“Qui orava il Santo
e vedi l’orme ove i ginocchi posa.
Altro non c’è; ma se brami cotanto
veder de le sue cose, a Monte Aguto
vedrai la cappa sua”. E tacque a tanto.
E io: “La cappa e ’l cappuccio ho veduto,
che spense giá, girandola in sul foco
ch’ardea il castel, senza alcun altro aiuto.
E vidi lá, che non mi parve gioco,
di notte accesi infiniti doppieri,
senza uomo alcun cercar tutto quel loco.
Questo mise i signori in gran pensieri
di quel castel, ché, per uso, la morte
sempre un ne vuol, quando appaion que’ ceri”.
E ’l frate a me: “Di cosí grave sorte
in alcun luogo giá parlare udio;
ma il creder m’era dubitoso e forte”.
Fazio degli Uberti, Il Dittamondo, III, IX, 97-105
Anghiari, frazione di Tavernelle, villa della Barbolana e Castello di Montauto
Il Monte Aguto del quale parla l’autore di questi versi è un castello ancora esistente in posizione appartata nel territorio di Anghiari, sulla cima più alta dei Monti Rognosi, rilievi collocati a nord-ovest del paese, tra l’Alpe di Catenaia, e la catena appenninica, che si distinguono per il paesaggio ancora oggi aspro e quasi selvaggio e la difficoltà di accesso.
Anghiari, Castello di Montauto sui Monti Rognosi
In questa zona si era insediata la famiglia oggi conosciuta come Barbolani di Montauto, di origine probabilmente longobarda, anche se un’altra tradizione riporta il matrimonio di Quinziana, figlia di Nemio, ultimo conte di Anghiari con il francese Gallo Galbino, Vicario dell’imperatore Tiberio in Toscana, come origine dei Conti di Galbino e di Montauto. Un loro discendente, Ranieri di Galbino, sarebbe stato nominato conte di Anghiari nell’801 da Carlo Magno e in seguito la famiglia è citata più volte in vari documenti nei quali sono ricordati invece per la loro origine longobarda.
Particolarmente importante per la storia di Anghiari è il testamento di Bernardino di Sidonia Barbolani, che nel 1104 nominò i Camaldolesi eredi di tutti i suoi beni: essi comprendevano in particolare la Terra di Anghiari, da lui acquistata nel 1082 dal fratello Alberico, “con tutte le sue ragioni, orti, chiese, uomini e vassalli”, oltre a numerosi feudi e diritti sparsi nel territorio. In seguito alla disposizione testamentaria di Bernardino che concedeva la libertà ai servi e un terzo dei diritti sul castello di Anghiari agli uomini di masnada, ebbe origine la costituzione del Comune, pur all’interno di un rapporto dialettico con la signoria feudale del Priore di S. Bartolomeo costruito dai camaldolesi per ottemperare, almeno parzialmente, alle condizioni per la donazione: infatti questa prevedeva l’ edificazione di un monastero nella chiesa di Papiano o in un altro dei possessi del conte, che voleva esservi seppellito.
Mentre il giovane Comune, sotto la protezione dei Camaldolesi, cresceva diventando il più importante centro dell’Alta Valtiberina, gli altri rami della famiglia Barbolani vivevano nei loro numerosi possedimenti, dei quali il castello di Galbino era sede principale della loro signoria. Alla fine del XII secolo però, la crescente influenza di Arezzo nei territori della Val Tiberina e le azioni intraprese dagli aretini contro tutte le potenze feudali, portarono a svariati attacchi ai castelli di Anghiari, Montorio e Galbino: quest’ultimo fu distrutto e bruciato nel 1178. Fu allora che la famiglia decise di costruire un nuovo castello in posizione più elevata e difficile da raggiungere, che dalla conformazione del monte roccioso e scosceso sulla cui vetta fu costruito prese il nome di Monte Acuto o Montauto: in origine ebbe tre cerchia di mura difensive e un cassero potente appoggiato sulla parete del monte, risultando praticamente imprendibile. Il castello di Montauto è documentato già nel 1190 e sei anni più tardi con due diplomi di Enrico VI fu riconosciuto col suo distretto come feudo imperiale col potere di mero e misto imperio.
Anghiari, Castello di Montauto, il cassero e la torre dei Lanzi (XVI secolo)
La giurisdizione era esercitata ancora secondo il diritto longobardo, cioè collettivamente da tutti i membri della famiglia Barbolani, da allora chiamati di Montauto, che la delegavano a un solo Signore.
