Gli hanno attribuito la prima versione della teoria del Big Bang. E addirittura l’intuizione dell’ipotesi sugli universi paralleli. Di certo, Roberto Grossatesta (1170 ca.-1253) fu un grande scienziato. Una mente lucida e sottile che utilizzò per la prima volta nella storia dell’uomo l’unico strumento valido per dialogare con le leggi della natura: il linguaggio assoluto della matematica.
Della sua vita non sappiamo molto. Francescano, veniva dalla Contea di Suffolk, nell’Inghilterra orientale. Laurea in teologia, maestro e poi cancelliere nello Studium dei Frati minori di Oxford (tra i suoi allievi ci fu anche Ruggero Bacone, il Doctor Mirabilis), coronò la sua carriera ecclesiastica con il titolo di vescovo di Lincoln.
Era un ottimo conoscitore della lingua greca e tradusse varie opere, tra cui il De fide ortodoxa di Giovanni Damasceno, gli scritti dello pseudo-Dionigi con gli scoli di Massimo Confessore e, oltre a vari opuscoli pseudoaristotelici, l’Ethica Nicomachea, parte del De coelo con il commento di Simplicio e una critica agli Analitici posteriori di Aristotele.
E forse si deve proprio alla passione per il celebre filosofo greco il suo approccio logico allo studio dei fenomeni della natura. Che, unito alla formazione teologica, si materializzò nel De Luce, una versione della genesi dell’universo dove, per la prima volta, la creazione è illustrata in termini squisitamente matematici.
L’universo di Grossatesta inizia con un lampo di luce. La “prima forma corporea” (corporeitas) del cosmo è dunque un punto luminoso, entità semplice e senza estensione che si moltiplica e si propaga nelle tre dimensioni per generare i tredici cieli che compongono il creato.
Il parallelo con la moderna teoria del Big Bang è inequivocabile per una nutrita corrente di astrofisici, che attribuisce al geniale scienziato la paternità intuitiva del modello cosmologico oggi predominante, basato sull’idea che l’universo iniziò ad espandersi a velocità elevatissima a partire da una condizione di volume minimo e temperatura e densità estreme.
E le similitudini non finiscono qui, perché l’universo di Grossatesta ha la proprietà di rarefarsi man mano che si espande, proprio come assume la teoria del Big Bang.
Per alcuni scienziati poi, nel De Luce sono annidate alcune idee al passo con teorie ancora più all’avanguardia. Come quella dei multiversi, un’ipotesi che postula la coesistenza di mondi simmetrici: i famosi universi paralleli. La teoria nasce dalla meccanica quantistica, la branca della Fisica che descrive la luce sia come onda che come particella e che, formulata nella prima metà del XX secolo, ha risolto il paradosso implicito nella fisica classica, incapace di descrivere il comportamento duale della luce a livello microscopico.
In effetti, nell’universo di Grossatesta luce e materia sono accoppiati insieme. Nelle intenzioni del vescovo inglese non c’era di certo l’idea di sottintendere la possibilità dell’esistenza di universi multipli, ma nella sua visione del creato si possono arrangiare tanti multiversi. È quello che ha dimostrato una recente ricerca di Tom McLeish , fisico della Durham University nel Regno Unito, che ha tradotto in formule matematiche le speculazioni di Grossatesta, ricavandone una serie di equazioni analoghe a quelle che i fisici teorici utilizzano per esplorare, con la teoria delle stringhe, i nuovi orizzonti delle scienze cosmologiche.
In ogni caso, quello che davvero stupisce nel De Luce è l’eleganza formale della dimostrazione con la quale Grossatesta approda alle conclusioni. Il lettore viene accompagnato in un viaggio nell’essenza della luce, una metafisica che, attraverso il paragone con le proprietà dei numeri razionali e irrazionali, deduce come il punto di luce primigenio e senza dimensioni, generi lo spazio e la materia tridimensionali che compongono il creato.
La sintesi tra logica aristotelica e l’articolata eredità delle influenze neoplatoniche, euclidee e agostiniane, arricchita dagli influssi arabi (dal De Radiis di Alikindi, trattato sulla causalità geometrico-luminosa, alle opere di Avicenna e Averroè) fu una novità assoluta nel panorama scientifico e filosofico dell’epoca di Grossatesta.
Un balzo nel progresso di grandi proporzioni per la comprensione dei fenomeni fisici, che verrà portato avanti grazie a un ampio e vivace movimento culturale attivo fra il XII e il XIII secolo e rappresentato da esponenti come Alessandro di Hales (1170/1180 ca.-1245), Giovanni de la Rochelle (1190/1200 ca.-1245), San Bonaventura da Bagnoregio (1217 ca.-1274), Giovanni Peckham (1230 ca.-1292) e Bartolomeo da Bologna († dopo il 1294).
Quello che noi chiamiamo metodo sperimentale, ossia dimostrare una teoria scientifica attraverso una serie di esperienze mirate, che esploderà a partire da Francesco Bacone alla fine del Cinquecento e continuerà nel Seicento con Galileo, Cartesio e Newton, ha le sue radici proprio nelle teorie dei filosofi della natura francesi e inglesi del XIII secolo, che perfezionarono i metodi logici di dimostrazione elaborati nell’Antichità soprattutto da Aristotele e Euclide.
L’interesse per la Filosofia della Natura portò Grossatesta a scrivere trattati anche sul calore, sui colori, sulla generazione dei suoni, sulle comete, sulle maree, sul moto degli astri e sull’arcobaleno.
Da vescovo poi, fu anche uno strenuo sostenitore della riforma della Chiesa. Perseguì abati e monaci che praticavano l’uso dei benefici ecclesiastici e denunciò aspramente le politiche papali che finanziavano guerre e crociate.
Ma il messaggio più luminoso che ci arriva da Grossatesta è senza dubbio la sua percezione della Natura. E non solo dal punto di vista puramente scientifico. Nei suoi “Scritti sul pensiero medievale”, Umberto Eco dice: «Il Medioevo identificava la bellezza (oltre che con la proporzione) con la luce e con il colore». Una poetica della luce che si fonda sulla sua metafisica, così mirabilmente descritta da Grossatesta.
Daniela Querci
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