L’Italia dei primi decenni del Quattrocento è un gigantesco campo di battaglia che vede contrapporsi aragonesi e angioini, Venezia, Milano e Firenze. Una situazione di guerra continua che favorisce il “mestiere delle armi”. Capitani di ventura, condottieri, milizie straniere, utilizzano le continue scaramucce per innalzare il proprio stato sociale, arricchirsi e fare esperienza di guerra.
La penisola è percorsa da truppe angioine e aragonesi che si contendono il sud d’Italia; il duca di Lorena viene assoldato da Venezia con 250 lance francesi al tempo della guerra di Ferrara; Facino Cane e Jacopo dal Verme battono fanti e cavalieri tedeschi nel 1401 a Brescia. Saltuariamente fanno la loro comparsa in Italia anche i mercenari ungheresi. Alla fine del primo decennio del XV secolo si affacciano in Lombardia gli svizzeri. Il loro quadrato di picche e alabarde ha già mietuto successi contro gli austriaci e, adesso, puntano a sottrarre valichi e commerci ai Visconti.
I comandanti in campo Al soldo di Filippo Maria Visconti, però, c’è Francesco Bussone detto il Carmagnola, uno dei migliori comandanti militari sulla piazza, all’epoca. Così quando gli svizzeri calano su Bellinzona, il duca lo invia a cacciarli dalla Val Levantina, dalla Riviera e da Blenio, per riprendere la città e occupare il monte Piottino. E il Carmagnola, il 30 giugno del 1422, esegue quanto gli è stato ordinato, grazie allo stravolgimento della tattica di guerra e sconfiggendo il quadrato svizzero.
Il Carmagnola, aveva militato sotto grandi condottieri tra cui Facino Cane che sosteneva l’importanza delle truppe montate e della tecnica braccesca applicata ad essa, ma vinse la battaglia di Arbedo facendo smontare i suoi uomini d’arme e sconfiggendo così gli svizzeri che avevano fatto strage di truppe montate. Per la prima volta gli svizzeri furono costretti a ritirarsi dal campo di battaglia senza poter seppellire i loro morti.
“A quanto ascendessero le milizie confederate che al 24 di giugno del 1422 varcarono il Gottardo non c’è modo di verificarlo”. In riferimento alle truppe svizzere, le fonti spaziano da un minimo di 3.000 ad un massimo di 8mila uomini. Sappiamo che “le milizie si accamparono davanti a Bellinzona” e il “comando supremo era, sembra, nella mani del capitano dei Lucernesi, lo scoltetto Ultico Walker, che nella sua gioventù aveva combattuto a Sempach”.
Gli elvetici, “benché sapessero che le forze del conte di Carmagnola e di Angelo della Pergola in Bellinzona fossero ingenti, benché ne fossero stati espressamente ammoniti; non presero alcuna misura di precauzione” per compiere la scorreria a Mesocco perché “avevano un concetto esagerato del proprio valore ed un grande sprezzo del nemico”. Una compagnia di 800 uomini di Uri saccheggiò la valle Mesolcina, mentre il grosso dell’esercito assediava Bellinzona.
La battaglia “Ne’ tempi di Filippo Visconti, duca di Milano, scesono in Lombardia circa sedicimila Svizzeri: donde quel Duca, avendo per suo capitano allo il Carmignuola, lo mandò con circa mille cavagli e pochi fanti a incontrarli con i suoi cavagli, presumendo poteri subito rompere. Ma trovatigli immobili, avendo perduti molti de’ suoi uomini, si ritirò: ed essendo valentissimo uomo e sappiendo negli accidenti nuovi pigliare nuovi partiti, rifatosi di gente gli andò a trovare; e venuto loro all’incontro, fece smontare a piè tutte le sue genti d’armi, e, fatto testa di quelle alle sue fanterie, andò ad investire i Svizzeri. I quali non ebbono alcuno rimedio: perché, sendo le genti d’armi del Carmignuola a piè bene armate, poterono facilmente entrare intra gli ordini de’ Svizzeri, sanza patire alcuna lesione; ed entrati tra quegli poterono facilmente offenderli”.
