Disarmato in una terra di guerra, a parlare di pace con il nemico.
Dopo 798 anni Francesco torna in Egitto per completare un percorso e per riprendere un discorso; per chiudere un cerchio e disegnare una colomba; per combattere la paura e conquistare la speranza; per superare il passato e liberare il futuro.
Nel luglio del 1219 Francesco d’Assisi, in piena crociata, arriva a Damietta: armato solo della sua fede incontra il sultano Malek Al-Kamil inventando il dialogo interreligioso. È infatti il primo cristiano a rapportarsi pacificamente con l’Islam in un’epoca in cui la Chiesa promuove la Guerra santa di tutti i popoli europei contro il comune nemico islamico benedicendo la spada insanguinata, perché chi uccide un musulmano – secondo le parole di san Bernardo di Clairvaux – “non commette omicidio ma malicidio, e può essere considerato il carnefice autorizzato di Cristo contro i malvagi. Uccide in piena coscienza e muore tranquillo: morendo si salva, uccidendo lavora per il Cristo”.
Una guerra, quella contro l’Islam, che non deve conoscere tregua né tantomeno accordi diplomatici; tanto che Gregorio IX (che vantava di essere stato amico di Francesco e cardinale protettore dei francescani) arriverà a scomunicare l’imperatore Federico II, colpevole di aver conquistato la Terra Santa senza spargimenti di sangue.
Nel 2017 papa Francesco arriva al Cairo in pieno stato di emergenza, a due settimane dalle stragi rivendicate dallo Stato Islamico che sono costate la vita a 47 cristiani. Ci arriva “pellegrino di pace” a petto scoperto, senza macchine blindate, per incontrare il presidente Al Sisi e abbracciare il grande imam Ahmed al-Tayyeb.
Ottocento anni fa il gesto di quel giovanotto di Assisi che aveva rifiutato qualsiasi istituzionalizzazione della sua scelta religiosa, era semplicemente inaudito: andava nella linea opposta rispetto a quella del Papa; che, se tollerava il fraticello che predicava l’umiltà e la povertà in una Chiesa ricca e potente, era solo per non trovarsi un altro eretico di mezzo.
Un gesto così inaudito, quello del Giullare di Dio, che le stesse biografie ufficiali hanno cercato di giustificare come ansia di martirio o tentativo di proselitismo, tanto da inventare anche un’improbabile “ordalìa”, ovvero una sfida tra i due a dimostrare l’autentica fede passando indenni attraverso il fuoco.
D’altra parte è curioso come tante leggende si siano innestate su uno degli episodi più documentati sotto il profilo storico. Si tratta infatti di uno dei rari frammenti della vita di Francesco ad essere testimoniato “in presa diretta” da fonti esterne al mondo francescano, senza la mediazione della narrazione agiografica.
Il primo a citare il viaggio del Poverello di Assisi in Egitto, infatti, non è un biografo del santo ma un cronista della crociata: Giacomo da Vitry, vescovo e predicatore che nel marzo del 1220, pochi mesi dopo l’evento, lo racconta in una lettera in cui non fa il nome di Francesco ma ne parla come del Fondatore dell’Ordine dei Frati Minori, commentando che con la sua iniziativa “non ha ottenuto granché”.
Qualche anno dopo, tra il 1223 e il 1225 – ancora vivente Francesco – Giacomo torna a parlare dell’episodio nella sua Historia Occidentalis in cui riconosce, al contrario, il successo dell’iniziativa, visto che “ora i saraceni ascoltano volentieri i frati minori quando predicano la fede in Gesù Cristo e l’insegnamento del Vangelo”.
Ma il racconto più attendibile dell’episodio è probabilmente quello di Ernoul, che aveva passato quasi tutta la sua vita nei campi crociati dopo esserci arrivato come scudiero di Baliano II d’Ibelin, e che era stato testimone oculare dei fatti.
