La nascita del conclave

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I cardinali vestiti con i paramenti rossi, in piedi davanti l'altare principale della Basilica di San Pietro per partecipare alla messa solenne ''pro eligendo pontifice'', che apre i riti del conclave per l'elezione del successore di Giovanni Paolo II il 18 aprile 2005.   ANSA

I cardinali vestiti con i paramenti rossi, in piedi davanti l’altare principale della Basilica di San Pietro per partecipare alla messa solenne ”pro eligendo pontifice”, che aprì i riti del conclave per l’elezione del successore di Giovanni Paolo II il 18 aprile 2005 (Foto: ANSA)

“Chi fa trenta può far trentuno” disse Leone X cinquecento anni fa, rompendo il limite imposto dalla tradizione al numero di cardinali che potevano accedere al conclave. E se può fare trentuno, allora può fare anche trentadue, trentatré e trentaquattro.

E così in cinque secoli si arriverà fino ai 120 cardinali elettori di oggi; che potranno ancora aumentare, perché non c’è tradizione più dinamica del sistema con cui si elegge il papa.

La segregazione dei cardinali nella Cappella Sistina, le notti, i pranzi e i capannelli a Santa Marta, la fumata bianca o nera, l’annuncio sul loggione di San Pietro, la benedizione e il primo discorso alla folla: il conclave appare oggi come una tradizione antichissima e radicata nei secoli, quasi fosse un rituale solido e immutabile.

Ma in realtà la maggior parte delle tradizioni consolidate nella memoria collettiva sono abbastanza recenti: se la Cappella Sistina ospita stabilmente l’elezione del papa solo dal 1878, l’Habemus Papam risale al 1922 (è stato Pio XI il primo ad affacciarsi su piazza San Pietro) mentre è addirittura del 1978 il primo discorso del papa ai fedeli (Giovanni Paolo II ruppe la tradizione che voleva la benedizione muta); dal 2005 la dimora dei cardinali riuniti è Casa Santa Marta mentre le ultime norme sono state fissate da Benedetto XVI e seguite quindi per la prima volta nel 2013.
Quanto al termine “Conclave”, è stato usato per la prima volta nel 1270, quando gli abitanti di Viterbo – stanchi di anni di indecisioni dei cardinali – li chiusero a chiave nella sala grande del palazzo papale e ne scoperchiarono parte del tetto per costringerli a decidere in fretta.

D’altra parte se relativamente giovane è il conclave, di poco più vecchia è la concezione del papa così come è inteso oggi, ovvero vicario di Cristo e capo assoluto della Chiesa cattolica.

Andrea Vanni, San Pietro, 1390

Andrea Vanni, San Pietro, 1390

San Pietro, per intenderci, a dispetto della tradizione, non è mai stato papa e nemmeno vescovo di Roma.

Se nel Vangelo appare effettivamente come il discepolo più vicino a Gesù e – almeno in un primo momento – leader del gruppo, gli Atti degli Apostoli testimoniano come la guida della chiesa di Gerusalemme sia passata molto presto a Giacomo, fratello di Gesù.

Più conservatore di Pietro e in aperta contrapposizione con Paolo (che vuole chiudere i rapporti con il giudaismo fondando una nuova religione), Giacomo non figura tra gli apostoli ma fonda la sua autorità sul legame di sangue con Cristo. Se il fratello aveva detto di non voler “abolire la legge, ma portarla a compimento”, Giacomo, coerentemente con la visione di Gesù, vuole identificare il Cristianesimo con l’Ebraismo, chiedendo quindi ai nuovi cristiani la conversione alla religione di David e l’osservanza di tutti i precetti. E proprio per questo si guadagna l’appoggio della comunità di Gerusalemme mentre Pietro – che cerca di mediare – finisce ai margini e viene spedito a Roma, probabilmente con il compito di mettere pace tra le fazioni cristiane della capitale.

Più che un papa o un vescovo, quindi, Pietro è un missionario: “La separazione delle due funzioni – spiega Oscar Cullman in Petrus – amministrazione della Chiesa e attività missionaria, che Giacomo e Pietro si dividono, non è stata legata forse a una decisione o a un atto giuridico particolare. Dev’essersi piuttosto verificata a poco a poco in una evoluzione naturale”.
“Il trasferimento del potere direzionale, che fa di Pietro un “papa” temporaneo, o dimissionario – aggiunge Giancarlo Zizola in Il Conclave – poteva essere stato determinato o dal fatto che egli si era trovato in minoranza sulla questione della libertà cristiana di fronte alla legge sulla circoncisione, oppure dall’incarcerazione che aveva dovuto subire da parte di Erode.
Resta indiscusso il distacco del primo degli apostoli, come tale istituito da Gesù, dall’esercizio giurisdizionale di questo primato, da quando egli si recò in altro luogo per svolgere attività di evangelizzazione”.

Pietro non è quindi né il capo della Chiesa, né il vescovo di Roma, ma un “conciliatore” che finisce ucciso – secondo Zizola – proprio “in seguito a divergenze nella comunità giudaico-cristiana locale fra le correnti in lotta”.

