“Ubaldini. Signori degli Appennini”, non è solo la prima importante mostra d’arte che si tiene ad Apecchio ma è anche la prima dedicata in modo specifico alla dinastia degli Ubaldini della Carda. L’esposizione riporta alla luce la storia di una famiglia rimasta nell’ombra a causa di una damnatio memoriae: quella perpetrata in seguito alle accuse di stregoneria che Pietro Bembo (1470 – 1547) mosse contro Ottaviano Ubaldini, colpevole, secondo il letterato, di aver reso sterile il nipote Guidobaldo grazie alle sue abilità magiche, allo scopo di continuare a governare sul ducato di Urbino in assenza di un erede dei Montefeltro.
Palazzo Ubaldini, il grande edificio restaurato per volere di Ottaviano Ubaldini della Carda, reggente del ducato di Urbino e legislatore di Apecchio, è la sede naturale dell’esposizione. I lavori, eseguiti dalle stesse maestranze lombarde impegnate nel palazzo ducale di Urbino, iniziarono nel 1477, su progetto dell’architetto Francesco di Giorgio Martini ma furono interrotti dopo la morte di Ottaviano. Ripresero con il conte Gentile II Ubaldini per concludersi solo nel 1588. Oggi la struttura è completamente restaurata. Ma prima di arrivare all’aspetto attuale subì innumerevoli vicissitudini: venne prima trasformato in Palazzo Apostolico, nel 1572, dopo la morte dell’ultimo conte Federico IV ed in seguito fu quasi raso al suolo dal grande terremoto del 1781. In parte ricostruito, tra il 1818 ed il 1821 fu adibito ad ospedale per ricoverare i malati colpiti da una epidemia di tifo. Dal 1841 fu destinato a sede del Comune, funzione che mantiene ancora ai nostri giorni.
Nei secoli, la vocazione al collezionismo d’arte ha caratterizzato tutti i rami dell’antica famiglia. Grazie ai dipinti, alle stampe ed ad alcuni documenti inediti, ora è quindi possibile tornare a dare voce a una lunga serie di personaggi e ricostruire vicende cruciali della storia medievale e rinascimentale dell’Italia centrale. Esemplare da questo punto di vista, l’opera di Maria Hortemels (1682 – 1727), Caccia al cervo con Federico Barbarossa e Ubaldino Ubaldini.
Rappresenta un esempio di incisione che ci fornisce delle importanti informazioni grazie alle interessantissime iscrizioni. Sappiamo che la composizione fu studiata nel 1589 da Giovanni Stradano, al secolo Jan Van der Straet (1523 – 1605), pittore fiammingo attivo a Firenze, al tempo di Giovanni Battista Ubaldini. Questa data colloca la matrice originaria coerentemente sia con la celebre produzione di cacce, sia con l’inventario di Piero di Giovanni Battista Ubaldini redatto nel 1605 per la casa del Mugello. L’incisione realizzata da Gallianus Forese (XVII secolo) su base dell’iconografia originaria di Giovanni Stradano, ci dà testimonianza del motto della famiglia, nato dalle parole leggendarie pronunciate dal Barbarossa: “Chi domina gli Appennini? La vitale casa degli Ubaldini”.
Di quest’opera abbiamo infatti altre due versioni conservate al British Museum di Londra, realizzate sempre dalla Hortemels su traduzione di Stradano e datate tra 1705 e una postuma del 1745. Un’altra versione era stata incisa da Adrian Collaert e pubblicata da Philip Galle ad Anversa nel 1589.
La leggenda dell’Iscrizione degli Ubaldini, un’epigrafe della casa originaria del Mugello, e qui trascritta, narra che fu proprio Federico Barbarossa (1122 ca –1190) a fregiare i signori dell’Appennino dello stemma con il cervo, accompagnato dal motto Q. D. A. A. D. U. (Quis Dominatur Appennini? Alma domus Ubaldini) a testimoniare la grandezza del casato.
Nel 1184 infatti l’imperatore, durante una caccia nei territori del Mugello sarebbe riuscito ad uccidere un cervo grazie a Ubaldino Ubaldini che teneva l’animale per le corna. L’imperatore impressionato da tanta abilità decise di concedere l’immagine del cervo come simbolo della famiglia, in sostituzione dell’antico stemma, costituito da uno scudo quadripartito con bande oro e azzurre. Un grande onore: nella simbologia delle cacce medievali il cervo era infatti considerato la più nobile delle prede.
