Lo chiamavano “Lack Land”, Senzaterra, perché era l’unico, tra gli otto figli del re, ad essere rimasto senza titoli né possedimenti. Giovanni, ultimogenito di Enrico II e Eleonora d’Aquitania, nato a Oxford il 24 dicembre del 1167, fu re d’Inghilterra dal 1199 al 1216.
È passato alla storia come il sovrano che otto secoli fa, il 15 giugno 1215, concesse ai baroni inglesi la Magna Charta, durante una solenne cerimonia che si tenne all’aperto, su un prato, a Runnymede, una piccola località a pochi chilometri da Londra.
Giovanni visse l’atto come una imposizione “disonorevole”. Fece di necessità virtù e sposò la “realpolitik” in un momento di grave debolezza della corona.
Il sovrano plantageneto era appena stato sconfitto dal re di Francia Filippo Augusto nella battaglia di Bouvines (1214) dopo la quale aveva perso tutti i suoi possedimenti fuori dall’Inghilterra. E era uscito sconfitto anche dal braccio di ferro che già a partire dal 1207 aveva ingaggiato con il papa riguardo all’elezione dell’arcivescovo di Canterbury.
I nobili, obbligati a finanziare con pesanti tasse la guerra contro la Francia, si ribellarono e rifiutarono di confermare la loro fedeltà al sovrano. Chiesero di ridiscutere i diritti feudali che regolavano i rapporti con la corona. Giovanni fu costretto a trattare per ricomporre la grave crisi che rischiava di travolgerlo.
Nella Magna Charta Libertatum furono sanciti una serie di limiti precisi al potere del sovrano che impedivano alla monarchia inglese di degenerare nell’assolutismo.
Di fatto, si stabiliva che anche il re doveva rispondere alla legge. I sudditi erano sottoposti alla sua autorità ma non più al suo arbitrio.
Il documento, considerato il primo atto sottoscritto a garanzia delle libertà individuali, ancora oggi è considerato un elemento fondante del moderno stato di diritto.
La storiografia liberale ne ha fatto l’atto di nascita della democrazia inglese: una svolta storica, che negli anni e nei secoli successivi, aprì la strada alla monarchia costituzionale e alla affermazione della sovranità del parlamento in tutte le nazioni che in seguito adottarono il modello britannico.
Fu chiamata, in senso letterale, “grande carta” per via della lunghezza del testo. L’accordo su cui Giovanni appose il suo sigillo si rivolgeva “ai fedeli sudditi del re”.
Naturalmente, nell’Inghilterra del 1215, gli “uomini liberi” non erano tutti i cittadini. La “grande carta delle libertà” riguardava quindi solo i nobili (conti e baroni), l’alto clero (arcivescovi, vescovi e abati) e i funzionari dello Stato (ministri, giudici, guardiani delle foreste e sceriffi).
I servi, che rappresentavano la maggior parte degli abitanti del regno, erano esclusi dalla lista regale: tutti coloro che lavoravano la terra “appartenevano” infatti ai grandi signori proprietari dei latifondi e non godevano di nessuna libertà.
Il documento, in 63 clausole di contenuto specifico, accolse molte richieste dei vassalli. In particolare, stabilì che per decidere l’istituzione di ogni nuova tassa si sarebbe dovuto convocare ogni volta il “Consiglio comune del regno”, un “parlamentum” formato dagli arcivescovi, gli abati, i conti e i maggiori baroni.
Venne stabilito il diritto di successione ereditaria dei feudi, il diritto dei baroni a ribellarsi al re di fronte a una “evidente ingiustizia” e l’abolizione di ogni forma di monopolio.
Il re non avrebbe più potuto imprigionare gli aristocratici senza prima un processo. In particolare, l’Habeas Corpus prevedeva che “nessun uomo libero sarebbe stato imprigionato o privato dei propri beni se non a seguito del giudizio da parte dei suoi pari o secondo le leggi del Regno”. Fu anche stabilita la regola della proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato.
Una apposita clausola chiarì che la Chiesa era libera dall’interferenza del governo.
Furono emanate anche una serie di disposizioni che condannavano la corruzione e il malgoverno da parte di pubblici ufficiali.
Una speciale legge, detta “della foresta”, abolì i demani regi creati sotto il regno di Giovanni insieme alle multe comminate ai trasgressori.
