Voga, voga, voga. Per quattro ore consecutive, incatenato con il piede al banco, sorvegliato da un aguzzino che può frustrarti a piacimento e ha diritto di vita e di morte su di te. Poi due ore riposo, e poi si riparte.
Mangi una sola volta al giorno, la sera, così non vedi quello che hai nel piatto e magari hai il coraggio di infilarlo in bocca. Se sei fortunato ti spettano due libbre di galletta, mezza libbra di carne secca o pesce salato, una pinta di vino e un’oncia d’olio. Ma solo se sei fortunato; altrimenti il tuo rancio è costituito da un impasto di acqua e farina condita con acqua marina o da aceto per coprire il gusto di marcio, che se si chiama “rancio” – ovvero rancido – un motivo c’è.
E poi dormi su quella stessa tavola, sempre incatenato. Pronto a ricominciare il turno. E voga, voga, voga al ritmo del tamburo e della frusta che schiocca sulle tue spalle sudate.
Non c’è forse pena peggiore da immaginare, della galera. D’altra parte te la sei cercata: sei un delinquente, un rifiuto della società o – peggio – un prigioniero di guerra, uno schiavo. La tua vita non serve a nient’altro che a far procedere la nave in mare anche senza la vela. Non è certo un caso se galeotto è diventato sinonimo di detenuto e “galera” il termine più aspro per parlare di prigione.
Una prigione galleggiante e pericolosa – visto che diventa spesso campo di guerra e magari un cimitero sottomarino – e che ha attraversato non solo tutto il Medioevo, ma gran parte della storia antica e di quella moderna. Mille anni e mezzo all’arrembaggio.
Grossa, bastarda, mezza galera, sensile, a scaloccio, sottile, pianella e ancora reale, generalizia, capitana, militare o mercantile, armata o disarmata.
In 15 secoli di storia, la galea ha visto sfilare un’enorme quantità di tipologie diverse di navi, anche se la scelta di utilizzare come “motore” i condannati per gravi delitti prende piede – e braccia – nel XVI secolo.
Prima più che i “forzati” o “galeotti” erano i “bonevoglie” – ovvero volontari stipendiati – a mandare avanti la barca. Resta il fatto che la galea si impone come la regina della nautica mediterranea per almeno 600 anni e si segnala l’esistenza di qualcuna di esse ancora agli inizi dell’Ottocento nella marina russa.
Una vita così lunga è dovuta alla felicissima rispondenza tra le caratteristiche tipiche della galea e le esigenze navali di tutto quel tempo. Non fu necessario modificare i fattori essenziali delle galee nemmeno quando, a metà del Trecento, la comparsa delle armi da fuoco cominciò a trasformare gli antichissimi fondamentali della tattica navale.
Il nome deriva da “galeos”, il nome greco del pesce spada. Come il pesce spada, infatti, la galea era snella e veloce, con uno sperone lungo e tagliente capace di squarciare le carene avversarie.
La sua origine è antichissima, dato che la “nave lunga” dei micenei, la bireme e la trireme, greca o latina, o il dromone bizantino possono considerarsi delle galee. Il nome galea si deve all’imperatore Leone di Bisanzio e la nave a cui si riferiva era simile al dromone, da combattimento, con un solo ordine di remi, adatta al servizio di avanscoperta.
Pur dotata di vela, la galea si affidava soprattutto ai remi, che le consentivano manovre libere e veloci in qualunque situazione, anche controvento e in combattimento. Lo scafo era lungo 45 metri, largo intorno ai 6, molto basso di bordo e di minimo pescaggio (circa un metro e mezzo). Poteva quindi manovrare anche in bassi fondali, vicino a terra e poteva essere tirata in secco senza troppa difficoltà.
Nel XII secolo la galea era utilizzata soprattutto per la guerra, mentre le cosiddette “navi tonde” – che avevano uno scafo più tozzo, più alto e più robusto, ed erano esclusivamente a vela – erano utilizzate prevalentemente per il commercio.
Per tutto il Duecento le galee erano biremi (ossia ogni banco ospita due rematori, ciascuno dei quali manovra un solo remo) e gli uomini che le manovrano non erano schiavi ma liberi cittadini retribuiti. Il miglior compromesso tra grandezza e manovrabilità era stato raggiunto con la trireme, cioè la galea a tre ordini di remi, che aveva sostituito la pentecontera.