Nel terzo decennio del XIII secolo Conte di Montauto era Alberto di Guglielmino, nato nel 1201, che assai giovane aveva avuto modo di conoscere Francesco d’Assisi, forse ad Arezzo, o in Casentino, o forse presso la rocca di San Leo, e ne era rimasto affascinato, tanto da divenirne amico e farsi in seguito terziario francescano “dalle sue sancte mani”, probabilmente nel 1221. Il castello, inoltre, situato su una delle vie che da Assisi giungono alla Verna, era una tappa naturale di questo viaggio che Francesco compì numerose volte. L’amicizia col Santo di Assisi, e le sue conseguenze, costituiscono una delle vicende più importanti della famiglia, tramandata in forma sia orale sia scritta di generazione in generazione, assumendo talvolta i contorni di una leggenda, ma supportata da scoperte e documenti.
Il 30 settembre del 1224 Francesco d’Assisi lasciò per sempre il Sacro Monte della Verna, sul quale da pochi giorni aveva vissuto l’esperienza spirituale suprema: l’incontro col Crocifisso tra le ali del Serafino e l’impressione delle stimmate, che fecero di lui il riflesso vivente di Cristo. Sofferente, consapevole dell’imminenza della morte, egli partì dunque di prima mattina per tornare a Santa Maria degli Angeli, a dorso d’asino e in compagnia di frate Leone. Le prime fonti francescane non offrono molti approfondimenti su questa vicenda, anche per il riserbo che circondò all’inizio la sconvolgente e inaudita esperienza delle stimmate.
In serata Francesco giunse dunque a Montauto: una tappa consueta per lui, come abbiamo visto, dove fu accolto con affetto e gioia da tutti gli abitanti. La felicità per l’incontro fu però offuscata dall’annuncio che quella sarebbe stata l’ultima visita: “per la qual cosa Alberto, sommamente afflitto per tale annunzio, domandò il Santo di una sua memoria, la quale fosse come ricordo e pegno d’affetto…”
Francesco però non possedeva nulla, se non l’abito che portava indosso e del quale non poteva certo disfarsi senza riceverne un altro: fu così che durante la notte, secondo la tradizione di famiglia, le donne del castello tesserono una veste nuova mentre il frate dormiva. Nelle fonti scritte si racconta invece che Alberto mandò un servo a Sansepolcro a comprare la stoffa simile a quella usata da Francesco e prelevare un sarto. Comunque sia, il giorno dopo a Francesco venne presentato il nuovo abito, e i Montauto ricevettero in cambio quello vecchio, assai più prezioso perché silenziosa testimonianza delle stimmate.
Refettorio del Cenacolo, San Francesco dona il saio al conte Alberto, 1567
La “cappa e il cappuccio” furono conservati al castello come preziosa reliquia per 278 anni, involti in un drappo di seta e oro e posti in un altare appositamente costruito nella piccola cappella duecentesca dove Francesco tante volte si era fermato in preghiera e che è tuttora visibile. Essi furono meta di pellegrinaggi, tanto che nel 1444 il vescovo di Arezzo concesse quaranta giorni di indulgenza “nella principal Chiesa di Montauto in quel medesimo giorno che quivi si mostrava la Veste del Serafico Padre San Francesco con la quale, nel Santo Monte della Vernia ricevé dal Signore le Sacratissime Stimate…”.
Ma ai Barbolani il santo lasciò anche altri doni, immateriali: al Conte Alberto predisse che avrebbe avuto una lunghissima discendenza ma che i suoi posteri non sarebbero mai stati ricchi, e la mia famiglia è qui a dimostrarlo (anche Madonna Povertà, salvo qualche eccezione, ci ha accompagnato nel corso dei secoli).
Inoltre, nelle notti precedenti la morte di un membro della famiglia alcune luci sarebbero comparse sulla sommità del castello in modo che tutti potessero ricevere i sacramenti e farsi trovare in pace con la Chiesa: questa, che ha il sapore della leggenda, e che è oggi difficilmente dimostrabile, compare invece nei citati versi del Dittamondo, come fatto accertato e conosciuto già alla metà del XIV secolo, insieme al ricordo del dono della cappa – mai apparso fino allora neanche nelle fonti francescane, e quindi, probabilmente, tramandato oralmente. Nel XVII secolo fu fatto un vero e proprio processo ai lumi, e ci furono diverse testimonianze dell’effettivo avverarsi di questo evento per decine di volte.