“L’affermazione che Pietro sia stato vescovo di Roma – scrive Roland Minnerath – è propria di una tardiva tradizione della seconda metà del II secolo, allorché Roma non ha ancora alcuna funzione direttiva per la Chiesa universale”.

San Lino, primo vescovo ritratto in una terracotta invetriata di Benedetto Buglioni datata 1521

San Lino, primo vescovo ritratto in una terracotta invetriata di Benedetto Buglioni datata 1521

Il primo vescovo di Roma è invece san Lino, contemporaneo di Pietro e designato dagli stessi apostoli. Ed è lo stesso Lino a scegliere come suo successore Anacleto, anch’egli collaboratore di Pietro, così come anche Clemente che gli succede, e che abdica nel 97, dopo essere stato mandato in esilio dall’imperatore. Prima di partire, però, Clemente fa in tempo ad affidare la chiesa romana a Evaristo.

Alessandro I, nel 105, è invece il primo vescovo ad essere eletto democraticamente dalla comunità cristiana di Roma. E’ il suo successore Sisto I ad allargare la sua autorità anche oltre i confini romani, facendo del papa una sorta di “garante” per tutti gli altri vescovi del mondo. Garante e pacificatore, non capo universale della Chiesa, e a dimostrarlo c’è il fatto che nel 325 il Concilio di Nicea viene convocato e presieduto non da papa Silvestro, ma dall’imperatore Costantino.

Dal momento in cui l’imperatore si converte al Cristianesimo e l’impero romano viene cristianizzato, è infatti l’imperatore a diventare il capo della Chiesa, esattamente come prima era stato “Pontefice Massimo” dei culti pagani. Pagano o cristiano, insomma, l’impero romano continua a tenere saldamente uniti il potere politico e quello religioso.
Il primo vero e proprio papa resta comunque Leone Magno: è sotto il suo episcopato che il Concilio di Calcedonia formalizza, nel 451, il primato del vescovo di Roma, facendone la guida di tutta la Chiesa, proprio – e non a caso – mentre l’Impero Romano di Occidente si sta disgregando.

Nel momento in cui non esiste più un riferimento politico, la Chiesa ha bisogno di riorganizzarsi diversamente e trovare un’altra guida che non può essere che l’unica autorità rimasta a Roma dopo la caduta dell’impero. E non a caso, quell’autorità assumerà ben presto anche un potere politico in una significativa inversione dei ruoli rispetto ai primi secoli cristiani.

Papa Zaccaria I e papa Giovanni VI in un affresco del XVI secolo

Papa Zaccaria I e papa Giovanni VI in un affresco del XVI secolo

Zaccaria, ricevendo dal longobardo re Liutprando la donazione di Sutri e Bomarzo, è infatti il primo papa a diventare anche re.

L’elezione del vescovo di Roma resta formalmente appannaggio del clero e del popolo romano. Ma essendo il papa diventato ormai anche il monarca di un regno sempre più grande e potente, la sua nomina finisce ostaggio delle grandi famiglie patrizie romane, tanto da condividerne le sorti. Naturale quindi che si arrivi ad avere papi “fantoccio” manovrati da madri ambiziose come la “papessa” Marozia (che per vent’anni gestisce le sorti di Roma e della Curia romana) o pontefici giovani, guerrieri e donnaioli che non hanno più niente di spirituale come Giovanni XII e Benedetto IX, entrambi Conti di Tuscolo, entrambi eletti giovanissimi (il primo a 18 anni, il secondo addirittura a 12) ed entrambi dediti più a donne, caccia e gioco che ad affari ecclesiastici.

La situazione raggiunge tali vertici di scandalo e aberrazione che persino la riforma passa per la simonia: per riportare un minimo di decoro sulla Cattedra di Pietro, nel 1045 papa Gregorio VI è costretto infatti a comprare il titolo dal suo predecessore e per strappare la nomina del papa alle famiglie patrizie di Roma i riformatori devono affidarsi ad un altro potere laico: quello del Sacro Romano Impero di Germania.

Clemente II nel 1046 stabilisce infatti che l’elezione del Papa debba partire da una designazione imperiale; di fatto è l’imperatore a nominare i papi successivi che però, a loro volta, cercheranno di svincolarsi rivendicando con sempre maggiore forza la libertà e l’autonomia della Chiesa.

Leone IX, ad esempio, pur essendo scelto dall’imperatore Enrico III nel 1048, vincola l’accettazione della carica all’approvazione di clero e popolo romano e la stessa linea viene mantenuta da Vittore II, che affida al monaco Ildebrando di Soana la riforma del conclave, completata e promulgata da Niccolò II nel 1059.

Una scheda usata in un conclave per l'elezione del papa

Una scheda usata in un conclave per l’elezione del papa

Per liberarsi tanto dal giogo imposto dalle famiglie della capitale quanto da quello dell’imperatore, l’elezione del Papa viene riservata al solo clero romano: per la precisione ai “cardini” della Diocesi di Roma, ovvero i vescovi delle diocesi suburbicarie – a cui si aggiungeranno in seguito i preti e i diaconi di Roma – che vengono detti “Cardinali”.