A tutti i mercanti, esclusi quelli provenienti da paesi in guerra con il re, fu concesso il diritto gratuito di ingresso e di uscita dal paese.
Altri articoli regolarono molti aspetti della vita quotidiana dalla adozione di identiche misure per la birra, il vino e il grano, fino alla confezione standardizzata delle stoffe, ai prestiti contratti con gli ebrei e al diritto di non risposarsi da parte delle vedove che possedevano delle proprietà.
Subito dopo l’accordo, numerose copie della Magna Charta furono inviate agli sceriffi delle varie contee e ai vescovi per chiarire quali fossero le nuove regole della monarchia.
Lo storico documento ebbe però una vita molto breve.
Giovanni Senzaterra lo considerò un atto estorto con la forza. E si appellò a papa Innocenzo III. Il pontefice, che pure in un primo momento aveva dato il suo assenso al documento, dopo appena dieci settimane, il 24 agosto 1215, emanò una bolla nella quale dichiarò la Magna Charta illegittima.
Il papa minacciò di scomunica i firmatari dell’accordo e parlò di “illegalità, ingiustizia, danno per i diritti reali e vergogna per il popolo inglese”.
Innocenzo ricordò di essere lui stesso, in qualità di papa, il signore feudale dell’Inghilterra e dell’Irlanda, le cui terre erano state cedute prima a San Pietro e poi concesse di nuovo come feudo al regno inglese al costo di mille marchi l’anno.
La risposta dei baroni fu altrettanto dura. La crisi politica del regno riesplose con virulenza e degenerò presto in una vera e propria guerra civile: i nobili invocarono l’intervento del figlio del sovrano Filippo II di Francia, Luigi, che invase l’Inghilterra e fu proclamato re dai nobili nel maggio 1216.
Quello stesso anno, il 18 ottobre 1216, Giovanni morì di dissenteria nel castello di Newark nel Nottinghamshire e sul trono conteso d’Inghilterra, sotto la tutela di Guglielmo il Maresciallo, salì suo figlio Enrico, che aveva appena 9 anni.
La corona cercò un nuovo accordo con i baroni. La Magna Charta fu riconfermata con alcune modifiche nel 1225 dal nuovo re d’Inghilterra Enrico III, in cambio dell’assicurazione sulla sicurezza della tassazione da parte di tutte le località del Regno.
Con il nuovo sovrano il “parlamento” diventò una assemblea di tipo giudiziario, sottoposta al controllo dei funzionari regi.
Edoardo I, nel 1297, confermò la Magna Charta che da allora diventò una delle leggi fondanti del regno.
Dal “Consiglio comune del regno” derivò il Parlamento inglese, che nel Trecento si divise in due Camere, la Camera Alta o Camera dei Lord, nella quale sedevano i nobili e il clero e la Camera Bassa o Camera dei Comuni, riservata ai rappresentanti degli altri ordini sociali.
Nella attuale legislazione inglese sono ancora in vigore 3 articoli della Magna Charta:
l’articolo 1 che garantisce la libertà ed i diritti della Chiesa Anglicana;
l’articolo 13 che riconosce i diritti già esistenti alla città di Londra (l’odierna City) e alle altre città;
l’articolo 39, che impedisce misure punitive quali l’arresto, la detenzione e l’esilio, per gli uomini liberi se non dopo un regolare processo da tenersi davanti ad una giuria composta dai “pari” dell’imputato.
Solo 4 copie del documento conformi all’originale sono giunte fino a noi. Due sono conservate nella cattedrale di Salisbury e nella British Library.
A Runnymede, dove Giovanni Senzaterra nel 1215 si piegò alla volontà dei baroni, due monumenti, entrambi associati agli Stati Uniti, ricordano lo storico avvenimento.
Il primo fu edificato 1957 dalla American Bar Association, la più importante associazione di avvocati e studenti di legge degli Usa.
Il secondo fu eretto nel 1965 dal governo inglese in memoria del presidente John Fitzgerald Kennedy su un’area che il governo britannico donò agli Stati Uniti, come omaggio al paese americano che vede nella Magna Charta l’atto fondante della sua Dichiarazione d’Indipendenza, della Costituzione e del “Bill of Rights”.
Federico Fioravanti
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