Lo vedi, ecco Marino. Ma non è vino, quello che scorre tra le valli: è sangue. Sangue cattolico, sangue fratello, sangue pontificio.
È il 30 aprile 1379 quando nel castello romano le truppe di papa Urbano VI sconfiggono quelle di papa Clemente VII, costringendolo a fuggire ad Avignone.
Tutto era cominciato un anno prima: il 28 marzo 1378 era morto Gregorio XI, l’ultimo papa francese, che aveva finalmente riportato a Roma il papato dopo quasi 80 anni di latitanza e scelto come sede San Pietro in Vaticano anziché il vecchio Laterano.
La sua scomparsa aveva gettato nella frenesia il popolo romano: il papa era tornato da appena un anno e non avevano alcuna intenzione di permettere al suo successore di tornare ad Avignone. Un timore molto fondato, peraltro, visto che la maggior parte del collegio cardinalizio era formato da francesi che si erano opposti strenuamente al trasferimento. Così, all’inizio del Conclave, il corteo dei prelati che sfilava a San Pietro era stato accolto dalle grida “lo volemo romano o almanco italiano!”.
Intimoriti dalle pressioni del popolo e terrorizzati da una possibile rivolta, i cardinali anziché eleggere il loro leader – Roberto da Ginevra, vescovo di Arles – avevano concentrato i voti sul napoletano Bartolomeo da Prignano, arcivescovo di Bari.
Bartolomeo sembrava un ottimo compromesso tra l’opzione francese e quella italiana perché proveniva dal Regno di Napoli: era italiano ma suddito degli angioini. Quindi, per certi versi, più francese che romano.
Per i francesi, d’altra parte, poteva apparire un ottimo segnale il fatto che Bartolomeo avesse scelto il nome Urbano VI. In qualche modo, aveva reso omaggio al predecessore di Gregorio, il francese Urbano V che aveva riportato in Italia il pontificato per tre anni. Salvo poi tornarsene ad Avignone.
L’idillio però era durato poco. Anche a causa del pessimo carattere del nuovo papa, insopportabile e privo di qualsiasi forma di diplomazia, tanto da guadagnarsi il soprannome di “Inurbano VI”.
Così, i cardinali bretoni presidiavano Castel Sant’Angelo e si rifiutavano di cedere il castello al papa, che si era arroccato a Tivoli con l’appoggio dei romani. I cardinali francesi invece, si erano ritirati ad Anagni dove, con l’appoggio dei Caetani (nemici del pontefice) e di alcune milizie straniere, avevano iniziato una vera e propria guerra contro Urbano.
Il 16 luglio 1378 i filo-papalini erano stati sconfitti dai bretoni nella battaglia di ponte Salario, in cui erano morti 500 uomini, e gli abitanti della capitale si erano vendicati con una sorta di “Vespri romani” e avevano massacrato ogni straniero presente nell’Urbe.
Il 6 agosto i tre cardinali italiani fedeli a Urbano si erano incontrati a Palestrina con i delegati dei 13 prelati francesi dissidenti, che avevano contestato la validità dell’elezione a causa delle pressioni subite dai cardinali riuniti in conclave.
Il 20 settembre 1378 nel Duomo di Fondi i cardinali francesi (che restavano la maggioranza) avevano dunque proceduto ad nuovo Conclave, scegliendo proprio Roberto di Ginevra, eletto con il nome di Clemente VII.
Era iniziato lo Scisma d’Occidente, che avrebbe lacerato la Chiesa cattolica per più di quarant’anni. Le obbedienze, che per decenni divisero la Chiesa in due e spartirono sovrani europei, diocesi, ordini religiosi, università e persino santi e predicatori, per il momento erano soprattutto di carattere politico e militare.
Urbano VI, oltre che dai romani, era appoggiato dalle milizie mercenarie italiane guidate da Alberico da Barbiano e Galeazzo Pepoli. I Caetani e gli Orsini, invece, sostenevano Clemente VII.
I miliziani francesi si erano accampati a Ciampino (dove ancora oggi esistono le “Mura dei Francesi” e il “Casale dei Francesi”). Poi però, con l’avanzata delle truppe di Alberico da Barbiano, si erano ritirati verso Marino, retta da Giordano Orsini.
Il 30 aprile 1379, dunque, le truppe si trovano faccia a faccia nella stretta vallata sotto le mura del castello: i bretoni accampati sotto Marino, gli italiani su Colle Cimino. Alberico divide la sua compagnia in due schiere: una al suo comando e l’altra affidata a Galeazzo Pepoli. L’esercito bretone, invece, si divide in tre schiere. Sono i bretoni i primi ad attaccare: si lanciano contro l’esercito di Alberico e riescono a penetrare le prime linee. La fanteria di seconda linea, però, respinge l’attacco grazie all’abilità dei balestrieri romani. Poi Alberico conduce in battaglia i suoi mercenari e ottiene una rapida vittoria sulla seconda schiera bretone. Sarà però lo scontro con la terza schiera il più lungo e decisivo per la vittoria. Che arriva in serata, quando le riserve della cavalleria pontificia riescono a prendere al fianco i bretoni. Alcuni dei soldati di Clemente VII cadono in battaglia, altri vengono presi prigionieri e portati a Roma dove, lo stesso giorno, si arrende anche Castel Sant’Angelo.
Urbano ha vinto. Ma questo non basterà a scongiurare lo Scisma che si è affacciato.
Gregorovius, nella sua Storia della Città di Roma nel Medioevo, commenta: “Per la prima volta le armi nazionali vinsero le compagnie di ladroni stranieri; l’Italia si destò alla fine dal suo letargo, sicché da quella giornata di Marino si può dire che cominci l’era di una nuova milizia italiana e di una nuova arte di guerra”.
Alberico da Barbiano rientra a Roma trionfalmente e ottiene da Urbano VI uno stendardo con scritto in caratteri d’oro “L’Italia dai barbari liberata”.
Marino cade in mano a Giacomo Orsini, figlio di Giordano e nemico del padre, il 2 giugno 1379, e Giordano fugge a Torre Astura dal nipote Onorato Caetani. Anche Rocca di Papa e Cisterna cadono in mano alle truppe di Urbano VI e Clemente VII si vede costretto a darsi alla fuga. Si fermerà a Napoli, ospite degli angioini.
La pace dell’antipapa, però, dura poco: il popolo napoletano insorge costringendolo a scappare a Gaeta e da lì in Francia. È il ritorno del pontefice ad Avignone ad aprire ufficialmente la lacerazione più lunga e difficile della storia della Chiesa, che sarebbe stata ricomposta solo quarant’anni dopo. A Costanza, nel 1417.
Arnaldo Casali