La famiglia aveva già ottenuto altri importanti privilegi feudali dagli imperatori Carlo Magno (742 – 814) e Ottone II (955 – 983). E consolidò i suoi domini con i favori di Enrico VI (1165 – 1197), figlio ed erede del Barbarossa che conferì al casato altri feudi tra cui quello del territorio di Apecchio. Gli Ubaldini del ramo della Carda, fidati e valorosi condottieri degli eserciti dei loro signori, furono protagonisti della storia del Rinascimento. La loro storia si intrecciò in modo indissolubile a quella dei Montefeltro.
Una stirpe di guerrieri. Nella storia della famiglia ci fu però spazio anche la presenza di donne illustri, dalle personalità diverse ma di grande spessore.
Per il ramo cardense in primis va ricordata la condottiera Marzia Ubaldini che nacque intorno al 1307 da Giovanni da Susinana, figlio di Tano da Castello degli Ubaldini ed Andrea, marchesa del Senio. Sappiamo che nel 1334 andò in sposa a Francesco di Sinibaldo Ordeaffi, signore di Forlì, per poi ricomparire dopo un ventennio di silenzio come condottiera nelle battaglie contro le mire espansionistiche papali guidate dal cardinale Egidio Albornoz (1310 – 1367). Due furono le battaglie che la consegnarono alla storia. La prima nel 1354, quando respinse le truppe papali sotto le mura di Cesena e la seconda nel 1357 in cui però a causa di un’insurrezione all’interno del suo stesso popolo fu costretta alla ritirata.
Nell’opera in mostra ad Apecchio viene rappresentata la battaglia dell’agosto del 1534 in cui Marzia respinse l’attacco e guadagnò la vittoria sul capitano dell’esercito avversario guidato da Carlo, il conte di Dovadola (+1354) che si riconosce nel dipinto dallo stemma dei Conti Guidi nello scudo. Non a caso Palazzuolo sul Senio, già feudo degli Ubaldini, ha scelto la figura di Marzia nel suo stemma comunale.
L’altra anima femminile è Contarina Ubaldini (XVI – XVI secolo), che vediamo ritratta dal pittore eugubino Giuseppe Reposati (1722 – 1799). Contarina fu figlia di Guidantonio Ubaldini della Carda e moglie di Federico Gabrielli. Poetessa, scrisse i suoi versi in volgare cantando le vite di San Francesco d’Assisi e di S. Ubaldo che dedicò alle duchesse d’Urbino Elisabetta ed Eleonora Gonzaga.
Quanto ai guerrieri, il più famoso capitano di ventura del casato fu il valoroso Bernardino Ubaldini della Carda (1389 – 1437) che militò prima al soldo dei Malatesta e poi si legò a Guidantonio da Montefeltro, a tal punto da sposarne la figlia Aura nel 1421. Dal suo matrimonio nacque Ottaviano Ubaldini nel 1423 a Gubbio. L’anno prima, nella stessa città, era venuto alla luce anche Federico, adottato dal nonno Guidantonio che non aveva eredi maschi e temeva per questo di perdere il suo stato.
Ottaviano Ubaldini, fu uno dei più luminosi esponenti della sua famiglia. Descritto dai suoi contemporanei come un umanista di ampia cultura, si applicò agli studi ermetici e all’astrologia e protesse gli scienziati e gli artisti della sua epoca. Rimase legato tutta la vita in uno stretto rapporto di devozione e fratellanza a Federico, tanto da farne le veci nel governo della corte di Urbino durante le numerose assenze del duca, impegnato in molteplici campagne militari. Fu grande anche il legame di affetto che lo unì a Battista Sforza, la seconda moglie di Federico. Fu proprio Ottaviano ad essere nominato tutore del figlio Guidubaldo (1472 – 1508) l’unico maschio erede dei Montefeltro, come ci ricorda il pittore Giovanni Santi (1435 – 1494), padre del più famoso Raffaello Sanzio (1483 – 1520): «Octavian, cum fede alta e amorosa, vuol che la vita sua cum fé reluca appresso el car fratel, ché senza d’ello par che la vita in poco ben conduca; e cusì ritornato egli era quello che el Stato quasi sempre governava, e suo tesoro, – o singular fratello, che molto più del suo signor amava el ben, che el proprio suo!». «A Octavian suo car fratel concede El governo del Stato e del figliuolo Di tanta Sapienza: huom sagio el vede Dicendo io moro qui cum poco duolo Possa che Octavian riman nel stato Per che dei don che Dio infra me ha dato Un si fedel fratello cum Sapientia Me parso el più sublime: e a me più grato Ne ho di lui già manco difidenza». (Giovanni Santi, Cronaca Rimata, 1488).
