“Gridarono tutti insieme: Facciamo una città così bella che nessun’altra nel regno le si possa paragonare” scrive Buccio di Ranallo, nelle Cronache dalla fondazione dell’Aquila.
“Noi felicemente regnanti e vittoriosamente trionfatori nel nostro ereditario Regno di Sicilia, abbiamo da poco preso questa provvida deliberazione: che nel luogo detto Aquila, tra Forcona e Aminterno, si costruisca una città unitaria, che stabiliamo doversi chiamare col nome di Aquila, dal nome dello stesso luogo e dagli auspici delle nostre insegne vincitrici. Stabiliamo che si deve delimitare la città entro i seguenti confini, cioè da Orno Putrido fino a tutto Aminterno, destinando demanialmente al territorio e al distretto della stessa città all’università tutte le colline adiacenti che si chiamano Aquila, e tutte le terre circostanti. E siamo anche, secondo la pienenezza del nostro potere e con speciale favore consapevolmente, i militi e singoli che popolano e uomini che si trovano entro i sopraddetti confini, di qualunque condizione o professione, i loro eredi e i loro successori con tutti i loro beni e figli, in perpetuo, da ogni dominio o giurisdizione o soggezione di conti e qualsivogliano persone, liberandoli completamente da tutti i pesi personali e reali”.
Con questo privilegio, datato 1254 e firmato dal re Corrado IV di Svevia, figlio di Federico II, viene fondata la città dell’Aquila.
Il territorio dove sorge la città, in realtà, era già abitato sin dai tempi antichi. In origine da sabini e vestini, poi nel III secolo avanti Cristo era stato conquistato dai romani che avevano fondato la città di Amiternum a pochi chilometri dalla città moderna. Passato nel medioevo sotto il ducato di Spoleto e poi sotto il dominio normanno, il territorio aveva visto già nel 1229 gli abitanti dei castelli abruzzesi ribellarsi al giogo vassallatico dei baronati normanno-svevi e cercare di costituire una città con il permesso di papa Gregorio IX, senza riuscire però riuscire a concretizzare il proposito. Ci avevano riprovato poi sotto Federico II, ma anche questa volta non avevano concluso nulla.
“Affinché anche abbia un bell’aspetto e si ingrandisca continuamente – si legge ancora nel privilegio del 1254 – concediamo che la stessa città possa munirsi secondo la propria conformazione di un giro di mura a scopo difensivo e all’interno, fin da ora, possa essere arricchita di case che tuttavia non superino l’altezza di cinque canne. In essa ci sia mercato generale due volte all’anno, per venti giorni, che si svolga in qualsiasi modo, e tre volte a settimana possano liberamente mettere su un mercato particolare, ai cui scambi commerciali tutti insieme o singolarmente da qualsiasi parte con i loro commerci ed averi, in tutta sicurezza, sotto la protezione del nostro nome e maestà, vengano e si trattengano e se ne ritornino. Noi infine dichiariamo, col presente privilegio, che nella predetta città vogliamo avere un castello, da costruirsi a spese della città”.
L’obiettivo di Corrado – che inserisce nel privilegio delle clausole che salvaguardano certi diritti dei feudatari espropriati – è garantire il controllo di un’area di confine del suo regno. La tradizione vuole che siano 99 i castelli che contribuiscono alla fondazione della città, anche se è più probabile che il numero effettivo si aggirasse intorno alla sessantina. A ricordo della costituzione, la campana della Torre Civica batte ancora oggi, al tramonto, 99 rintocchi mentre il primo grande monumento della città è la fontana delle 99 cannelle.
“Rapida dovette essere la crescita della città – scrive Paolo Golinelli in Il papa contadino – una crescita sostenuta dal desiderio degli abitanti di sottrarsi al dominio dei castellani e dal favore della Chiesa”.