Erano stati i genovesi e i veneziani a fare della galera la tipica nave da guerra del medioevo perfezionando il modello romano. La galera grossa veneziana (500 tonnellate) fu un eccezionale mezzo multifunzione, con i rematori disposti in 25-30 banchi per la voga per ciascun lato. In genere a ogni banco corrispondeva un lungo remo, azionato da due o tre vogatori; ma c’erano galee con due e anche tre remi per banco, più corti e manovrati ciascuno da un vogatore. Se la navigazione era “pacifica” e il vento favorevole, la galea alzava una o due vele triangolari: altrimenti, e comunque in battaglia, procedeva a forza di remi.
Sullo scafo era sovrapposto un robusto telaio rettangolare che, sporgendo sui fianchi della galea, formava le “impavesate”, cioè due passerelle su cui erano fissati gli scalmi dei remi e su cui, all’abbordaggio, lottavano i combattenti. La poppa, lievemente rialzata, formava il ponte di comando e conteneva, sottostante, la cabina degli ufficiali. Sulla prua era piazzata l’arma balistica di maggiore efficacia: dapprima fu un “mangano”, cioè un congegno a contrappeso, capace di scagliare grosse pietre; poi, con l’avvento delle armi da fuoco, il mangano fu sostituito da un cannone. In ambedue i casi l’arma era fissa allo scafo, perciò veniva puntata manovrando la nave con il timone. Il timone stesso, però, fu adottato solo dopo che Marco Polo lo vide in Cina e lo fece conoscere in Occidente: in precedenza lo scafo era manovrato con due remi a pala larga, fulcrati sulla poppa.
La galea tipica aveva un equipaggio di circa 300 uomini: due terzi erano vogatori, una cinquantina marinai e il resto uomini d’arme. Lo stato maggiore della nave era composto dal comandante, detto “sopracomito”, due o tre ufficiali o “nobili di poppa”, un aiutante maggiore o “padrone”, un medico o “cerusico” e il capitano degli armigeri. I sottufficiali comprendevano un nostromo o “comico”, due nocchieri, un pilota e un furiere o “scrivano”.
Il servizio sulle galee era molto duro per tutti, anche perché lo spazio era minimo. Gli uomini stavano sempre allo scoperto e vivevano letteralmente sul posto d’impiego, in condizioni igieniche oggi inconcepibili.
Alla fine del medioevo soltanto Venezia continuava ad impiegare vogatori liberi (arruolati per la gran parte fra gli slavi della Dalmazia, i cosiddetti “schiavoni”), convinta che la superiorità bellica delle sue galee dipendesse dal fatto che i vogatori erano liberi e combattessero con i soldati. A metà del Cinquecento, però, anche Venezia dovette rassegnarsi a far vogare i prigionieri, durante le battaglie, per rimpiazzare i morti, raggruppandoli però in un apposito reparto, il cui comandante ebbe il titolo di “governatore dei condannati”.
Tra le navi minori originate dalla galera per trasporti veloci e servizi di esplorazione vanno ricordate la fusta, la galeotta e la saettia, il brigantino, la fregata e la feluca. Non c’erano sostanziali differenze fra le galee da guerra e da trasporto: le une potevano sostituirsi alle altre con facilità, variando l’armamento. La tattica di combattimento delle galee consisteva nello scagliarsi contro la nave nemica alla massima velocità (cioè a voga “arrancata”), tentando di speronarla. Ma quasi sempre la contromanovra avversaria portava le galee ad abbordarsi, fracassando e aggrovigliando i remi, allora si cercava di conquistare la nave nemica combattendo corpo a corpo.
Suprema ambizione di una galea era quella di abbordare la nave del comandante in capo nemico, anche perché certamente se ne poteva trarre più ricco bottino, che veniva diviso fra tutti i membri dell’equipaggio, in proporzione al grado, per arrotondare le magre paghe mensili.
Da una Tarifeta veneziana del 1664, risulta che il comandante in capo dell’armata riceveva 250 ducati al mese, ovvero 6250 euro: il sopracomito di galea 2250 euro; gli altri ufficiali 250 euro; i sottufficiali 37,50 e giù fino ai vogatori, che ne guadagnavano 31,25 euro al mese.
Il sopracomito in genere era di nobile famiglia ma con scarsa esperienza di mare, nominato per le sue origini aristocratiche, mentre il comito era un marinaio di origini borghesi che raggiungeva quel titolo secondo procedure meritocratiche o di raccomandazione-clientela. Gli ufficiali musulmani invece erano quasi tutti nominati dopo una selezione meritocratica, che premiava abilità marinaresca, fortuna in battaglia e coraggio. Quelli barbareschi erano selezionati dagli armatori corsari tra i sottufficiali più abili, ivi inclusi gli ex schiavi cristiani convertiti all’islam, di cui non pochi divennero ammiragli.