Per il tema della fratellanza, così delicato si vuole lasciar parlare le opere che attraverso il candore della pietra ci mostrano nitidamente i volti ed i temperamenti dei due personaggi. Entrambi i ritratti lapidei dei fratelli che sono stati realizzati, la Lunetta di ambito di Ambrogio Barocci (1480) della Galleria nazionale delle Marche ed i Medaglioni ritratti di Benedetto da Magliano, del Museo di San Francesco di Mercatello, si specchiano in un dialogo eloquente nel suo silenzio.
La Lunetta è particolarmente importante perché raffigura i fratelli Ubaldini l’uno di fronte all’altro, ad enfatizzare il loro egual valore, ma caratterizzando ciascuno coi simboli della sua indole. Federico è vestito con un’armatura da parata, con a fianco un elmo all’eroica, emblema dei suoi successi militari. Ottaviano, in abiti civili, è attorniato da codici e da un ramo di alloro, chiare allusioni all’arte e alla poesia. Diversi e complementari, ma equivalenti nel mantenimento dell’equilibrio dello splendore della corte urbinate, nota per essere una fucina d’arte e mecenatismo, meta prediletta degli artisti fiamminghi.
Il giovane Ottaviano, formatosi alla corte milanese già da giovane sapeva apprezzare l’arte. Si ha notizia della sua commissione a Van Eyck di un Bagno muliebre, oggi perduto ma indice di un gusto rivolto alle innovazioni di quello stile lenticolare e simbolico dei fiamminghi accolto con così grande entusiasmo dalla corte urbinate.
Con la morte di Ottaviano nel 1498 Il ramo degli Ubaldini della Carda si estinse: il suo unico figlio, Bernardino, era morto quarant’anni prima, nel 1458. Rimase in vita il fratello, Francesco Ubaldini (XV secolo), che divenne conte dei Pecorari. Proprio da lui discende il ramo urbinate, di cui è noto il patrimonio di dipinti ed oggetti d’arte.
Anche Francesco, come da tradizione familiare, fu amante dell’arte. Capitano dei Montefeltro, nel 1481 ottenne dai signori di Urbino il Castello dei Pecorari, anche a seguito del duplice legame matrimoniale con la famiglia Brancaleoni di Piobbico, che stipulò sposando prima Sveva e poi Elisabetta.
Possiamo avere uno scorcio delle collezioni d’arte familiari dal resoconto del pittore Michelangelo Dolci, che visitando nel 1775, tra gli altri palazzi di Urbino, anche quello degli Ubaldini riporta l’esatta collocazione di numerosi dipinti, ora quasi tutti perduti.
Nell’elenco dettagliato delle stanze della residenza nobiliare compaiono, tra gli altri, i nomi di grandi lumi dell’arte barocca quali Giovan Francesco Barbieri detto il Guercino (1591 –1666), Guido Reni (1575 – 1642), Federico Fiori detto il Barocci (1528/1535 – 1612), Andrea del Sarto (1486 – 1530), Pietro da Cortona (1596 – 1669), Giovanni Gaspare Lanfranco (1582 –1647), Tiziano Vecellio (1488/1490 –1576), a testimoniare l’attività di acquisizione preponderante dei maestri del XVII secolo.
Non a caso sono questi gli anni nei quali brillano altri due astri della famiglia: il cardinal Roberto Ubaldini (1578 – 1635) e Federico Ubaldini (1610 – 1657), che diedero certamente una spinta propulsiva all’acquisizione di molti capolavori del loro tempo.
Il cardinal Roberto nato a Firenze nel 1581, era figlio di Marco Antonio Ubaldini dei conti di Gagliano e di Lucrezia della Gherardesca. Fu uomo di cultura. Ottenne il dottorato in utroque iure, ma ebbe anche una fulgida carriera ecclesiastica che lo portò a viaggiare e ad entrare in contatto con i più importanti personaggi del suo tempo. Proteggeva letterati,artisti e scienziati del calibro di Galileo Galilei (1564 –1642). Tanto che le sue fattezze sono passate alla storia tramite il ritratto che ne fece Guido Reni, intorno al 1625, durante la delegazione dell’alto prelato a Bologna.