Secondo le fonti il Carmagnola apparteneva, infatti, “a quei condottieri che facevano assegnamento specialmente sopra piccole colonne di cavalieri egregiamente esercitati ed armati a dovere, i quali se nell’armatura completa erano invulnerabili non potevano per altro reggere a lungo nella mischia”.
Nella contesa contro gli svizzeri “il Carmagnola sembra aver avuto la capacità di utilizzare sapientemente la fanteria e i tiratori (di cui nelle fonti non v’è traccia, ritenuti combattenti inferiori, ndr) a fianco delle sempre predominanti forze di cavalleria pesante. La sua abilità sul campo di battaglia appare bene nell’episodio della battaglia di Arbedo, combattuta nel 1422 contro forze dei cantoni svizzeri che avevano occupato Bellinzona e minacciavano di calare verso sud. Qui egli, dovendo affrontare truppe appiedate esperte nel muoversi in formazioni compatte e difficili da spezzare tramite cariche a cavallo, fece smontare i suoi 6.000 cavalieri pesanti e li utilizzò come fanteria pesante impegnando la fronte nemica. La fanteria vera e propria, nel frattempo, attaccava i fianchi dell’avversario, sottoponendoli anche ad un intenso tiro di balestre. Gli svizzeri furono costretti a una piena capitolazione”.
Il Carmagnola, quindi, dimostra intelligenza tattica, dopo un primo scontro, e comprende la necessità di rompere la compattezza del quadrato di picchieri svizzeri prima di travolgerlo, per non finire schiacciato come era già successo agli austriaci a Morgarten (1315) e a Sempach (1386). Intuizione vincente, ma dimenticata fino alle battaglie della Bicocca (1522) e di Pavia (1525), quando il quadrato svizzero, dopo cento anni di vittorie, viene scompaginato da archibugi e cannoni. Scorrendo le fonti, però, sembra di capire che il Carmagnola diede battaglia solo quando vide le colonne svizzere in marcia. Questo potrebbe far pensare che gli elvetici non combattessero, ancora, nella rigida formazione di picchieri, invalicabile da parte della cavalleria.
Al fianco del condottiero Bussone c’è un altro ottimo comandante, Angelo della Pergola che “era considerato il capitano che sapeva meglio disciplinare le milizie e la sua cavalleria come la migliore in tutto il paese”.
Di fronte si trovano gli svizzeri che erano “meno bene armati”, anche se “all’inizio del 1400 l’armamento base delle fanterie svizzere era costituito dalle ‘Vouge’, soppiantate poi dalle alabarde e dalle picche. Per la prima volta nella battaglia di Arbedo, contro l’esercito milanese, fecero la comparsa le picche lunghe nella misura di 1/3 del totale rispetto ai 2/3 delle alabarde”, ma “avevano più ardire e resistenza; non abituati a far prigioniero il nemico, ma a spacciarlo senza pietà, e tanto meno poi a darsi prigionieri”.
Al Carmagnola viene riconosciuta l’abilità “negli stratagemmi di guerra” avendo fatto credere agli svizzeri “non essergli possibile, colla sua cavalleria, sostenere un combattimento nella montagne” e quindi “si tenne queto in Bellinzona, così queto che s’avrebbe potuto supporre si fosse ritirato col suo esercito”. Non appena gli fu riferito che gli svizzeri si erano divisi in colonne per saccheggiare i centri vicini, mise in marcia il suo esercito in quattro tronconi: uno al suo comando, “il secondo da Angelo della Pergola, il terzo da Zenone di Capo d’Istria e il quarto da Piacentino da Brescia” (una bella pagina illustrativa della provenienza geografica dei capitani di ventura).
Gli svizzeri, a questo punto, vengono sorpresi in marcia, ma “si condussero molto bene in sulle prime atterrando a colpi di lancia i cavalli e cercando di atterrare i cavalieri” combattendo attorno “all’insegna confitta nel terreno” dall’alfiere di Lucerna e portando “un indicibile scompiglio nelle file nemiche” con i fanti elvetici che “si opposero alla carica della cavalleria ducale combattendo compatti e utilizzando le alabarde con l’obbiettivo di mozzare le gambe ai destrieri e le lance per andare a squarciarne il ventre o arrivando addirittura ad afferrare le zampe dei cavalli per farli rovinare al suolo con chi li cavalca per poi finire i cavalieri feriti e moribondi con le armi bianche”.