Alcune sono riportate nel libro di padre Lodovico da Livorno, San Francesco e la contea di Montauto, scritto nel 1884 su commissione del vescovo Donato Velluti Zati di San Clemente, nipote dell’ultima discendente diretta del Conte Alberto II, Carlotta Barbolani di Montauto: significativo il fatto che essi vengano designati da tutti i testimoni come i soliti lumi, il cui significato è ben noto, e che inducono tutti i membri della famiglia a prepararsi spiritualmente alla morte. Nel 1639 i lumi vennero avvisati per due notti consecutive sopra Montauto, e nessuno morì; soltanto venti giorni dopo arrivò invece la notizia del decesso del conte Girolamo, impegnato nell’esercito imperiale durante la Guerra dei Trent’Anni. In un’altra occasione, invece, nel 1698 il conte Giovan Francesco, morì all’improvviso colpito da un fulmine, “senza che prima fossero vedute le solite fiammelle, che poscia si seppe essere comparse in tempo opportuno, e vedute da alcuni i quali non ne parlarono che dopo il funesto evento… Questo fatto recò molto sgomento in quella virtuosa famiglia, non tanto per la repentina morte, quanto per l’essere passato senza il sussidio dei sacramenti, che erano in costume ricevere tutti, anche i sani, dietro gli avvisi delle fiammelle, come per prepararsi alla morte”. Questo fatto indusse i Signori di Montauto a promulgare delle leggi che punivano chi vedeva i lumi e ometteva di avvisare la famiglia.
Piccola lapide posta sulla cappellina nel bosco in ricordo del restauro del 1822
Anghiari, Cappellina del Perdono
Infatti, essi avevano potere di legiferare, perché Montauto rimase una Contea indipendente, pur trovandosi geograficamente all’interno del Granducato di Toscana, fino al Congresso di Vienna. Ma questa è un’altra vicenda, e ci interessa qui soprattutto perché pare che, una volta inclusa la Contea nel Granducato, i lumi cessassero del tutto di apparire. E infatti nessuno di noi li ha mai visti.
Tornando a San Francesco, nell’allontanarsi per sempre da Montauto, egli lasciò altri segni del suo passaggio in terra d’Anghiari: scendendo dai Monti Rognosi, poco sotto il castello fece sgorgare una piccola sorgente, la cui acqua si dice essere curativa per gli occhi. Sopra la sorgente fu eretta in seguito una modesta cappella, quasi nascosta nel bosco, restaurata nel XVIII secolo da Carlotta Barbolani e di nuovo qualche anno fa. Ogni anno è meta di un breve pellegrinaggio degli anghiaresi per la Festa del Perdono del 2 agosto.
Arrivato ad Anghiari, il Santo si fermò a piantare una croce in cima al fosso che correva dritto in direzione di Sansepolcro, e sul quale nel secolo successivo il vescovo Guido Tarlati fece costruire il lungo stradone che collega le due città: idealmente essa congiunge la Chiesa della Croce di Anghiari, sorta dove Francesco si era fermato, col convento di Montecasale dove egli arrivò la sera stessa.
Alla Croce è riservata ad Anghiari, secondo l’insegnamento di Francesco, non solo la chiesa sorta in cima alla salita, dove le direttrici stradali formano sorprendentemente un Tau, ma anche la ricorrenza patronale del 3 di maggio.
A seguito dell’assoggettamento di Arezzo alla repubblica di Firenze nel 1385 il conte Lazzaro di Montauto stipulò un trattato di accomandigia con questa repubblica, alla quale riconosceva la sovranità, mantenendo però per sé e per i suoi successori la piena autonomia giurisdizionale e amministrativa. In tal modo acquistò la cittadinanza fiorentina e il permesso di innalzare sul castello il vessillo della repubblica.
