L’Editto di Rotari

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Il 22 novembre 643, nel palazzo regio di Pavia, Rotari, «uomo eccellentissimo e diciassettesimo re della stirpe dei Longobardi», emanò un editto che raccoglieva per iscritto, e per la prima volta, il patrimonio giuridico del popolo longobardo.

Prima di allora il diritto dei Longobardi era stato sempre trasmesso esclusivamente per via orale e constava di una serie di norme consuetudinarie basate sul patrimonio di tradizioni e regole (le cawarfide) tramandate di generazione in generazione.

Si conservano due copie manoscritte dell’editto, una presso l’abbazia di San Gallo, in Svizzera e la seconda nella collezione di manoscritti della Biblioteca Capitolare di Vercelli

La decisione di mettere nero su bianco il patrimonio di norme consuetudinarie dei Longobardi fu senza dubbio un momento cruciale nella storia del Regnum ed ebbe un impatto notevole sulla società e influenzò in maniera importante i rapporti giuridici esistenti non solo tra i membri della stirpe, ma anche tra i Longobardi e gli italici. Coerentemente al carattere nomadico e tribale dei Longobardi, il principio seguito dal loro sistema normativo era infatti quello della “personalità del diritto”: le norme erano cioè applicate in base all’appartenenza “etnica” e si spostavano con la popolazione nel corso delle migrazioni. Nell’impero romano, invece, le leggi seguivano il principio della territorialità e valevano per tutti, a prescindere dalla provenienza.

Tecnicamente, l’Editto si struttura in un breve Prologo seguito da 388 capitoli normativi che coprono molti degli aspetti giuridici (non tutti) della società longobarda: dal diritto matrimoniale e familiare ai reati commessi contro l’autorità pubblica e i privati, dai danneggiamenti alle violenze, dalle normative sulla proprietà alle disposizioni sugli omicidi. Il Prologo fornisce le motivazioni dell’azione legislativa e contiene l’elenco dei primi diciassette sovrani longobardi, tra cui lo stesso Rotari, chiudendosi con l’enunciazione degli antenati di quest’ultimo fino alla decima generazione.

Il testo si chiude alludendo all’esistenza a Pavia di un esemplare del codice di leggi, certificato per mano del notaio di palazzo Ansoaldo, disponibile in caso di dubbi o contestazioni.

Le ragioni di una raccolta Quali le ragioni dell’Editto? Ufficialmente, Rotari giunse alla sua promulgazione – lo dichiara egli stesso nel Prologo – per far cessare uno stato di incertezza, povertà e violenza causata dalle «eccessive esazioni da parte di coloro che hanno maggior potere».

La decisione fu dettata sicuramente anche da altre motivazioni, a cominciare dal fatto che la stanzialità del Regno richiedesse norme scritte per rapporti che andavano facendosi via via più complessi. La sistematizzazione delle leggi non solo rafforzava la posizione del re, ma ricompattava l’esercito sottraendolo all’arbitrio dei duchi in vista della campagna militare che avrebbe portato, di lì a poco, alla conquista delle coste liguri e di Oderzo.

Per fare un’operazione simile, però, era necessario rispettare una serie di tradizioni non scritte di carattere ancestrale, che costituivano la base della stessa identità della stirpe. In altre parole, non era possibile per Rotari emanare, semplicemente, una serie di leggi e pretendere che fossero accolte da tutti senza resistenza. A differenza di quanto accadeva nel modello romano imperiale, in cui il sovrano era fonte di legge, nella cultura tradizionale germanica la legge derivava infatti da un patto/concorso stipulato tra il sovrano stesso e gli altri uomini liberi della stirpe, tra i quali egli era un primus inter pares.

La legge per le genti germaniche affondava inoltre le sue radici nella memoria collettiva della gens; tale memoria collettiva si basava su tre principi cardine: il mito delle origini, le genealogie della famiglia dominante e il sapere tecnico-giuridico incarnato dai “sapienti” che, nelle società tribali senza scrittura, erano i depositari delle consuetudini e delle tradizioni.