Il 20 febbraio 1257, infatti, papa Alessandro IV su richiesta dei cittadini aquilani, eleva a dignità vescovile la chiesa dei santi Massimo e Giorgio, costituita all’interno delle mura. La città dell’Aquila diventa così anche Diocesi. Questo porta a una concentrazione in essa di simpatie guelfe, tali da essere avvertite come un pericolo da Manfredi, che arriva a decidere, nel 1259, di smantellare le mura e disperderne gli abitanti.
La sconfitta della dinastia sveva e l’arrivo di Carlo d’Angiò nel Regno di Napoli segnano la rinascita della città, grazie alla nuova concessione degli angioini per la ricostruzione degli edifici e il ripopolamento.
Gli abitanti di L’Aquila dovevano venire dai castelli vicini, ma sono soprattutto i contadini e i pastori a inurbarsi, finendo per costituire un Comune di Popolo contro il quale – ancora cent’anni dopo, attorno al 1355 – Buccio di Ranallo inveisce, sia perché gli aquilani non avrebbero rispettato i patti che prevedevano il risarcimento dei feudatari ai quali erano stati sottratti i territori, sia per il disprezzo riservato ai “villani”.
Nel 1288 l’eremita Pietro del Morrone, decide di edificare all’Aquila la basilica di Santa Maria di Collemaggio, capolavoro dell’arte romanica e monumento simbolo della città. Proprio nella basilica da lui fortemente voluta, il monaco sarà incoronato papa con il nome di Celestino V il 29 agosto 1294.
Il primo consiglio cittadino è composto dai sindaci dei vari villaggi e L’Aquila non ha una vera e propria autonomia giuridica riconosciuta fino al regno di Carlo II di Napoli, che nomina un Camerlengo come responsabile dei tributi. Da quel momento, le tasse vengono pagate da tutta la città in quanto tale, mentre, in precedenza, erano pagate solo dai singoli villaggi.
L’Aquila diventa così teatro di una serie di violente lotte tra alcune delle famiglie che si contendono l potere: tra questi i Pretatti e i Camponeschi, che hanno la meglio dopo una decina di anni di guerra.
Successivamente, il Camerlengo acquisisce anche un potere politico, diventando presidente del consiglio cittadino. La città, autonoma, anche se compresa nel regno di Sicilia, e poi regno di Napoli (salvo un breve periodo in cui entra nel confinante Stato Pontificio), viene governata da una diarchia composta dal consiglio e dal capitano regio, cui si aggiunge, nel XIV, secolo il conte Pietro Camponeschi che, da privato cittadino, diventa il terzo membro di una nuova triarchia.
Poi al potere arriva un capopopolo di origine nobile che imposta una politica autonomista e per questo diventa molto amato dai popolani ma inviso agli angioini: è Niccolò dell’Isola del Gran Sasso, nato nel 1230 e arrivato in città intorno al 1270: “Uomo di ingegno e di cuore, chiudeva in sé la forte tempora d’un Rienzi e d’un Masaniello, senza la riflessa ambizione del primo e volgarità del secondo” scrive Casti in “L’Aquila degli Abruzzi”.
Niccolò fa togliere tasse e balzelli, favorendo così l’aumento della popolazione e l’economia aquilana (soprattutto la coltura e il commercio dello zafferano), si adopera per la costruzione degli edifici pubblici come il palazzo del re, quello degli ufficiali regi e il tribunale, restaura ed edifica chiese e completa la cerchia delle mura. Poi, forte dell’appoggio popolare, muove guerra ai castelli vicini, che limitano la libertà di espansione della città e ne condizionano il futuro, e in pochi giorni batte le fortezze di Roio, Ocre, Poranica, Pizzoli, Preturo, Barete. Sono gli anni dell’Isolano quelli in cui la città assume la sua fisionomia e anche la sua identità: gli anni delle grandi costruzioni e della libertà.
