Ha una bellezza irresistibile e “la testa più dura della lava dell’Etna”, Agata. Che non si arrende a lusinghe, né a minacce, né a torture.
È il 5 febbraio dell’anno 251 e la giovane nobile siciliana viene spinta dentro una fornace ardente.
Nei giorni precedenti le sono state stirate le membra, le hanno lacerato la pelle con pettini di ferro, scottata con lamine infuocate, ma ogni tormento invece di spezzarle la resistenza, sembrava darle nuova forza. Al colmo del furore il proconsole Quinzano, innamorato e respinto, le aveva fatto tagliare i seni con enormi tenaglie. Poi era stata riportata in cella sanguinante e ferita, ma nella notte era stata miracolosamente guarita a seguito di una visione. Allora il proconsole aveva ordinato che fosse bruciata su un letto di carboni ardenti, con lamine arroventate e punte infuocate.
Adesso, mentre il fuoco brucia le sue carni, rimane intatto il velo che la ragazza indossa. Poi un terremoto scuote la città di Catania e il Pretorio crolla seppellendo due consiglieri di Quinziano; la folla dei catanesi, spaventata, si ribella al supplizio e il proconsole fa togliere Agata dalla brace e la fa riportare agonizzante in cella, dove muore qualche ora dopo.
Secondo la “Passio Sanctae Agathae”, risalente alla seconda metà del V secolo, Agata apparteneva ad una ricca famiglia catanese convertitasi al cristianesimo.
Ad appena 15 anni Agata (il cui nome deriva dal greco Agathé, ovvero “buona”) aveva deciso di consacrarsi totalmente a Dio e il vescovo di Catania le aveva imposto con un’apposita cerimonia il “flammeum”, cioè il velo rosso portato dalle vergini consacrate.
Nel mosaico di Sant’Apollinare nuovo in Ravenna (VI secolo) Agata è raffigurata con la tunica lunga, dalmatica e stola a tracolla, abbigliamento che lascia supporre che fosse diventata diaconessa, un ruolo molto importante nel cristianesimo delle origini.
Se nella chiesa di oggi il diacono è ridotto praticamente al ruolo del sacrestano, a quei tempi era il responsabile economico della comunità: colui che si occupava di distribuire i beni ai poveri. L’affidamento ad una donna di tale ruolo è tanto più significativo dal momento in cui nella chiesa moderna il diaconato, così come gli altri due ordini sacri (presbiteriato ed episcopato) è stato inibito al sesso femminile e è riservato agli uomini.
Studi storico-giuridici più recenti sostengono che Agata non potesse avere meno di 21 anni quando il proconsole di Catania Quinziano se ne era invaghito, ma vistosi rifiutato, l’aveva accusata di vilipendio della religione di Stato, in forza dell’editto di persecuzione dell’imperatore Decio, e l’aveva fatta arrestare.
Dopo aver tentato inutilmente un programma di “rieducazione” della ragazza affidandola ad una cortigiana nome Afrodisia (che l’aveva sottoposta – secondo la leggenda – a tentazioni immorali di ogni genere, con festini, orge e banchetti) aveva imbastito un processo contro di lei, concluso con la tortura e l’esecuzione.
Esattamente un anno dopo, il 5 febbraio 252, una violenta eruzione dell’Etna minaccia Catania: molti cittadini, sia cristiani che pagani, accorrono al suo sepolcro e, preso il velo che ne ricopre i resti, lo portano di fronte alle colate della lava dell’Etna che si fermano miracolosamente..
Da allora il velo – conservato nella cattedrale della città – è stato portato spesso in processione per scongiurare le catastrofi, riuscendo a salvare Catania più di quindici volte: l’ultima nel 1886. La santa avrebbe preservato inoltre la sua città nel 535 dagli Ostrogoti, e nel 1575 e nel 1743 dalla peste.
Nel 1040 le reliquie della santa vengono trafugate dal generale bizantino Giorgio Maniace, che le trasporta a Costantinopoli; nel 1126, però, due soldati della corte imperiale – il provenzale Gilberto ed il pugliese Goselmo – le riconsegnano il 7 agosto al vescovo di Catania ad Aci Castello. Il 17 agosto il corpo tornerà nel Duomo, dove viene ancora oggi conservato in una cassa argentea, opera di celebri artisti catanesi; vi è anche il busto argenteo della “Santaituzza”, opera del 1376, che reca sul capo una corona, dono – secondo la tradizione – di re Riccardo Cuor di Leone.