Lungi dall’essere un’emanazione univoca dall’alto, il contenuto dell’Editto viene dunque convenuto tra il re, il popolo-esercito (gli arimanni o excercitales) e i membri più alti dell’aristocrazia (gli iudices) con la collaborazione degli «antiqui homines», ovvero gli anziani saggi che rappresentavano la memoria storica del popolo, il tutto ratificato dal gairethinx, l’assemblea degli uomini liberi che portavano le armi.

Il fondamento e la legittimità delle leggi codificate appaiono garantiti dall’enunciazione, nel Prologo, delle genealogie dei sovrani, che ricostruiscono in forma mitologica e sacralizzata la discendenza divina di chi esercitava il potere, e vengono ulteriormente ribaditi dall’inserimento a mo’ di premessa, in alcune copie dell’Editto, della Origo gentis Langobardorum, che narrava la storia mitica e ancestrale dei Longobardi a cominciare dalla celebre saga “odinica” del nome.

Un diritto tribale Quali erano i fondamenti del diritto longobardo? Innanzitutto, il diritto germanico, e quindi anche quello della stirpe di Alboino, fondava la capacità giuridica dell’individuo sul diritto-dovere di portare le armi, che coincideva sempre con lo status di uomo libero. I non liberi, le donne e i minori non possedevano invece alcuna capacità giuridica ed erano di conseguenza soggetti al mundio – il termine deriva dal germanico mund, mano, con valore di protezione –, ossia alla protezione di un uomo libero.

Nel diritto tribale germanico la famiglia era di tipo agnatizio: i vari membri, cioè, erano discendenti da un antenato comune e condividevano i medesimi interessi patrimoniali. Quando dunque uno di essi subiva un torto oppure compiva un delitto nei confronti di un altro gruppo familiare, l’intero clan era chiamato in causa o per rifondere il danno o per vendicarlo. La vendetta privata, o faida, era dunque riconosciuta apertamente come legittima.

La rievocazione di una ordalia

Un altro istituto giuridico germanico di stampo tribale presente nel diritto longobardo era l’ordalia o duello giudiziale. L’accusato doveva scagionarsi giurando sulle armi o sui Vangeli oppure, nel caso di colpe particolarmente gravi, misurarsi a duello così da stabilire chi avesse ragione e chi torto.

Nel tentativo di porre freno alla violenza imperante, l’Editto di Rotari giunge a vietare espressamente la faida sostituendola con la composizione pecuniaria: una somma fissata per riparare un danno inflitto alla persona o alle sue proprietà (animali, cose, beni mobili e armi). Il “prezzo” o valutazione economica (guidrigildo) variava in base allo status sociale e giuridico dell’offeso; naturalmente era più alto se a subire il danno era stato un uomo libero; nel caso dei semiliberi o dei servi, dipendeva da vari parametri come il tipo di mansioni svolte o l’abilità personale.

Quanto all’ordalia, per quanto il duello giudiziale fosse malvisto dai regnanti perché ritenuto scarsamente efficace nel garantire la giustizia, né Rotari né i successivi legislatori, nemmeno Liutprando, riuscirono a vietarla: era infatti una tradizione troppo radicata nelle abitudini del popolo longobardo.

Un’altra caratteristica importante dell’Editto di Rotari, elaborata anch’essa per frenare abusi e violenze, è la forte limitazione della pena capitale, prevista per i liberi solamente in casi estremi come l’attentato alla vita o la congiura contro il sovrano, la sedizione, il tradimento e l’abbandono del compagno in battaglia. La maggior parte dei delitti, dalla profanazione della tomba alla spoliazione e occultamento di cadavere, dall’oltraggio allo sbarramento della via, dal disarcionamento di un cavaliere alla violenza gratuita e ingiusta, fino all’irruzione con la forza in casa altrui, erano invece soggette al pagamento del guidrigildo. Interessante, in questo quadro, anche la ferma condanna della superstizione: punizioni severe erano previste per chi catturasse e ammazzasse una donna accusandola di essere una masca, ovvero una strega.

Una situazione fluida L’Editto di Rotari fu steso nel palazzo regio di Pavia da un notaio longobardo utilizzando il latino, la lingua classica del diritto: un richiamo evidente alla prestigiosa tradizione romana, della cui influenza anche le norme in parte risentono.

