Medioevo in bicicletta

“Viaggio nel Medioevo” (Salvioni Edizioni) è il titolo di un libro insolito ed affascinante. Lo hanno scritto due giornalisti, Roberto Antonini e Antonio Ferretti, uniti da una passione comune per il ciclismo e lo studio dell’età medievale. Un Medioevo da scoprire in bicicletta esplorando le strade e le piazze di città che hanno segnato la storia del Vecchio Continente: 2315 km in 33 tappe, da Assisi a Bruges. Il volume, arricchito dalle piantine dei luoghi, tracce GPS scaricabili con il cellulare e notizie utili su alloggi e ristoranti, ospita anche una lunga intervista a Jacques Le Goff, realizzata in più puntate da Roberto Antonini per RSI Radiotelevisione svizzera pochi mesi prima della morte del grande storico francese. La scrittrice e critica teatrale Marta Morazzoni (Premio Campiello) ha firmato la prefazione di un’opera che è al tempo stesso saggio storico, guida turistica e racconto di straordinarie vicende di un passato che è ancora vivo nell’immaginario dell’età contemporanea.

Il giornalista, diceva Albert Camus è uno «storico del presente». Ma due mannaie pendono sulla sua testa: lo spazio e il tempo. Ha poche parole per provare a spiegare in modo chiaro un fatto e per capire cosa è successo veramente. E poco, pochissimo tempo prima di andare in stampa, scrivere un post, aggiornare una home page. Oppure, in tv, lanciare le ultime news, di corsa, sul filo di lana della sigla di chiusura di un tg. Le fonti, comunque di parte, rischiano di essere avvelenate. Il controllo e l’incrocio dei fatti è questione di ore, a volte di minuti.

Fra il cronista e lo storico è proprio il tempo a scavare il solco delle differenze. Lo studioso affronta i fatti con altrettanti dubbi ma può farlo con molta più calma: analizza, soppesa e confronta. Scandaglia il valore delle testimonianze, esamina i documenti d’archivio e cerca nuove fonti, negli archivi pubblici e privati, nei centri studi e nei lavori, vicini e lontani di tanti colleghi che, prima di lui, si sono occupati degli stessi avvenimenti. Fino a trovare e seguire un filo coerente nell’infinito groviglio di piccole e grandi cronache. Lo sgocciolio dei giorni e dei decenni accumula gli avvenimenti da ripescare nel grande fiume della storia.

Il tempo è la sostanza di cui siamo fatti, ricorda Borges in una sua celebre poesia. “Substantia”, in senso letterale: le memorie, collettive o personali che siano, “stanno sotto” di noi, sono le nostre fondamenta. Ci sorreggono. Sostengono i nostri sentimenti. Abitano le nostre vite. Affollano passioni e coscienze. Attraverso il passato possiamo rintracciare la nostra identità, capire meglio chi siamo. E coltivare anche nell’era della grande rete globale, l’illusione di dare un senso ai mondi reali e virtuali che ci scorrono intorno.

Roberto Antonini e Antonio Ferretti, come tutti i giornalisti di razza, hanno seguito la più antica e certa delle regole del mestiere: per capire e raccontare bisogna andare sul posto, alla fonte stessa dei fatti.

Foto aerea del centro di Siena

Giornalisti e insieme storici. Di un passato che è ancora presente e vivo.  Lo hanno fatto a cavallo di una bici strappando tempo al lavoro di redazione. Pedalando. Senza fretta, di città in città, da Assisi e Bruges, lungo le strade d’Europa. Immersi nella più affascinante e varia delle storie: quella del Medioevo. Un’età vilipesa e dileggiata. Raccontata spesso attraverso pregiudizi, stereotipi e incredibili luoghi comuni. Accettati alla fine, più o meno inconsciamente, nelle narrazioni cinematografiche o anche nel rimbalzo delle opinioni rilanciate nei talk show televisivi. Perché come gli uomini di tutte le epoche ci piace pensare che il nostro mondo sia più bello, migliore di quelli passati, così oscuri e crudeli, ricchi di prepotenze e di ingiustizie, flagellati da insensate guerre combattute in nome di dio, del denaro e della brama di potere. Chi ama e studia il passato invece sa bene che la storia e una e continua. E che non si può tagliare a fette, come fosse un salame o una torta, per poi prendere solo la parte che ci piace di più.