Anche Ernoul (che scrive intorno al 1227) non fa il nome di Francesco, e a differenza di Giacomo da Vitry, nonostante sia molto colpito dall’episodio e molto documentato sugli eventi, sembra non conoscere minimamente il protagonista. Parla infatti genericamente di “due chierici” (Francesco era accompagnato da frate Illuminato) che “si trovavano nell’esercito a Damiata”.
“Si recarono dal Cardinal legato – scrive Ernoul – e gli manifestarono la loro intenzione di andare a predicare al sultano; ma volevano fare questo con il suo beneplacito”. Il cardinale risponde che, per conto suo, non darà mai l’autorizzazione, perché nel campo nemico sarebbero sicuramente uccisi. “Ma essi risposero che se ci andavano lui non avrebbe avuto nessuna colpa, perché non era lui che li mandava ma semplicemente permetteva che vi andassero”.
I due insistono tanto che il cardinale alla fine si arrende, lavandosi le mani da ogni responsabilità. “Allora i due chierici partirono dal campo cristiano, dirigendosi verso quello dei saraceni. Quando le sentinelle del campo saraceno li scorsero che si avvicinavano, congetturarono che certo venivano come portatori di qualche messaggio o perché avevano intenzione di rinnegare la loro fede. Si fecero incontro, li presero e li condussero davanti al Sultano”.
Quando giungono alla presenza di Malik Al-Kamil, il sultano chiede loro se sono venuti a portare qualche messaggio o se vogliono convertirsi all’Islam. I due rispondono che “giammai si sarebbero fatti saraceni, ma piuttosto erano venuti a lui portatori di un messaggio del signore Iddio per la salvezza della sua anima”. “Se voi non volete credere – gli dicono – noi consegneremo la vostra anima a Dio, perché vi diciamo in verità che se morirete in questa legge che ora professate, voi sarete perduto né mai Dio avrà la vostra anima”.
Il Sultano accetta quindi di imbastire un dibattito teologico con i due cristiani alla presenza dei suoi dignitari maggiori e gli incaricati del culto e Francesco e Illuminato rispondono che se non riusciranno a dimostrare quanto asseriscono, si faranno volentieri mozzare la testa. I dignitari convocati, però, rifiutano di farsi indottrinare dai cristiani e suggeriscono di uccidere subito la coppia di predicatori. Rimasto solo con i due, il Sultano considera che “sarebbe una ricompensa malvagia far morire voi, che avete voluto coscientemente affrontare la morte per salvare l’anima mia nelle mani del Signore Dio”. Decide quindi di offrire ai due chierici di restare con lui assicurando terre e possedimenti e di fronte al loro rifiuto li riempie di doni (oro, argento e drappi di seta) per farli poi scortare verso il loro accampamento.
“Essi protestarono che non avrebbero preso nulla dal momento che non potevano avere l’anima di lui per il Signore Iddio, poiché essi stimavano cosa assai più preziosa donare a Dio la sua anima che il possesso di qualsiasi tesoro. Sarebbe bastato che desse loro qualcosa da mangiare, e poi se ne sarebbero andati”.
Il sultano fa offrire loro quindi un abbondante pasto. “Finito, essi si congedarono da lui che li fece scortare sani e salvi all’accampamento dei cristiani”.
Così molto probabilmente sono andate le cose. Eraclio, altro storico della crociata che scrive intorno al 1230, aggiunge che Francesco rimane con l’esercito cristiano a Damietta fino a quando la città non viene presa, e che “egli notò che il male e il peccato cominciavano a crescere tra la gente dell’accampamento e ne provò tanto dispiacere che se ne andò via e si fermò per un pezzo in Siria. Poi fece ritorno al suo paese”.
Se le reliquie custodite nella Basilica di Assisi sono autentiche, comunque, qualche dono come un corno e altri oggetti preziosi – per non offendere l’ospitalità del sovrano – Francesco l’aveva comunque accettato.
Particolarmente interessante è il fatto che l’incontro tra Francesco e Malek Al-Kamil sia ricordato non solo da fonti cristiane, ma anche da fonti islamiche: nell’epigrafe funeraria di un saggio musulmano, Ibn al-Zayyât, che era consigliere spirituale di Malik Al-Kâmil, si dice infatti che questo saggio aveva avuto “un’avventura memorabile con un monaco cristiano”.