Ma a chi si applicavano queste leggi? Su questo punto il dibattito scientifico è stato ed è tuttora quanto mai vivace ed è impossibile sintetizzarlo in poche righe. Certo balza all’occhio una cosa: dalle norme manca qualsiasi esplicito riferimento ai romani così come al contesto urbano, dando l’impressione di un quadro tutto sommato anacronistico rispetto all’epoca in cui l’Editto viene steso ed entra in vigore. Ciò ha indotto qualche studioso, a cominciare da Stefano Gasparri, a ritenere che il testo sia stato dettato dall’esigenza, espressa da Rotari, di compiere «un’opera di risistemazione del patrimonio del passato»: il che lo renderebbe «oltre che un monumento giuridico» anche un «monumento alla memoria storia e tribale dei Longobardi».

Sembra comunque di poter dire con Claudio Azzara che la legislazione di Rotari, prodotta in seno ai Longobardi e intrisa della loro cultura tribale, fosse rivolta – aggiungiamo, almeno nelle intenzioni – ai soli Longobardi.

Agli italici, riconquistati all’impero dopo la guerra greco-gotica, si applicava del resto il diritto romano codificato nel Digesto promulgato da Giustiniano nel 533, a questo punto in base allo stesso principio della personalità del diritto introdotto dai Longobardi dopo l’ingresso in Italia. Tuttavia nel giro di due-tre generazioni le due comunità finirono giocoforza per fondersi, né poteva essere diversamente: va dunque assolutamente respinta l’idea di una maggioranza di italici sottomessa perpetuamente in stato servile alle angherie dei dominatori longobardi, tanto cara a una certa tradizione letteraria e storiografica ottocentesca, così come è da respingere l’esistenza di una barriera impenetrabile tra le due comunità, cosa che del resto mostra chiaramente anche il contesto archeologico.

Un influsso duraturo L’influsso della legge longobarda, tramandata complessivamente in sedici codici manoscritti, fu enorme e sopravvisse alla caduta del Regnum, perdurando nei documenti privati stilati – compravendite di terreni, permute, donazioni, testamenti – per lunga parte del Medioevo. Dal IX e fino al XIII secolo circa buona parte degli atti privati della Langobardia maior contiene la cosiddetta “professione di legge longobarda”, esplicitata dalla formula

Ego, qui (o quae) professus (professa) sum ex natione mea lege vivere Langobardorum»
cioè
«Io, che dichiaro in base alla mia etnia di vivere secondo la legge dei Longobardi»

La decadenza iniziò in età comunale, quando fu sostituito progressivamente da quello romano, lex generalis omnium, cioè legge che valeva per tutti.

Nei documenti medievali fino all’XI secolo circa ritroviamo però il richiamo al launechild o launegild, il corrispettivo – dapprima una somma o un oggetto, poi una controprestazione simbolica – da conferire in cambio di una donazione, citato ad esempio in un atto del comune di Milano del 1097, mentre ancora nel Duecento compare il termine wadia, in latino guadia, per definire l’uso di dare in pegno i propri beni allo scopo di garantire il rispetto delle condizioni imposte dall’azione giuridica.

Quando Bergamo e il suo territorio, nel 1427, passarono da Visconti a Venezia, le nuove autorità furono costrette a imporre il diritto comune per decreto: ma istituti giuridici longobardi rimasero in uso ancora fino almeno al Cinquecento (come il morgingab o dono del mattino, in un documento del 1552), segno eloquente della difficoltà di estirpare abitudini radicate nelle consuetudini, in continuità con il passato longobardo.

Al sud, invece, il diritto longobardo rimase in vigore così com’era anche dopo la fine del Regnum, e l’Editto di Rotari venne aggiornato sia da Arechi II che da Adelchi, diventando parte integrante di quello che Gasparri definisce il «manifesto politico del revanscismo longobardo incarnato dai principi di Benevento». E con lui si può quindi concludere che «nato come espressione complessiva delle tradizioni della stirpe longobarda, l’Editto [di Rotari] finì […] per rappresentarne anche l’ultimo baluardo».

Elena Percivaldi

Estratto dal volume:
I Longobardi
Un popolo alle radici della nostra Storia
Diarkos Editori, 2020
Riprodotto per gentile concessione dell’editore e dell’autore.
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Per maggiori informazioni: scheda del libro