Tramontata la concezione medievale del primato del potere ripartito fra Papato e Impero, all’alba del Rinascimento si affermarono progressivamente le prime monarchie nazionali quali la Francia, l’Inghilterra, la Russia, il Portogallo, da ultimo la Spagna.
Non l’Italia, che era ancora parcellizzata in ducati, principati e monarchie, dal Nord al Sud, divisa – al centro – dal Patrimonium Petri, che a quel tempo non era solo spirituale e religioso, ma anche temporale e territoriale.
Nello stesso tempo andavano scomparendo gli ultimi residui del feudalesimo come la cavalleria, in declino a seguito della diffusione delle armi da fuoco, o la nobiltà, il cui potere era sempre più limitato dall’amministrazione centralizzata della giustizia e dell’esazione di imposte, già monopolio dei feudatari, e ora invece nelle mani del sovrano.
Lo scenario che si presenta in Italia all’inizio del XVI secolo è quello della rivalità tra prìncipi e signori dei numerosi distretti che si lasciano conquistare – attraverso strategiche alleanze – dagli emissari di Luigi XII di Francia e Ferdinando di Spagna (il Cattolico).
In particolare i sovrani di Francia e Spagna, allo scopo di allargare i propri territori, nel 1500 stipularono un patto segreto col quale concordarono di occupare il Regno del Sud, retto dalla dinastia aragonese, e di spartirselo: due regioni alla Spagna e due alla Francia. Ma poi gli accordi furono mantenuti solo fino al momento della conquista di quel Regno, mentre successivamente sorsero violenti contrasti per quanto riguardava la spartizione del territorio, perché la Spagna – disattendendo le intese sottoscritte – reclamò per sé la fertile e ricca regione della Puglia.
L’esercito spagnolo si stanziò a Barletta, al comando del Gran Capitano Consalvo da Cordova, mentre quello francese nelle città del Comprensorio Nord Barese, in particolare a Trani, Bisceglie, Cerignola, Minervino e Canosa, dove era acquartierato il comando francese agli ordini del viceré Luigi d’Armagnac, duca di Nemours. Gli eserciti delle due maggiori potenze europee del tempo erano in attesa che a Blois – in Francia – si concludessero gli incontri delle due diplomazie francesi e spagnole, se mai avessero trovato un’intesa.
Un giorno, nel corso di uno scontro fra francesi e spagnoli, sulla via per Canosa, questi ultimi catturarono un drappello di cavalieri francesi.
Condotti prigionieri a Barletta, nel corso di un incontro conviviale presso l’Osteria del Sole (fra i due eserciti infatti non era ancora stato dichiarato lo stato di belligeranza) volarono “parole grosse”. Guy de La Motte, insolente capitano dei transalpini, sostenne, durante una animata discussione, che “i francesi non tenevano gli italiani in alcuna estimazione”.
A questa tracotante affermazione, il comandante spagnolo Diego de Mendoza prese ad esaltare la combattività degli italiani in forza agli spagnoli il cui valore – a suo dire – era superiore ad ogni altro. Anche un altro ufficiale spagnolo presente alla cena, Inigo Lopez de Ayala, non seppe tacere di fronte alle insolenze francesi e rivolto all’impudente La Motte lo provocò affermando che “per giudicare, si avessero a misurarsi tanti italiani con altrettanti francesi”.
De La Motte, borioso e arrogante, non se lo fece ripetere due volte ed accettò la sfida. La notizia si sparse rapidamente fra le milizie italiche che erano al soldo dell’esercito spagnolo.
Incontratisi i più valenti campioni, la scelta del capo della nostra formazione cadde su Ettore Fieramosca da Capua il quale – d’accordo con Prospero Colonna – scelse altri dodici cavalieri, preferendo che fossero espressione ciascuno di una regione italiana, per cercare di realizzare – sul campo – quella unità italica delle armi che non si era ancora realizzata sotto un unico governo ed una sola bandiera. Ed ecco perché talvolta si afferma che la Disfida di Barletta costituì la prima fiammella d’italianità di un paese ancora diviso in tanti stati e staterelli.
Fu stabilito il giorno per il certame: 13 febbraio 1503, dopo di ché si inviarono per le vie di Barletta e per le circostanti contrade araldi a cavallo che, tra squilli di trombe e rulli di tamburi, declamarono il Cartello della Sfida.
Ed ecco il nome dei tredici cavalieri italiani perché ne sia tramandata la memoria, come raccomandò lo storico Gregorovius: Ettore Fieramosca da Capua; Francesco Salamone da Sutera; Marco Corollario da Napoli; Guglielmo d’Albamonte da Palermo; Pietro Riczio da Soragna; Mariano d’Abignente da Sarno; Giovanni Capoccio da Spinazzola; Ludovico d’Abenevole da Capua; Ettore Giovenale da Roma; Bartolomeo Fanfulla da Lodi; Romanello da Forlì; Miale da Troia e Giovanni Brancaleone da Genazzano.
I principi Prospero e Fabrizio Colonna, comandanti dei soldati italiani al servizio degli spagnoli, organizzarono la Disfida che si sarebbe svolta in un campo fra Andria e Corato, detto campo di Sant’Elia, appartenente alla città di Trani sotto il protettorato veneziano, quindi un terreno neutrale.
Dopo il reclutamento dei propri campioni, al cospetto del Gran Capitano Consalvo da Cordova, i Colonna organizzarono l’investitura a cavaliere dei 13 campioni italiani; dopo di che essi, sulla strada per Corato, si fermarono nella Cattedrale di Andria dove giurarono “di voler morire piuttosto che uscire vinti dal campo”.
Durò poche ore, la tenzone, che dopo una serie di combattutissimi scontri fra i 26 duellanti, si concluse con la vittoria degli Italiani. Molti i feriti, e un solo morto, il francese Graiano d’Ast.
Grande fu il clamore di questa vittoria non solo in Italia, presso le diverse signorie, ma anche in Europa, specialmente presso le corti di Francia e Spagna.
Lì per lì fu una fiammata che illuminò della sua notorietà il cielo d’Europa. Sembrava che si fosse estinta, mentre i suoi riverberi avrebbero illuminato – con alterna fortuna – i secoli seguenti; sembrava che – dopo il trattato di Vienna del 1814 – si spegnessero del tutto. Ma non sarà così perché, riaccesi dalla vivida scrittura del D’Azeglio, nel suo famoso romanzo, torneranno essi a illuminare il nostro spento scenario nazionale e a infiammare gli animi degli Italiani.
Renato Russo