“L’incontro, dunque, vi è stato – come spiega il francescanista Marco Bartoli – è stato percepito come straordinario dai contemporanei e i due protagonisti erano uomini, per ragioni diverse, propensi alla pace”.
Il primo biografo di Francesco a parlare dell’episodio, è il primo biografo in assoluto: Tommaso da Celano, che nella sua prima vita del santo, pubblicata nel 1228 a due anni dalla morte, aggiunge violenze, minacce e torture subite da Francesco da parte dei “sicari del Sultano” mentre nella seconda, scritta quasi vent’anni dopo e redatta utilizzando i ricordi di molti compagni, inserisce una profezia: “Un giorno, avuta notizia che i nostri disponevano a battaglia, si addolorò fortemente e rivolto al compagno disse: “Il Signore mi ha mostrato che se avverrà oggi lo scontro, andrà male per i cristiani”. Poi si rivolge ai crociati, “e per il loro bene scongiura a non dar battaglia, e minaccia la disfatta”. I militari, però, lo prendono per uno scherzo e vanno all’attacco, salvo poi doversi dare alla fuga. “Il santo era vinto dalla compassione – conclude Tommaso – soprattutto compiangeva gli spagnoli, che vedeva ridotti a ben pochi a causa del loro maggiore slancio nel combattere”.
Questo episodio darà in seguito origine a speculazioni interpretative agli antipodi tra loro: se gli storici pacifisti lo considerano un tentativo di Francesco di fermare la crociata, quelli guerrafondai ci vedono un santo “stratega” che non vuole mandare i soldati in battaglia perché ne ha già previsto l’esito negativo.
Quindici anni dopo – nel 1263 – San Bonaventura, impegnato a normalizzare il suo fondatore, nella Legenda Maior riporta più o meno i racconti precedenti (sostituendo però Damietta con Babilonia e sottolineando che si trattava del terzo tentativo del santo di raggiungere i paesi arabi) mentre nei Cinque discorsi per le feste del padre san Francesco lavora di fantasia aggiungendo la sfida con il Sultano e la passeggiata sui carboni ardenti.
I Fioretti (che raccolgono leggende risalenti a metà del Trecento) sostengono infine che il Sultano era così ammirato da Francesco da aver autorizzato i compagni a predicare nelle sue terre. Particolarmente piccante è poi l’episodio della “femmina bellissima nel corpo ma sozza nell’anima” che cerca di indurlo al peccato.
“Io accetto – risponde Francesco di fronte all’allettante proposta – andiamo a letto”. La donna prova a portarlo in camera, ma Francesco risponde: “Vieni con meco, io ti menerò a un letto bellissimo”. E la porta di fronte a un letto di fuoco, in cui Francesco – spogliatosi nudo – si sdraia invitando la meretrice a fare lo stesso. “E standosi così santo Francesco, per grande ispazio con allegro viso, e non ardendo né punto abbronzando, quella femmina per tale miracolo ispaventata e compunta in cuor suo, non salmente si penté del peccato e della mala intenzione, ma eziando si convertì perfettamente alla fede di Cristo e diventò di tale santità, che per lei molte anime si salvarono in quelle contrade”. Per concludere, il Sultano manifesta al santo la volontà di convertirsi al cristianesimo, ma preferisce evitare di farlo subito per non mettere a rischio la vita dello stesso Francesco, promettendo però di farsi battezzare dai frati dopo la sua morte.