La ricerca e lo studio dei modelli provenienti dalle botteghe che stavano dettando i criteri del rinnovamento artistico emerge come timbro tipico delle collezioni Ubaldini. E proprio Reni era l’artista di riferimento.
Nella mostra apecchiese sono esposti tre dipinti inediti dall’iconografia derivante dal grande pittore e incisore bolognese: un Cristo coronato di spine, una Madonna con bambino dormiente e una Deianira, sposa di Ercole, eroe della mitologia greca. Si può fare il raffronto per la prima opera con il dipinto su rame conservato al Detroit Institute of Arts in cui si possono riconoscere la medesima postura e la stessa inquadratura prospettica. Il busto del Salvatore è ritratto con lo sguardo rivolto al cielo in una comunione col Padre terrena e piena di sentimento. La bocca socchiusa ed i rivoli di sangue che scorrono lungo il volto dalle ferite causate dalle spine esprimono un dolore umano coinvolgente. L’atmosfera di nubi sospese però espleta la funzione di quinta scenica, in ottemperanza ai dettami tridentini che suggerivano all’artista di creare un effetto teatrale per evitare che il fedele potesse incappare nell’idolatria del simulacro. Nella Madonna con Bambino dormiente siamo catturati invece dalla dolcezza dello sguardo della giovane che si posa sul suo bambino addormentato e completamente abbandonato. Anche questo sentimento di confidenza nel sostegno della madre, ci riporta alla spiritualità post-tridentina che vedeva nella promozione della figura di Maria uno dei suoi cardini. In particolare la postura abbandonata del bambino è un’invenzione tipica del Reni, che esordisce nel dipinto Putto dormiente, della Collezione Barberini a Roma (1627) e che poi viene introdotta già nel dipinto Madonna con bambino dormiente della Galleria Doria Pamphilij di Roma, attribuito al maestro e datato tra il 1620 ed il 1625.
In ultimo possiamo godere del delicato studio sul busto della Deianira, protagonista del celebre dipinto del Reni Nesso che rapisce Deianira (1620) conservato al Louvre. Al confronto tra i due appare una coincidenza della postura, dell’acconciatura e dei tratti somatici.
Dall’influenza del grande maestro traggono ispirazione anche i pittori bolognesi del tempo, ed in questo caso possiamo vedere nel dipinto Santa Teresa d’Avila un esercizio di Scuola bolognese, che volge proprio lo sguardo alla Sacra Famiglia con Santa Teresa d’Avila e San Giuseppe del Reni per la chiesa di Caprarola.
Nelle collezioni Ubaldini accanto alla passione per i bolognesi, emerge anche quella per i maestri attivi nell’entourage urbinate, in particolare per Federico Fiori detto il Barocci (1535 – 1612) e per altri importanti incisori di provenienza italiana, francese, tedesca e fiamminga.
Nella Collezione Ubaldini conservata presso il Palazzo Ducale di Urbania si raccolgono disegni ed incisioni di traduzione che avevano lo scopo di far circolare i nuovi modelli iconografici aggiornando il gusto locale, così graditi che entreranno a far parte del repertorio delle famose ceramiche durantine. Infatti la sezione del museo ha origine proprio dal lascito testamentario alla città di Urbania del conte Bernardino Ubaldini (1625 – 1687) del 23 ottobre 1687. Tra i suoi beni erano confluite anche le collezioni di codici, manoscritti, disegni ed incisioni del fratello Federico, letterato e collezionista.
In particolare in occasione della mostra si espongono incisioni di traduzione di Luca Ciamberlano (1580 – 1641), dei fratelli Sadeler ovvero Egidius (1570 – 1629) e Justus (1572 – 1620) e di anonimi locali, le cui stampe riproducono iconografie tratte da maestri come Guido Reni, Polidoro da Caravaggio (1500 – 1543), Raffaello Sanzio (1483 – 1520) e Federico Barocci.