Il Medioevo non esiste. È una convenzione, una suddivisione di comodo della storiografia occidentale, piazzata fra l’Età Antica e l’Età Moderna.  Una parentesi enorme di dieci e più secoli, tutti molto diversi tra di loro, nel quale abbiamo provato a far convivere Alboino con Lorenzo il Magnifico e sistemato Abelardo insieme a Federico da Montefeltro. La parola stessa, Medioevo, comparve quando per la maggior parte degli storici l’età medievale era finita da un pezzo, nel 1688, all’interno della monumentale Historia Universalis dell’erudito tedesco Christoph Keller, conosciuto anche come Cellarius, divisa in tre canonici volumi: Historia Antiqua, Historia Medii Aevi e Historia Nova.

Media tempestas” o “media aetas”, Età di Mezzo. Un lungo periodo di passaggio che gli eruditi cinquecenteschi sistemarono tra l’antica, presunta “età dell’oro” dei Greci e dei Romani e il loro tempo, che percepivano come una nuova età di classicità e perfezione, lontanissima dal “gotico” e dai quei tempi che ancora oggi in molti si accaniscono a dipingere come “secoli bui”.

Il Medioevo non esiste perché non sappiamo nemmeno quando è nato. Nel 378 ad Adrianopoli con la vittoria dei barbari sui romani? Nel 476 con la deposizione di Romolo Augustolo? Nella prima metà del 600, quando con le invasioni arabe finisce l’unità culturale e politica del Mediterraneo? O nella famosa notte di Natale dell’800, quando dopo l’incoronazione di Carlo Magno un impero germanico sostituisce quello romano?

Il rosone del Duomo di Assisi

Non siamo d’accordo neppure sulla fine della grande parentesi disegnata dalla storiografia. Dipende dalle aree geografiche, dalle varie sensibilità, dalla vanità delle nazioni. E da quando sia veramente iniziato quel mondo che definiamo “moderno”. Noi italiani facciamo finire il Medioevo nel 1492, l’anno fatale nel quale Cristoforo Colombo mise piede nel continente americano. Per i tedeschi l’Età di Mezzo termina con la Riforma e quindi quando Lutero appese le sue 95 tesi sul portone della chiesa di Ognissanti del castello di Wittenberg (1517). Alcuni storici sono affezionati all’idea che il Medioevo finisca con la data simbolica della caduta di Costantinopoli (1453). Altri preferiscono il 1455, l’anno dell’invenzione della stampa a caratteri mobili, detonatore di una rivoluzione tecnologica e culturale.

Il grande storico francese Jacques Le Goff, ha proposto alla nostra riflessione l’idea di un lungo, lunghissimo Medioevo, dal III al XIX secolo, capace di contenere il Rinascimento, l’età barocca, l’Illuminismo, la Rivoluzione Francese e gli anni di Napoleone, fino alla metà dell’Ottocento, «quando la rivoluzione industriale e la crescita della democrazia fanno nascere un mondo veramente nuovo».

Franco Cardini, principe dei medievisti, a Gubbio, nella lezione inaugurale della prima edizione del Festival del Medioevo (2015) ha spiegato che il Medioevo non esiste perché ce ne sono troppi. Uno, cento, mille Medioevi. Ognuno ha il suo e lo sceglie a piacere: rozzo o raffinato, guerriero o pacifista, profano o mistico, superstizioso o razionalista.

Un’epoca da dilatare a piacere. Un grande contenitore da cui possiamo estrarre esempi, modelli e identità.

Da qui il suo fascino anche per l’uomo contemporaneo.

Allora la vera notizia è questa: il Medioevo è ancora fra noi. Abita in modo stabile anche nell’immaginario collettivo. È un sogno sospeso che fra mille richiami rivive di continuo: al cinema, nelle opere letterarie, in appassionanti serie televisive, in centinaia di rievocazioni popolari diffuse in ogni angolo d’Europa. Nelle canzoni, nei fumetti e nei videogiochi. Ispira i messaggi pubblicitari, le fantasiose architetture delle moderne megalopoli e riemerge anche nei simboli e nei linguaggi figurati della vita politica.