Le fonti attribuiscono ad Angelo della Pergola l’ordine “ai cavalieri di scendere da cavallo ed affrontare colle spade le alabarde” e “colla forza del numero” a dividere i nemici e “incalzandoli sempre con nuove schiere, a stancarli, dopo 8 ore di combattimento in cui rimasero sul campo da 900 a 1000 uomini”.
Secondo Machiavelli gli armati del Carmagnola, chiusi nelle armature, non hanno “altra difficultà che accostarsi a’ Svizzeri tanto che gli aggiunga con la spada” e una volta superato l’ostacolo di picche e alabarde, che poco possono contro le armature, al nemico “conviene metter mano alla spada, la quale è a lui inutile, sendo egli disarmato e avendo all’incontro uno nimico che sia tutto armato” ricavandone solo svantaggi e potendo scegliere solo tra la morte e la resa.
Secondo alcune fonti uno dei capitani svizzeri voleva trattare una tregua “ma tosto da’ suoi fu senza pietà trucidato”. La colonna di svizzeri che si era staccata per saccheggiare la valle Mesolcina, giunge su luogo dalla battaglia e, attraversando “le schiere nemiche, dopo aver incendiato il villaggio (Arbedo)” riesce “nell’intento di riunirsi su di un’altura” agli altri commilitoni, ma ormai era troppo tardi e “veggendosi consumare sanza avere rimedio, gittate l’armi in terra, si arrenderono”. La battaglia è ormai persa e “finalmente, non essendovi luogo a difesa” gli svizzeri “mettendo a terra le punte delle spade e de’ dardi, com’era loro costume, diedero segno di volersi arrendere”.
Angelo della Pergola consiglia il Carmagnola di “riceverli prigionieri e condurli tutti in trionfo a Milano”, ma il condottiero “irritato disse che ciò poteva parere fatto per paura … e mostrò la spada sguainata”. Un gesto che provoca l’immediata fuga degli svizzeri “verso il fiume Tesino”, lasciando sul campo morti e feriti, “1200 cavalli da soma” e stendardi. Una sola delle bandiere di Lucerna tornò in città, “l’altra … andò vergognosamente perduta”.
Nei resoconti successivi si racconta come “lo stendardo di Uri è strappato dalle mani di Henry de Brunberg che muore da prode, i confederati si raggruppano preso di lui e lo stendardo è salvato. Jean Rot, landamano, muore anch’esso. Peter Kolin, magistrato e alfiere di Zugo cade trafitto da innumerevoli colpi. Uno dei suoi figli estrae la bandiera da sotto il cadavere del padre, intrisa di sangue, la mette al vento ed è ucciso pure lui. Jeckli Landtwing, suo amico, lo segue, gli toglie la bandiera ancora trattenuta con mano morente e la fa nuovamente sventolare fra i confederati”.
Conseguenze Quando la notizia del trionfo giunse a Milano il duca proclamò tre giorni di festa cittadina e Angelo della Pergola fu ricompensato con il feudo di Sartirana Lomellina e 10mila fiorini. I cantoni di Uri e di Obvaldo persero il controllo sui territori a sud della gola del Piottino, ma a seguito della sconfitta rafforzarono i propri eserciti con una maggior quota di picchieri, dominando i campi di battaglia per quasi un secolo.
Umberto Maiorca
Bibliografia
Dizionario storico della Svizzera, Autrice/Autore: Alain François Berlincourt Traduzione: Giorgio Bernasconi
Niccolò Machiavelli, Dell’arte della guerra, libro II; Discorsi, II, 18
Historia, Mario Troso, Le fanterie svizzere
La Battaglia di Arbedo secondo la storia e la leggenda, Liebenau, Theodor von (1840-1914), (Bellinzona) 1886
Guerre ed eserciti nel Medioevo, a cura di Paolo Grillo e Aldo A. Settia, Il Mulino, 2018, Bologna
Fabrizio Gianelli, 1422 la battaglia di Arbedo, tesi di laurea Università degli studi di Milano, anno accademico 2014-15