Cosma Indicopleuste, il cielo in una stanza

da

LATT

Il modello a tabernacolo dell’universo di Cosma. Sullo sfondo si sono due Soli, che servono per spiegare la diversa durata del giorno e della notte a seconda delle stagioni. In inverno, il Sole resta oscurato dalla montagna per un tempo più lungo perché passa più vicino alla sua larga base, mentre in estate gli angeli lo accompagnano dietro la stretta cima del monte

Piatta, rettangolare e contenuta in un baule con tanto di coperchio.

È la Terra di Cosma Indicopleuste, mercante e viaggiatore alessandrino del VI secolo che poi si fece monaco. E teorizzò quella che può essere annoverata come la cosmologia più bislacca della Storia.

Esposto tra il 535 e il 547 nella Topographia Christiana, il bizzarro punto di vista di Cosma descrive il mondo come una tavola, con il lato lungo orientato nella direzione est-ovest.

La Terra è circondata da un oceano, con golfi che corrispondono al Mare Mediterraneo, al Mar Rosso, al Golfo Persico e al Mar Caspio. Verso occidente culmina in una ripida montagna, dietro alla quale ogni notte si nascondono il Sole e le stelle, che compiono il loro viaggio giornaliero da oriente a occidente e viceversa grazie a una schiera di angeli conducenti.

Quattro pareti verticali, saldate ai lati del mondo, si innalzano e man mano si piegano fino a formare la volta del cielo, che Cosma paragona al soffitto di una stanza da bagno ma che per noi è più vicina al coperchio ricurvo di un vecchio baule da viaggio.

Il grande tetto del cielo è diviso in due parti. Dalla Terra fino al firmamento, una specie di controsoffitto, c’è il regno degli uomini e degli angeli: in basso comprende mari e continenti e, nella parte più alta, i beati e le creature celesti che controllano il movimento degli astri. Al di sopra del firmamento si trova il trono di Cristo, che occupa l’estremo vertice del cielo e sarà la sede dei beati dopo il giorno del giudizio.

All’interno del suo universo, Cosma trova posto anche per il Paradiso Terrestre, collocato sullo stesso livello del mondo emerso ma alle propaggini del piano che lo contiene. È separato dalle terre abitate da un immenso oceano e, da dopo il diluvio universale, non è più raggiungibile.

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Dell’opera di Cosma Indicopleuste esistono due manoscritti, ricchi di illustrazioni del più alto interesse. Sono entrambi del secolo XI: uno è conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze e l’altro nella Biblioteca Vaticana (Fonte: Enciclopedia Treccani)

La concezione della Topographia Christiana stupisce. Soprattutto se si considera che il suo autore viaggiò molto. L’attributo Indicopleuste significa “navigatore delle Indie” e il mercante attraversò il Mediterraneo, il Mar Rosso e il Golfo Persico, fino a raggiungere l’Abissinia e i paesi limitrofi. In una occasione, osò persino avventurarsi nel temuto Oceano, che “non può essere navigato a causa del grande numero di correnti che lo solcano e delle fitte nebbie che oscurano i raggi del Sole; e per la vastità della sua estensione”.

Con ogni probabilità, Cosma visitò anche luoghi a meno di dieci gradi dall’equatore. Ma, nonostante le evidenze, l’idea che il mondo potesse essere sferico non riuscì proprio a mandarla giù.

E non era una questione di ignoranza, perché dai suoi scritti risulta che fosse a conoscenza degli studi cosmologici nati nel V secolo a.C. e portati avanti da Pitagora, Aristotele, Eratostene (che nel III secolo a.C. calcolò con buona approssimazione la lunghezza del meridiano terrestre), fino a Claudio Tolomeo, che nel II secolo d.C. disegnò le terre conosciute e divise il mondo in trecentosessanta gradi di meridiano.

Il fatto è che non poteva accettarli. Anzi, considerava un dovere non solo disconoscerli, ma addirittura condannarli. Il titolo del primo libro del suo lavoro è esplicativo: “Contra eos qui cum Christiani esse velint, secundum exteros sphaericum esse-coelum putant et opinantur” (“Contro quelli che, pur volendo professare il cristianesimo, pensano e immaginano come i pagani che il cielo sia sferico”).