Ma nel 1502 Arezzo, con l’aiuto delle truppe pontificie guidate da Cesare Borgia, si ribellò a Firenze, tornata repubblica nel 1494 con la cacciata dei Medici. Franceschetto di Montauto, capitano al soldo della repubblica fiorentina, aderì alla ribellione per solidarietà con Arezzo e con i Medici, divenendo di fatto imputabile di tradimento. Pochi mesi dopo, soffocata la rivolta, la magistratura fiorentina dei Dieci di Balia decise di punire i signori di Montauto, incaricando il commissario e generale fiorentino di Arezzo, Antonio Giacomini, di conquistare e distruggere il castello, far prigioniero il signor Francesco e soprattutto “insignorirsi della cappa di San Francesco la quale è in decto luogo”.
Il Giacomini, conscio della difficoltà di conquistare il maniero dei Barbolani con le armi, decise di ricorrere all’inganno: in una fredda domenica di fine gennaio del 1503 si presentò al castello con una trentina di fanti e dodici cavalli, fingendo di voler andare a caccia. Chiese però di poter assistere alla Messa e venerare la cappa di Francesco: una volta entrato fece prendere le porte ai propri uomini e rivelò la propria identità, impadronendosi immediatamente della reliquia e facendola vegliare giorno e notte dai suoi uomini.
Anghiari, Villa della Barbolana, XVI secolo
Cenacolo di Montauto, Cappella Barbolani, XVI secolo
La vicenda è ricostruita con grande attenzione, e con ricca appendice documentaria da Nicoletta Baldini nel volume Il saio delle stimmate di San Francesco d’Assisi, scritto in occasione della definitiva collocazione del saio alla Verna. In particolare, la studiosa ripercorre la storia del furto della reliquia e della sua traslazione a Firenze attraverso numerose fonti, tra le quali fondamentali appaiono le due cronache, rispettivamente del 1503 e del 1522 di Fra Mariano da Firenze, che ne fu testimone oculare.
Egli narra dunque come nei giorni seguenti arrivassero quattro frati minori da Firenze col compito di scortare la cappa da Montauto fino in città, controllando che non venisse sostituita: essa fu posta in una cassa, coperta da un mantello di seta e sistemata su un cavallo, e il suo passaggio fu accolto in tutto il percorso da grande entusiasmo, essendo considerata reliquia miracolosa. A Firenze venne accolta con una solenne processione e collocata infine in San Salvatore al Monte e in seguito, nel 1571, trasferita per motivi di sicurezza, a San Salvatore in Ognissanti, dove è rimasta fino al 2000. Nella cronaca scritta fra il 1578 e il 1581 da un altro frate francescano fiorentino, viene riportato anche come i Montauto fossero persone molto devote e degne di aver ricevuto tale dono, ma forse l’allontanamento della reliquia dal castello non fosse stata gradita a Dio e a San Francesco. Infatti quando il saio era a casa loro, aveva operato molti miracoli, mentre a Firenze non se ne era visto nemmeno uno!
Intanto, il castello di Montauto, che era stato quasi del tutto distrutto dai fiorentini nel 1503, venne ricostruito pochi decenni dopo, con l’aggiunta di una chiesa più grande, dedicata ai Santi Pietro e Francesco: poco più a valle, lungo la strada che scende verso Anghiari, fu edificata anche la villa fortificata della Barbolana, e leggermente sopra a questa un convento, costruito da Federigo Barbolani di Montauto dopo che San Francesco e Sant’Antonio erano apparsi in sogno a suo padre, indicandogli il luogo preciso dove volevano che venisse edificato il convento che la famiglia aveva promesso a San Francesco tre secoli prima.
Ed è qui, dove riposano alcuni dei numerosi discendenti del beato Alberto, che si trova un piccolo pezzetto del saio: esso fu richiesto, e ottenuto, dal canonico Donato Velluti Zati nel 1882, in una delle rare occasioni in cui la reliquia, quasi dimenticata, era stata prelevata dalla teca e mostrata a poche persone, tra le quali si trovava anche lui, come diretto discendente del conte Alberto.
Con l’allontanamento dei francescani da Ognissanti fu infine deciso di portare il saio nel luogo stesso da cui San Francesco era partito dopo aver ricevuto le stimmate. Restaurata e posta in una teca sicura, essa è oggi visibile nella Cappella delle Reliquie all’interno della Basilica.
Termina così la storia dell’amicizia tra il poverello di Assisi e il rappresentante di una potente famiglia di uomini d’arme: ma non la forte spiritualità che ancora oggi si sente in questi luoghi percorsi e amati dal santo ottocento anni fa, e dove sembra di sentire ancora la sua presenza.
Alberica Barbolani di Montauto