La forma lunga e stretta delle galee, ideale soprattutto in battaglia, la rendeva però poco stabile, e le tempeste e il mare grosso la potevano facilmente affondare: perciò il loro utilizzo era limitato alla stagione estiva, al massimo autunnale. Era obbligata a seguire una navigazione di cabotaggio, ossia vicino alle coste, in quanto la sua stiva poco capiente imponeva diverse tappe per il rifornimento soprattutto di acqua, che i rematori, per il continuo sforzo fisico, consumavano molto. Per queste ragioni la galea era inadatta alla navigazione oceanica.
“L’Arsenale di Venezia, dove fin dal XII secolo venivano costruite le galee della Repubblica veneziana, si può considerare il più grande complesso produttivo del Medioevo, e la prima vera grande fabbrica moderna – spiega Marc’Antonio Bragadin in Storia delle Repubbliche marinare – in esso lavoravano migliaia di uomini, addetti alle diverse attività, e le galee venivano costruite in serie, anticipando i metodi della moderna catena di montaggio. La capacità produttiva dell’Arsenale era impressionante: nel mese di maggio 1571, nell’imminenza della battaglia di Lepanto, furono varate ben venticinque navi pronte a prendere il mare, quasi una al giorno!”.
“Nella battaglia di Lepanto – continua Bragadin – i veneziani sperimentarono con ottimi risultati le galeazze, galee molto più grandi e stabili che potevano imbarcare batterie di cannoni di grosso calibro e sparare in tutte le direzioni; tali navi, tuttavia, erano impossibili da manovrare a remi, tanto che dovettero essere trainate da due galee ciascuna. La galea venne quindi rapidamente soppiantata dal galeone a vela, molto più grande e potente: oltre ad avere una maggiore potenza di fuoco, esso poteva affrontare le rotte oceaniche, che con l’incremento dei traffici con l’America diventavano sempre più importanti. I primi ad adottarlo furono i paesi della costa atlantica, soprattutto l’Inghilterra. Nel Mediterraneo, invece, ancora nel XVII secolo la galea rimaneva la nave da guerra più usata”.
Il senso dell’onore di cristiani e di musulmani era l’unica garanzia che le galere e i loro equipaggi fossero ben trattati, visto che solo il governo veneziano faceva dei controlli regolari. I soldati potevano essere di molti tipi: tanto i musulmani quanto i cristiani potevano contare di frequente su volontari che si imbarcavano senza paga (anche se partecipavano alla divisione del bottino) attratti dalla crociata-jihad e dal gusto dell’avventura o dal senso dell’onore. L’Impero ottomano disponeva di truppe sceltissime tratte dal corpo dei giannizzeri, il più disciplinato ed efficiente esercito di quell’epoca. I genovesi disponevano di un’eccellente fanteria leggera imbarcata, in genere reclutata in Corsica, ma a differenza di quella spagnola e di quella turca si trattava di truppe mercenarie, così come quelle reclutate in Istria e Dalmazia (soprattutto tra gli slavi schiavoni) da Venezia. Le armature genovesi erano molto apprezzate, in quanto con una sola mossa, se si cadeva in acqua, potevano essere levate, mentre la peculiarità delle truppe veneziane erano i cecchini, dotati di numerosi grossi archibugi da posta, molto più lunghi, potenti e precisi dei normali moschetti, che però dovevano essere utilizzati con complicati tripodi.
Una galea interzata aveva tre remi e tre vogatori per banco e contava 144 remi per 144 vogatori disposti su 24 banchi, mentre una galea a scaloccio, aveva ogni remo manovrato da cinque vogatori per banco, in tutto 48 remi e 240 vogatori, sempre su 24 banchi. Il primo sistema di voga, più antico, venne utilizzato fino alla metà del ‘500 venendo poi sostituito dal secondo. La soluzione di disporre più vogatori con una serie di prese ricavate nell’impugnatura, risolse infatti il problema della disponibilità di vogatori esperti, in quanto bastava inserire nella cinquina uno di questi, come capo voga, e gli altri meno capaci seguivano. I remi raggiungevano la lunghezza di 11 metri, con un peso di circa ottanta chilogrammi; il notevole rigonfiamento del’impugnatura funzionava da contrappeso alla lunga pala sporgente dallo scafo.
Quando le vele venivano issate, i remi si legavano ad appositi anelli fissati saldamente sul ponte, così che le pale restassero sollevate dall’acqua. Ma quando si scorgeva all’orizzonte il nemico si calavano le vele e si ricominciava con i remi. E voga, voga, voga, all’arrembaggio.
Arnaldo Casali