In particolare sappiamo che Federico Ubaldini fu un collezionista appassionato di Federico Barocci. Si impegnò in una campagna sistematica di acquisti presso la sua bottega, con lo scopo di definire e testimoniare lo sviluppo stilistico dell’artista ed il suo modus operandi. Molto interessante da questo punto di vista il dipinto di collezione privata Angelo custode attribuibile alla bottega Federico Barocci in conseguenza alla sua pregevole qualità.
La stessa figura angelica di tre quarti, inginocchiata e con le ali svolazzanti, compare in un disegno di Studio per angelo proprio nelle collezione Ubaldini di Urbania. Il foglio era incollato nella più grande composizione La tentazione di San Tommaso, al posto in cui era destinato lo schizzo per il messo divino, con lo scopo di correggerne le proporzioni volumetriche.
Considerando le strette relazioni intercorse tra i territori ed i rami della famiglia, si viene ricondotti nuovamente al lascito testamentario del 23 ottobre 1687 in cui il conte Bernardino degli Ubaldini di Montevicino, scelse come testimoni il vescovo di Urbania e Sant’Angelo Ondedei ma anche il conte Federico degli Ubaldini di Apecchio. E a lui lasciò “un quadro ornato di tavola il quale è dipinto con la Musica di Orfeo”: testimonianza che anche il territorio di Apecchio doveva possedere opere d’arte notevoli.
La famiglia Ubaldini del ramo di Apecchio pur abitando nel grande palazzo, mantenne uno stile di vita sobrio, che gli valse la benevolenza degli apecchiesi, ma di certo l’arredo del maestoso edificio doveva essere appropriato al loro rango. Tra i conti di Apecchio va ricordato monsignor Paolo Ubaldini (+ 1714), fratello di Gentile IV: un fine collezionista che molto intercedette al suo tempo per il paese d’origine. Era conte di Apecchio ma anche canonico di Santa Maria Maggiore a Roma, sotto la protezione di Clemente XI (1649 – 1721), il papa urbinate nato Giovanni Francesco Albani. Anch’egli amante dell’arte, nel suo testamento lasciò in dono alla Pieve di Apecchio due leoni di marmo provenienti dalla Basilica di Santa Maria Maggiore, oggi perduti ed alcuni arredi sacri in argento di cui è sopravvissuto il calice personale dell’alto prelato, datato 1680.
Fu realizzato da un anonimo argentiere: in argento, in parte dorato con coppa svasata e sottocoppa decorata con motivi fitomorfi, piede circolare e fusto interrotto da nodo piriforme, reca lo stemma della famiglia con ricontro di cervo caricato da corona nobiliare.
Gravi ferite, non più sanate, arrivarono al patrimonio culturale di Apecchio in seguito ai continui terremoti che nel secolo successivo colpirono il territorio. Il più devastante per vittime fu quello del 3 giugno 1781 che ebbe come epicentro la zona del Monte Nerone. Anche Urbino fu colpita nel 1789. Il sisma causò la demolizione della Cattedrale, situata non lontano dalle storiche dimore della famiglia Ubaldini, che resistettero ma per cui si possono ipotizzare danni ai beni mobili. A questi eventi calamitosi seguirono, poco dopo, le requisizioni napoleoniche, che aprirono le porte alle dispersioni delle opere più pregevoli, non più arginate.
Elisabetta Carlino
La mostra “Ubaldini. Signori degli Appennini”, inaugurata il 12 giugno 2021 nel Palazzo Ubaldini di Apecchio è visitabile fino al prossimo 10 ottobre: palazzoubaldiniapecchio.com
Consigli di lettura
E. CARLINO (a cura di) Ubaldini. Signori degli Appennini, Catalogo della mostra (Apecchio 12 giugno 2021 – 10 ottobre 2021), Quattroventi, Urbino 2021.
C.BERLIOCCHI, Quando c’erano le torri. Apecchio tra conti, duchi e prelati, Petruzzi editore, Città di Castello 1992.
L. MICHELINI TOCCI, Storia di un mago e cento castelli, Urbino 1986.
I Della Rovere nel Ducato di Urbino, 1508 – 1631. Disegni di epoca roveresca della collezione Ubaldini, a cura dell’Amministrazione Comunale di Urbania, Urbania, 1981.
B. CLERI e F. PAOLI (a cura di) Incisioni del ‘600. Le collezioni di Casteldurante dai Della Rovere agli Ubaldini, Urbino 1992.