Gli autori di questo libro, da veri amanti dell’età medievale, hanno seguito l’insegnamento di Sant’Agostino, maestro di inquietudine e fondatore di un genere letterario che ci tocca ancora in modo profondo, quello dell’autobiografia interiore: «Il mondo è un libro, e coloro che non viaggiano leggono solo una pagina».

Così, come i clerici vagantes, i poeti e gli studenti girovaghi che fra il XII e il XIII secolo seguivano le tracce dei grandi maestri nelle nascenti università, hanno riempito ogni giorno le loro borracce con l’acqua delle tante sorgenti dell’Occidente medievale nei luoghi da dove è sgorgata una prima idea di Europa.

Da Assisi a Bruges. Dall’Umbria, patria di Benedetto, fondatore del monachesimo occidentale e da Assisi, la città di Francesco, il più venerato dei santi, fino alle Fiandre, la terra dove nel 1066 apparve per la prima volta la parola burgenses per designare gli abitanti delle rinascenti città.

Ogni sera, fra una tappa e l’altra, hanno toccato con mano la clamorosa inconsistenza di un altro stereotipo appiccicato al Medioevo, quello di un’epoca statica, immobile, chiusa dentro il proprio orizzonte, nella quale si rimaneva ancorati al proprio villaggio, alla propria città o a un solo spicchio di mondo.

Una infinità di studi e ricerche hanno dimostrato il contrario: il viaggio e la strada sono i veri protagonisti dell’età medievale.

Si viaggiava in ogni stagione. E lo facevano tutti. A piedi e a cavallo. A dorso dei muli o degli asini. Sui carretti e le barche. Lungo i fiumi, i laghi, i mari e perfino gli oceani. Certo non a scopo di svago, come accade oggi. Piuttosto seguendo una meta precisa. Per lavoro e per devozione. Una circolazione continua di uomini, merci ed idee. Popoli interi hanno fatto la loro irruzione nella storia trasportati da imponenti ondate migratorie: “stranieri” e “barbari” dei quali c’è ancora traccia nel nostro patrimonio genetico.

Roberto Antonini e Antonio Ferretti in una tappa del loro tour alla scoperta dell’Europa medievale

Un Medioevo in marcia: si muovevano i contadini in cerca di nuovi suoli da coltivare, i pastori sui sentieri antichi delle transumanze, i giullari che vagavano di castello in castello. Si spostavano i sovrani insieme alle loro corti, i mercanti da una fiera all’altra, i cavalieri, i fuorilegge e i mendicanti.  Anche gli anacoreti in cerca di eremi selvaggi e gli eretici per sfuggire ai loro persecutori. E poi i peregrinantes: uomini e donne, armati di bordone e bisacce, che a piedi percorrevano enormi distanze, fra pericoli e privazioni di ogni sorta. Nel Medioevo la vita stessa è un viaggio. Un cammino che diventa metafora dell’esistenza: dalla nascita alla morte, fino alla vita eterna. La patria del pellegrino diventa la sua mèta: Roma, Gerusalemme, Santiago di Compostela, i santuari mariani di Le Puy, Chartres, Rocamadour oppure i luoghi di San Michele, l’arcangelo armato caro ai Longobardi e venerato in Puglia, sul Monte Gargano o sull’isolotto normanno di Mont-saint-Michel.

Anche il viaggio di Roberto Antonini e Antonio Ferretti è in qualche modo un pellegrinaggio. Tutto a beneficio di noi lettori. Hanno pedalato attraversando il paesaggio dei secoli. Esplorando la bellezza dei documenti di carta e di pietra lasciati da un passato che è presente e vivo. Come il latino, la lingua che per quindici secoli ha unito l’Europa medievale e che riaffiora davanti alle targhe di strade, piazze, vicoli e boulevard che gli europei si ostinano a chiamare con i nomi dei giorni e degli anni, dei santi e dei poeti, dei filosofi e degli statisti.

Alla fonte dei fatti piccoli e grandi di un passato comune, possiamo riflettere davanti alla bellezza dei tanti monumenti che circondano le nostre vite. Fino alla radice della parola con la quale li definiamo: men-, la stessa di mens (“mente”) di monitor (“suggeritore”) e di memini (“io ricordo”). Sì, è monere, il verbo della storia. Significa “far ricordare”, “avvisare”, “istruire”. E “illuminare”.

Federico Fioravanti