel tempo: in Inghilterra, Irlanda e Francia si passò da raid stagionali a razzie sempre più frequenti, con le truppe scandinave che svernavano sul posto e tornavano ad attaccare all’arrivo della buona stagione; da qui all’insediamento e alle conquiste territoriali il passo fu breve, mentre in altre regioni d’Europa, come in Frisia, si ebbe da subito lo stanziamento degli invasori. Spesso l’unica possibilità di far cessare gli attacchi era quella di consegnare ai Vichinghi grandi somme di denaro, che nell’Inghilterra anglosassone assunsero il nome significativo di danegeld (tributo dei Danesi).
Complice la suddetta confusione tra “Vichinghi” e “Scandinavi”, nell’immaginario comune vengono spesso ed erroneamente ricondotti al fenomeno vichingo alcuni viaggi ed esplorazioni che, tra IX e XI secolo, condussero i nordici alla scoperta e alla colonizzazione di isole e terre atlantiche fino ad allora sconosciute o disabitate.
È il caso dell’Islanda (Terra dei ghiacci) e delle Fær Øer (Isole delle pecore), raggiunte nella seconda metà del IX secolo da emigrati in maggioranza norvegesi, e della Groenlandia (Terra verde), scoperta nel 985 dal possidente norvegese Erik il Rosso e da questi così chiamata nella speranza di attirarvi altri coloni. Erik, però, non era un vichingo, come non lo era Bjarni Heriólfsson, il mercante islandese che attorno al 986, spinto fuori rotta dai venti mentre cercava di raggiungere anche lui l’insediamento groenlandese, avvistò le coste di una terra ignota: resosi conto che non si trattava della Groenlandia, Bjarni riprese il largo finché, dopo cinque giorni, scorse finalmente le sponde groenlandesi.
Quando le notizie di questi avvistamenti si diffusero in Groenlandia, Leif, figlio di Erik il Rosso, decise di ripercorrere la rotta di Bjarni nel tentativo di esplorare la terra da lui scorta a ovest: a tale scopo, egli acquistò la sua nave e ingaggiò il suo equipaggio, insieme al quale partì nell’anno 1000.
Dopo alcuni giorni di navigazione, Leif e i suoi sbarcarono dapprima su una terra montagnosa e segnata dai ghiacci, da Leif chiamata Helluland o Terra dalle rocce piatte (forse l’Isola di Baffin), quindi in una regione boscosa cui fu dato il nome di Markland o Terra delle foreste (Labrador), infine su una terra molto più ricca e fertile, situata più a sud, che Leif chiamò Vínland o Terra del vino (Terranova), per via della presenza di piante di vite selvatica.
Qui i groenlandesi si fermarono per diversi mesi, costruendo case di legno e dedicandosi all’esplorazione finché, nella primavera dell’anno seguente (1001), presero nuovamente il mare ritornando in Groenlandia.
Negli anni successivi, a queste prime spedizioni esplorative fecero seguito veri e propri tentativi di insediamento nel Vínland. Fra tutti, il più ambizioso e organizzato fu quello dell’islandese Thorfinn Karlsefni, che attorno al 1025 salpò con la moglie e altri sessantaquattro aspiranti coloni. Raggiunto il Vinland, Thorfinn approdò proprio in corrispondenza del vecchio insediamento di Leif Eriksson, rimanendovi per tre anni; in quel torno di tempo, sua moglie Gudrid diede alla luce il loro figlio Snorri, che fu quindi il primo europeo nato sul suolo americano.
Di lì a poco, tuttavia, la situazione apparentemente idilliaca fu turbata dal scoppio di conflitti con le popolazioni indigene, dagli scandinavi chiamati Skrælingar (miserabili, disgraziati); alla fine, poiché la continua ostilità degli Skrælingar rendeva troppo pericolosa la permanenza nel Vínland, Thorfinn e gli altri coloni presero la decisione di ritornare in patria.
