Una comoda panca attrezzata con cuscini e magari schienale regolabile, un leggio a muro dotato di lanterna, e il caminetto acceso dietro le spalle. E se è passata una certa età anche un paio di occhiali possono far comodo.
Così si legge in casa, nel Medioevo. Così leggono – soprattutto – le donne, che certo non frequentano le biblioteche ma che nel privato non passano il tempo solo a filare, ricamare, tessere, fare la maglia e cucire, come gran parte dei padri e dei mariti vorrebbe.
In realtà nelle case ci sono più lettrici donne che uomini, come testimonia Giovanni Boccaccio, che nel Decameron inserisce sette novellatrici donne e solo tre uomini e dichiara apertamente di aver pensato al gentil sesso come destinatario ideale del suo libro. “Ristrette da’ voleri, da’ piaceri, da’ comandamenti de’ padri, delle madri, de’ fratelli e de’ mariti – scrive Boccaccio – il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano, e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora, seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che siano sempre allegri”.
Se agli uomini per passare il tempo non mancano occasioni di viaggiare, cacciare, pescare e cavalcare, alle donne resta solo il piacere della lettura. Una lettura che richiede una certa dotazione tecnica: non esistono ancora i tascabili, né le edizioni economiche: ogni libro è un’opera complessa da produrre, costosa da acquistare e faticosa da utilizzare. Almeno lo sarebbe per noi, abituati a sfogliare i nostri volumetti di pochi grammi di carta in treno, in spiaggia, a letto. Abituati ancora per poco – va precisato – visto che con l’arrivo degli e-book e il dilagare dell’uso degli smartphone anche per leggere i libri, si prepara a scomparire lo stesso oggetto-libro e l’atto dello sfogliare.
Mille anni fa le cose stavano ben diversamente: i libri, che avevano sostituito già da diversi secoli gli antichi rotoli in papiro, erano realizzati con fogli di pergamena (pelle di pecora rasata e seccata, che spesso veniva riciclata raschiando l’inchiostro) scritti a mano, decorati con raffinate miniature, cuciti con la corda e chiusi dentro una copertina in cuoio o legno lavorati. L’utilizzo di prodotti simili richiedeva dunque una strumentazione adeguata ma anche la predisposizione di un vero e proprio “rituale” che chiudesse il mondo fuori dalla porta della propria stanza per potersi concentrare nella lettura.
Se le monache, in convento, hanno sedili di pietra costruiti sotto le finestre che usano comunque soprattutto per lavorare (mentre quando scende l’oscurità resta solo il tempo della preghiera) le nobildonne amano leggere dando le spalle al camino acceso: così le raffigurano, infatti, numerosi dipinti e miniature. Se il libro viene tenuto direttamente tra le mani, allora si utilizza un panno per proteggere la preziosa copertina e non rischiare di rovinarla.
Le panche sono dotate di poggiapiedi, cuscini e a volte schienali mobili, in modo che se ne possa graduare l’inclinazione. Più spesso si utilizza comunque un leggio: le scrivanie, infatti, vengono usate solo per scrivere e lavorare, e mai per leggere. Sono diversi i tipi di leggio disponibili: alcuni a muro, attaccati alla parete con un sostegno metallico, mentre altri – più grandi ed elaborati – sono dei veri e propri mobili che fungono anche da libreria e sono girevoli, con una piattaforma circolare sovrastata da una piramide dove possono essere appoggiati contemporaneamente diversi volumi. Per leggere alla sera serve anche una lanterna, che può essere fissata con un gioco di aste e sostegni allo stesso leggio.
E visto che dopo una certa età nemmeno la luce basta più per leggere, verso la fine dei Duecento vengono inventati gli occhiali. “Non è ancora venti anni – spiega Giordano da Pisa in una predica del 1305 a Firenze – che si trovò l’arte di fare gli occhiali, che fanno vedere bene, ch’è una delle migliori arti e de le più necessarie che ‘l mondo abbia, e è così poco che si trovò: arte novella che mai non fu”.
Cinquant’anni dopo, Tommaso da Modena in un dipinto nella chiesa di San Nicolò a Treviso raffigura il cardinale Ugo di Provenza mentre scrive sul banco inforcando un paio di occhiali ripiegabili.
Uno strumento che Umberto Eco farà utilizzare anche a Guglielmo da Baskerville, il frate detective protagonista del Nome della rosa, dove viene sottolineata un’altra abitudine che si è tramandata fino ai nostri giorni: quello di inumidire con un dito bagnato con la saliva le pagine del libro per sfogliarle meglio. Abitudine che nel romanzo di Eco diventa letale, visto che le pagine del volume incriminato sono infettate con un micidiale veleno che uccide chiunque si cimenti nell’ardita lettura.
Arnaldo Casali