Nel 1231 Federico II di Svevia giunge in Sicilia per assoggettarla. Molte città, però, si ribellano e Catania è tra queste. Federico II ne ordina allora la distruzione, ma i catanesi ottengono che, prima dell’esecuzione di quello sterminio, in cattedrale venga celebrata l’ultima messa, alla quale presenzia lo stesso Federico II. Durante quella funzione il re svevo, sulle pagine del suo breviario, legge una frase che suona come un pericoloso avvertimento: “Noli offendere Patriam Agathae quia ultrix iniuriarum est”.
L’imperatore abbandona così il progetto di distruzione e revoca l’editto accontentandosi soltanto che il popolo passi sotto due spade incrociate, pendenti da un arco eretto in mezzo alla città. La città ricorda questo evento con un bassorilievo di marmo che si trova oggi all’ingresso del palazzo comunale e raffigura Agata, seduta su un trono come una vera regina, che calpesta il volto barbuto di Federico II di Svevia.
Tra i tanti miracoli tramandati, tra i più clamorosi c’è quello del 1169, quando un terremoto fece da preludio a una tremenda eruzione. Un fiume di lava, scorrendo per i pendii dell’Etna e allargandosi per le campagne, distruggeva ogni cosa al suo passare e avanzava inarrestabile verso la città. Ma, come era avvenuto un anno dopo la morte di Sant’Agata, una processione col sacro velo bloccò il fiume di lava. Miracoli simili i catanesi li otterranno anche nel 1239, nel 1381, nel 1408, nel 1444, nel 1536, nel 1567 e nel 1635. Ma l’eruzione più disastrosa avviene nel 1669: una serie di bocche si aprono lungo i fianchi del vulcano, che erutta lava e lapilli per 68 giorni. La lava distrugge molti centri abitati e giunge fino in città, circondando il fossato del Castello Ursino.
Nella sacrestia della cattedrale un affresco, realizzato dieci anni dopo l’eruzione da chi aveva vissuto in prima persona quei tragici momenti, descrive le scene quasi apocalittiche di quella distruzione.
Quando il magma era giunto a una distanza di trecento metri dal duomo, miracolosamente cambiò direzione per andare a scaricarsi in mare.
A quella terribile eruzione è legato anche un altro evento prodigioso: un affresco, che raffigurava Sant’Agata in carcere, e che si trovava in un’edicola sulle mura della città, fu trasportato intatto dal fiume di lava per centinaia di metri. Ora quel dipinto si trova sull’altare maggiore della chiesa di Sant’Agata alle Sciare, a Catania.
Nel corso dei secoli Agata ha protetto i catanesi da guerre, terremoti ed epidemie, ma il suo culto si è allargato ad ogni parte d’Italia e d’Europa, a partire da Palermo (che se la contende con Catania come patrona fino al XVI secolo, quando viene soppiantata da Santa Rosalia) alla Puglia, regione protagonista di una singolare diatriba.
Secondo una leggenda l’8 agosto 1126 sant’Agata apparve in sogno a una donna che si era addormentata dopo aver lavato i panni nella spiaggia della Purità a Gallipoli e l’avvertì che il suo bambino stringeva qualcosa tra le labbra. La donna si svegliò e ne ebbe conferma, ma non riuscì a convincerlo ad aprire la bocca. Tentò a lungo: poi, in preda alla disperazione, si rivolse al vescovo, che celermente giunse nella spiaggia insieme ad altri ecclesiastici. Il prelato recitò una litania invocando tutti i santi, e soltanto quando pronunciò il nome di Agata il bimbo aprì la bocca. Da essa venne fuori una mammella. La reliquia rimase a Gallipoli, nella Basilica Concattedrale di Sant’Agata, dal 1126 al 1389, quando il principe Orsini Del Balzo la trasferì a Galatina, dove fece costruire la chiesa di Santa Caterina d’Alessandria d’Egitto, nella quale è ancora oggi custodita presso un convento di frati francescani. Secondo il vescovo gallipolino Montoya de Cardona la reliquia fu trafugata furtivamente dagli abitanti di Galatina “ex auctoritate” e fu “rubata furtivamente e all’insaputa dell’Università gallipolitana”. Numerosi sono stati i tentativi dei gallipolini di riportare nella Concattedrale di Sant’Agata la reliquia, a partire dal vescovo Gaetano Muller, il quale scrisse una lettera al cardinale prefetto dell’epoca, fino ad arrivare ad Achille Starace, segretario del Partito Nazionale Fascista, tutti inutili.
Oggi Agata è patrona, oltre che di Catania, della Repubblica di San Marino, di 37 città in Italia (dalla Lombardia alla Puglia), 20 in Spagna, 10 in Francia, 2 in Germania e 2 in Olanda, ma conta devoti anche in Belgio, Canada, Brasile e Malta.
Arnaldo Casali