Facsimile pagina

Una pagina (facsimile) del manoscritto della Topographia Christiana (sec. XI) conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. La fonte di ispirazione per la teoria del Tabernacolo è l’Esodo (25: 8-9), dove Dio dice a Mosè: “Mi facciano un santuario, perché io abiti in mezzo a loro. Voi lo farete secondo tutto quello che io ti mostrerò, sia per il modello del tabernacolo che per il modello di tutti i suoi arredi”

Cosma spazzò via, una dopo l’altra, tutte le argomentazioni della scienza classica perché ritenne che la forma dell’universo potesse essere appresa solo dallo studio delle Sacre Scritture. Il testo biblico di riferimento è il passo in cui Dio spiega a Mosè come costruire il Tabernacolo e Cosma basò solo su questa autorità la comprensione del luogo che lo ospitava. Dove il sapere cosmologico antico non corrispondeva ai testi delle Sacre Scritture, lo mise decisamente da parte.

Certo Cosma non era l’unico a pensarla così, nel VI secolo. Ma non per questo è lecito supporre che la cosmologia dell’Antichità fosse stata dimenticata. In realtà non lo fu mai. Ma per un certo periodo e in alcune circostanze venne piegata alla volontà di una causa che si riteneva maggiore. Quella della fede.

Le carte geografiche, nate a suo tempo per risolvere necessità pratiche come il commercio e le campagne militari, in questi ambiti travalicarono il fine di rappresentare il mondo con fedeltà. Lo scopo diventò quello di evidenziare la sua essenza concettuale e teologica.

Così nacquero teorie che si sforzavano di far quadrare ad ogni costo la struttura del cosmo con i dettami delle Sacre Scritture e Cosma fu il primo a prendersi la briga di elaborare un sistema che sostituisse le dottrine dei filosofi pagani.

A livello metaforico, però, la “teoria del Tabernacolo” ebbe la sua anteprima già a cavallo tra il II e il III secolo con Clemente Alessandrino (ca. 200), che individuò nella dimora di Dio e nel suo arredo una rappresentazione dell’universo, anche se in forma puramente allegorica e senza la necessità di rifiutare le conoscenze più antiche.

L’esordio vero e proprio si deve invece a Severiano, vescovo di Gabala, che nel secolo IV con le sei In mundi creationem orationes spiegò il sistema cosmico delineato nel primo capitolo della Genesi. Da quest’epoca in poi, un certo numero degli autori patristici accettò l’idea che l’universo avesse la forma del Tabernacolo. Da Diodoro, vescovo di Tarso morto nel 394, fino a Teodoro di Cilicia, morto nel 428 e di cui sappiamo grazie alle citazioni di uno scrittore più tardo, Filopono, che descrive con ironia le sue lezioni sulla teoria del Tabernacolo e sul moto delle stelle, innescato dagli angeli.

Tra gli esponenti della Chiesa c’erano comunque anche opinionisti più assennati. San Basilio (330-379) sosteneva: “che importa di sapere se la Terra è una sfera, un cilindro, un disco, o una superficie curva: ciò che m’importa è di sapere come debbo comportarmi verso me stesso, verso gli uomini, verso Dio”. Anche Sant’Ambrogio di Milano (morto nel 397) riteneva che per l’uomo non c’è alcuna utilità nel conoscere la natura o la posizione della Terra, ma tra le righe accennò più volte ai cieli come a delle sfere.

Gli_antipodi_Maestro delle Metope di Modena

Gli Antipodi del Maestro delle Metope di Modena (XII secolo)

Sant’Agostino (354-430) poi, memore degli studi compiuti su Platone e San Paolo, espresse una moderazione ancora maggiore. Nella sua visione la Terra potrebbe anche essere una sfera, ma in tal caso non è detto che emerga completamente dalle acque o che tutte le sue parti siano abitate. Agostino quindi, non tenne un atteggiamento di disprezzo verso la scienza greca. Sembra anzi che desiderasse accettarla, a meno che la Scrittura non lo costringesse altrimenti.

Su una cosa sola, e per molto tempo, rimasero tutti d’accordo: la questione degli Antipodi. Fu con questo termine che i greci chiamarono i popoli di una ipotetica terra diametralmente opposta a quella conosciuta, e presto si pose il problema dell’abitabilità di queste regioni, che presero il nome dei loro teorici abitanti. Già Aristotele escluse una tale possibilità. E fu l’unico punto sul quale tutti i teologi medievali gli diedero ragione. Erano unanimemente convinti che i malcapitati aborigeni, se fossero esistiti, avrebbero dovuto passare tutta la vita a testa in giù.

Daniela Querci