Il crepuscolo dell’età vichinga Dall’Atlantico settentrionale al Mediterraneo, dallo Stretto di Gibilterra al Mar Caspio, quello dei Vichinghi fu dunque un impetuoso movimento espansivo, che dilatò l’orizzonte geografico dei Nordici oltre i confini del mondo allora conosciuto ma, al tempo stesso, espose la società scandinava a influenze e novità dall’esterno, prima fra tutte il cristianesimo. Ciò, inevitabilmente, diede avvio a un processo di cambiamento interno che, sul lungo termine, sarebbe stato determinante nel segnare il tramonto dell’epoca vichinga.
Come già per l’inizio, che abbiamo visto essere convenzionalmente fissato nell’anno 793, anche per la conclusione di questa fase storica viene solitamente individuata una data simbolica, il 1066, anno in cui, nel tentativo di conquistare l’Inghilterra, il re norvegese Haraldr Sigurðarson detto harðráði (di duro consiglio) cadde in battaglia a Stamford Bridge (25 settembre).
In verità, il declino dell’età vichinga fu un fenomeno più lungo e graduale, causato da un processo di evoluzione e di trasformazione politica, religiosa, sociale, culturale che può considerarsi concluso all’inizio del XII secolo. Innescato già attorno al IX secolo da una concatenazione di fattori interni ed esterni, tale processo aveva prodotto in Scandinavia una serie di cambiamenti fondamentali: «mutano i valori culturali, l’etica e le mentalità, emergono nuovi ceti sociali e si modificano le strutture politiche e socio-economiche ereditate dal passato» (F. Barbarani).
Benché tali mutamenti si verificassero in ciascun paese con tempi e modi differenti, elementi comuni furono la conversione della popolazione al cristianesimo, il consolidamento dell’istituzione monarchica in Danimarca, Norvegia e Svezia e la cessazione delle spedizioni vichinghe, che sotto la spinta di un processo di accentramento del potere furono progressivamente sottratte al controllo dei capi locali e infine sostituite da vere e proprie campagne di conquista, organizzate e guidate direttamente dai re.
Al volgere tra XI e XII secolo, l’età vichinga giunse dunque al termine, lasciando il posto a una nuova pagina della storia scandinava: dalle sue ceneri sarebbero infatti sorte tre grandi monarchie cristiane (Danimarca, Norvegia, Svezia), cui si devono affiancare l’Islanda (indipendente fino al 1262, quando si sottomise alla corona norvegese) e la Groenlandia (anch’essa annessa alla Norvegia nel 1262-1264).
In ultima analisi l’epoca vichinga, in quanto fase di transizione e di incontro/scontro tra popoli diversi, risultò decisiva per la piena integrazione dei paesi nordici nel contesto europeo.
Francesco D’Angelo
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Bibliografia:
Adamo di Brema, Storia degli arcivescovi della Chiesa di Amburgo, a cura di Ileana Pagani, UTET, Torino 1996
Francesco Barbarani, Viaggiatori, mercanti e guerrieri nell’età dei Vichinghi, in Il mondo dei Vichinghi. Ambiente, storia, cultura e arte. Atti del Convegno internazionale di studi (Genova, 18-20 settembre 1991), SAGEP, Genova 1992, pp. 239-275.
Gianna Chiesa Isnardi, Storia e cultura della Scandinavia. Uomini e mondi del nord, Bompiani, Milano 2015
Francesco D’Angelo, Da Vichinghi a crociati: gli scandinavi nel Mediterraneo (IX-XII sec,), in RiMe. Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea, 6/I n.s. (giugno 2020), pp. 55-78, http://rime.cnr.it/index.php/rime/article/view/454
Katherine Holman, La conquista del nord. I Vichinghi nell’arcipelago britannico, Odoya, Milano 2014
Gwyn Jones, I Vichinghi, Newton & Compton, Roma 1995
Saghe della Vinlandia, a cura di Roberto Luigi Pagani, Diana Edizioni, Milano 2018
Snorri Sturluson, Heimskringla: le saghe dei re di Norvegia, a cura di Francesco Sangriso, 5 voll., Edizioni Dell’Orso, Alessandria 2013-2019
Erik Wahlgren, I Vichinghi e l’America, Torino, Einaudi 1991.