Questa politica popolare non manca di suscitare reazioni da parte dei feudatari locali, che invocano l’intervento del Re, senza, peraltro, ottenerlo. Carlo lo zoppo è infatti impegnato in Sicilia con la guerra del Vespro e non può permettersi di intervenire nelle diatribe locali. Niccolò dell’Isola resta quindi saldo nel suo potere per ancora quattro anni e il capitano regio viene di fatto costretto ad agire in accordo con Niccolò senza dunque essere più libero di esercitare le sue funzioni, ossia la giustizia criminale e il mantenimento dell’ordine pubblico. Carlo II, d’altra parte, legittima l’azione del capopopolo: il 13 gennaio 1293 da Nizza, assegna all’Isolano ben dieci once annue di provvisione per i servizi resi alla corte. Tre giorni dopo, in una missiva destinata al capitano e a lui, li prega di garantire a un chierico il possesso di una chiesa e dei relativi diritti che gli aveva assegnato.
Niccolò è ormai un vero e proprio eroe vivente per gli aquilani. In un epigrafe del 1284 viene definito “pater patriae et Aquilane civitatis defensor”
In questo clima l’Isolano, forte del favore popolare, “cominciò a eccedere alquanto il modo et la mesura della modestia” . Usurpa il beneficio di una chiesa aquilana, poi tolto ai suoi eredi dal re il 12 giugno 1294. L’ostilità della nobiltà aquilana si fa sempre più aspra, Niccolò convoca allora un parlamento cittadino, nel quale presenta l’esistenza dei castelli del circondario come lesiva della libertà del popolo aquilano e conduce alla distruzione di alcuni di quei castelli. I suoi avversari reagiscono denunciandone lo strapotere direttamente al re. Secondo loro gli aquilani amano più Niccolò che il sovrano, il quale “no potea aver denaro” senza il suo beneplacito.
Nel 1292 i conflitti tra i due schieramenti determinano la consegna a Gentile di Sangro, capitano dell’Aquila, di ostaggi, poi liberati nel gennaio 1293. Forse per lo stesso motivo Nicoluccio, figlio naturale di Niccolò, viene destinato in custodia alla corte napoletana, il 20 febbraio 1293, su ordine di Carlo Martello.
In “Carlo D’Angiò e Celestino V all’Aquila”, Clementi sostiene che il punto di rottura definitivo tra l’Isolano e gli Angiò sia la distruzione da parte degli aquilani della fortezza della Leonessa, fatta costruire con ingenti somme di denaro della corona per controllare le vallate che mettevano in comunicazione il Regno di Napoli con lo Stato della Chiesa.
In estate Carlo II, considerando anche la distruzione non autorizzata delle rocche, ritiene che la situazione non sia più gestibile e ordina l’uccisione di Niccolò, inviando una spedizione capeggiata da Carlo Martello, che giunge all’Aquila il 10 luglio 1293. Niccolò però gli va incontro con un folto drappello di cavalieri rendendogli omaggio e in un successivo incontro riesce a convincerlo dell’infondatezza delle accuse di tradimento che gli vengono rivolte. Carlo II non desiste e invia una nuova spedizione sotto la guida di Gentile di Sangro.
“Per lo mal che fece Aquila che guastò le castella senza commannamento lo re mando lo figlio, cioè Carlo Martello, che occidere facesse Misser Niccolò dell’Isola per quale via potesse” scrive Buccio da Ranallo.
Il forte sostegno popolare ne rende impossibile l’eliminazione fisica in modo aperto: viene quindi deciso di ucciderlo in segreto, con l’aiuto di un po’ di veleno. Il proposito viene attuato e Niccolò muore in un giorno imprecisato antecedente il 12 agosto 1293.
La città di solleva contro il Re: la morte dell’eroe cittadino traccia un solco profondo tra gli aquilani e la corona e Carlo d’Angiò si rende conto che sta rischia di perdere completamente il controllo della giovane città. Bisogna assolutamente trovare il modo di ricucire lo strappo e l’occasione più propizia diventa l’elezione a papa del santo eremita Pietro del Morrone, favorita – non a caso – dallo stesso Carlo, che riesce anche ad ottenere che la trionfale incoronazione avvenga proprio all’Aquila, siglando così la riconciliazione tra Chiesa, popolo e Regno di Napoli.
Arnaldo Casali