La cronaca di frate Illuminato, da parte sua, riporta un dibattito molto serrato (e altrettanto improbabile) tra Francesco e il Sultano, in cui Malek Al-Kamil – dimostrando di conoscere a memoria il Vangelo, dice: “Il vostro Signore insegna che voi non dovete rendere male per male, e non dovete rifiutare neppure il mantello a chi vi vuol togliere la tonaca. Quanto più voi cristiani non dovreste invadere le nostre terre”. Come dargli torto? Eppure Francesco lo fa: “Mi sembra che voi non abbiate letto tutto il Vangelo. Altrove, infatti, è detto: Se il tuo occhio ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo lontano da te. E con questo ha voluto insegnarci che se anche un uomo ci fosse amico o parente dovremmo essere disposti a separarlo, ad allontanarlo, a sradicarlo da noi, se tenta di allontanarci dalla fede e dall’amore del nostro Dio. Proprio per questo, i cristiani agiscono secondo giustizia quando invadono le vostre terre e vi combattono, perché voi bestemmiate il nome di Cristo e vi adoperate ad allontanare dalla religione di lui quanti più uomini potete”.
In questo racconto, dunque, si cerca di giustificare lo scandaloso gesto di pace di Francesco cercando di farlo passare per un’agguerritissima forma di proselitismo.
Peccato che a smentire lo pseudo Illuminato sia Francesco stesso, che tornato dall’Egitto fa scrivere nella Regola non bollata (quella cioè, che non verrà approvata dal Papa, ma che riflette più fedelmente il pensiero del santo rispetto a quella ufficiale): “O frati tutti, riflettiamo attentamente che il Signore dice: ‘Amate i vostri nemici e fate del bene a quelli che vi odiano’, poiché il Signore nostro Gesù Cristo, di cui dobbiamo seguire le orme, chiamò amico il suo traditore e si offrì spontaneamente ai suoi crocifissori. Sono, dunque, nostri amici tutti coloro che ingiustamente ci infliggono tribolazioni e angustie, ignominie e ingiurie, dolori e sofferenze, martirio e morte, e li dobbiamo amare molto poiché, a motivo di ciò che essi ci infliggono, abbiamo la vita eterna”. E specifica: “I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio”.
Ma non finisce qui: che quel viaggio voluto per sete di martirio si fosse trasformato in uno straordinario incontro umano e spirituale, lo prova anche una preghiera scritta da Francesco nel 1224: l’unica, peraltro, di cui possediamo il manoscritto autografo, essendo stata vergata dal santo in un biglietto consegnato a frate Leone durante la permanenza alla Verna.
Lo stesso Leone annota sulla pergamena di aver avuto il biglietto proprio nei giorni in cui il santo riceveva le stimmate. Il foglio (conservato oggi nella cappella delle reliquie della Basilica di Assisi) riporta su una facciata una benedizione, e sull’altra le Lodi di Dio altissimo, che non sono altro che una traduzione e una sintesi della più celebre preghiera islamica: I 99 nomi di Allah. Un incredibile esempio, dunque, di preghiera comune, che anticipa di oltre settecento anni lo storico incontro di Assisi voluto da Giovanni Paolo II nel 1986.
Trent’anni dopo quell’incontro, proprio Francesco è diventato papa. E non è solo una questione di nome (come è noto, non era mai stato usato da nessun pontefice prima): perché Jorge Mario Bergoglio dimostra ogni giorno di voler attuare ai vertici della Chiesa proprio lo stesso programma che Francesco aveva tentato dal basso: una Chiesa povera, che sta in mezzo ai poveri, e che persegue la pace e il dialogo con tutti anche – e soprattutto – con quelli che la società cristiana occidentale considera oggi i principali nemici.
E se ci sono voluti secoli, prima che un papa avviasse – sulle orme di Francesco d’Assisi – un dialogo con l’Islam, oggi l’incontro al Cairo lo riprende in una fase particolarmente delicata e dopo anni di gelo dovuti a incidenti diplomatici avvenuti durante il pontificato precedente.
Ieri come oggi, quindi, quella che dal centro dell’Italia va verso il cuore dell’Egitto è – per usare l’espressione di padre Gwenolè Jeusset – componente della Fraternità internazionale di Istanbul per il dialogo interreligioso e presidente della Commissione internazionale francescana per le relazioni con i musulmani – “la strada che apre gli orizzonti alla pace”.
Arnaldo Casali