I cardinali vescovi sono i rettori delle sette diocesi confinanti con Roma e da essa dipendenti: Albano, Tuscolo (ovvero Frascati), Palestrina, Porto e Santa Ruffina, Sabina e Poggio Mirteto, Velletri e Ostia. I cardinali diaconi sono invece coloro che sovrintendono alle sette diaconie in cui è divisa la città, mentre i cardinali preti sono i sacerdoti preposti alle 25 (poi 28) chiese titolari nelle quali è suddivisa l’amministrazione religiosa di Roma.
Il decreto In nomine domini del 1059 riserva dunque l’elezione del sommo pontefice ai soli cardinali, eliminando ogni interferenza da parte del resto del clero, dei feudatari, del popolo romano e dell’imperatore, a cui viene riconosciuto il solo diritto di conferma.

“Il modello adottato da Niccolò II – spiega Zizola – destinato a orientare sostanzialmente il sistema elettorale supremo fino ai giorni nostri, è decisamente aristocratico, perdendo quegli aspetti di partecipazione popolare che Ildebrando ha pur tentato di preservare e recuperare nell’introdurre i primi svincoli dal giogo imperiale. Il primo obiettivo da conseguire è l’indipendenza degli elettori e la riforma non trova per questo soluzione migliore che quella di restringere la composizione del corpo elettorale” .
Nei secoli successivi, l’elezione verrà regolamentata in modo sempre più dettagliato: prima verranno ammessi al conclave anche i cardinali preti e quelli diaconi, poi – nel 1179 – si stabilirà il quorum dei due terzi del collegio perché l’elezione sia valida.

Nel frattempo anche il cardinalato cambia la sua identità: da membri del clero romano i cardinali diventano i vertici dell’aristocrazia cattolica e il titolo sarà per secoli – fino all’epoca contemporanea – attribuito ai rampolli delle famiglie nobiliari e svincolato completamente dall’originario ruolo di vescovo, prete o diacono di Roma, a cui resta legato oggi solo formalmente.

La chiusura della porta di un conclave

La chiusura della porta di un conclave

Intanto il Concilio di Lione, nel 1274, prevede che il conclave debba tenersi dieci giorni dopo la morte del papa nel palazzo abitato dallo stesso papa. Ogni cardinale può avere un solo servitore, tutti debbono abitare nello stesso salone, senza pareti divisorie o tende. A nessuno deve essere permesso recarsi dai cardinali o mandare messaggi.
Per costringere poi i cardinali a sbrigarsi, si stabilisce che passati i primi tre giorni, nei cinque successivi sia a pranzo che a cena “i cardinali si contentino ogni giorno di un solo piatto. Passati questi senza che si sia provveduto a eleggere il papa, sia dato loro solo pane, vino ed acqua, fino a che non avvenga l’elezione”.

Dal Basso Medioevo fino al Settecento gran parte dei cardinali saranno laici, destinati spesso a ricevere l’ordinazione sacerdotale ed episcopale solo dopo l’elezione a papa. E anche quando, nell’Ottocento, il cardinalato tornerà ad essere riservato ai religiosi, resterà completamente alieno al titolo presbiteriale, episcopale o diaconale e da un ruolo all’interno della Diocesi di Roma.
Un titolo che pure resta ancora testimoniato dai documenti ufficiali e dagli stemmi cardinalizi che si possono ammirare sulle facciate della basiliche della Città eterna.

Nel corso del XX secolo il cardinalato subirà un’ulteriore evoluzione: una Chiesa ormai priva del potere temporale, ma con una visione ormai globale del mondo, non può più essere governata solo da Roma e dall’Italia: i papi scelgono così i cardinali non più tra i notabili della Curia, ma tra i più importanti vescovi del mondo.

Nascono le cosiddette “sedi cardinalizie”: il cardinalato non è più un titolo personale, ma la conseguenza di un ruolo rivestito nella chiesa universale. Il conclave si fa così sempre più internazionale e dopo mezzo millennio nel 1978 in Vaticano torna a sedere un papa arrivato “da un paese lontano”.

Resta il problema di una Chiesa autoreferenziale con papi scelti da cardinali scelti a sua volta da papi, da cui restano escluse tanto una reale dinamica democratica quanto la partecipazione dei laici.

Per questo, dopo il Concilio Vaticano II papa Paolo VI da una parte fa uscire dal conclave i cardinali ultra ottantenni e dall’altra pensa di farci entrare rappresentanti laici e i presidenti delle Conferenze episcopali. Il progetto incompiuto, però, viene affossato dai suoi successori.

Con papa Francesco, poi, finisce anche la stagione delle sedi cardinalizie: il pontefice argentino da una lato rifiuta il titolo stesso di papa autodefinendosi “vescovo di Roma”, dall’altro sceglie i cardinali in base ai carismi personali, escludendo clamorosamente prelati come il patriarca di Venezia, l’arcivescovo di Torino e diversi presidenti di ministeri vaticani, e includendo – al contrario – vescovi di diocesi minori come Perugia e Ancona. L’antica tradizione è ancora in piena evoluzione.

Arnaldo Casali