Mi-ka-El, quis ut Deus, chi è come Dio? Custode di Israele, difensore della fede contro Satana e i suoi angeli ribelli, l’Arcangelo Michele trae le sue caratteristiche dal libro biblico dell’Apocalisse e come tale è rappresentato con due grandi ali, rivestito da un’ampia corazza e armato di spada o lancia, con le quali trafigge il drago che incarna Satana. Egli infatti è il princeps militiae caelestis, ossia il comandante che guidò l’esercito celeste contro gli angeli ribelli e li sconfisse, precipitandoli a terra. Equiparato a un santo, e guerriero per eccellenza, ha tra le sue prerogative anche la psicostasìa, ossia la facoltà di soppesare le anime in vista del Giudizio Universale. Per queste sue caratteristiche, in tutto o in parte comuni anche ad alcune divinità precristiane (ad esempio il classico Mercurio-Hermes) l’Arcangelo divenne figura assai popolare sia in Oriente, dove tradizionalmente è rappresentato come un alto dignitario di corte, sia in Occidente, che invece ne ha enfatizzato l’aspetto bellicoso. Qui a venerarlo furono in particolare i Longobardi, che gli dedicarono numerosi santuari e luoghi di culto in tutta Italia elevandolo al rango di santo “nazionale” .
Le ragioni di questa predilezione sono molteplici e per comprenderle è necessario considerare brevemente la situazione religiosa dei Longobardi e il loro panorama culturale di riferimento prima e subito dopo il loro ingresso nella penisola italiana. All’arrivo in Italia, nel 568, i Longobardi pagani lo erano ancora in massima parte: solo l’élite guerriera – ma la questione è assai controversa – poteva aver aderito al Cristianesimo nella sua versione ariana, professante la sola natura umana di Cristo e pertanto giudicata eretica sin dal concilio di Nicea del 325.
L’ “imprimatur” della coppia regnante Il lungo ed elaborato processo di conversione della gens Langobardorum ebbe invece inizio circa un quarantennio dopo l’ingresso nella penisola e fu voluto e favorito dai sovrani Agilulfo (591-616) e Teodolinda – lei bavarese e cattolica – nel quadro delle iniziative da loro adottate allo scopo di consolidare il regno in vista della ripresa della politica espansionista ai danni di Bisanzio.
L’avvio della conversione fu possibile grazie all’asse stabilito dalla coppia regnante con il Papato, retto all’epoca da un uomo energico come Gregorio Magno (590-604), nel tentativo di ottenerne l’appoggio nel delicato e sempre precario quadro politico interno, caratterizzato da frequenti ribellioni al potere centrale da parte dei duchi più periferici. Un ruolo decisivo nel processo di evangelizzazione fu ricoperto dalla fondazione, durante tutto il VII e l’VIII secolo, di numerosi monasteri e chiese, e dal culto dei santi cui erano intitolati. I Longobardi ne percepivano alcuni come affini alle divinità pagane che veneravano nel loro pantheon tradizionale e l’Arcangelo era proprio uno di questi: egli infatti ricordava molto da vicino il Godan/Odino/Wotan cui si erano votati in tempi remoti e non solo perché legato alla guerra e protettore di eroi e guerrieri, bensì anche perché entrambe le figure erano considerate psicopompo, ossia accompagnavano le anime dei defunti nell’Aldilà.
Il “tempietto” e la chiesa “maggiore” All’Arcangelo i Longobardi dedicarono edifici religiosi in tutta l’area da loro occupata. A Cividale, primo ducato fondato subito dopo il loro ingresso in Italia e centro di primissimo piano nell’VIII secolo durante il ducato di Pemmone e del figlio (e futuro re) Astolfo, il “Tempietto longobardo” edificato da quest’ultimo – oggi Oratorio di Santa Maria in Valle – vanta tra gli altri gioielli artistici una lunetta della porta in mezzo alla quale, contornato da motivi ornamentali a grappoli e vitigni, è raffigurato il Cristo tra gli arcangeli Michele e Gabriele.
Il culto fu poi importantissimo nella capitale del regnum, Pavia, la cui chiesa maggiore («quae dicitur maior») era proprio la basilica di san Michele, la più grande delle quattro dedicate all’Arcangelo che col tempo sorsero in città. Considerata come templum regium, ossia chiesa regia, per la sua stretta dipendenza dal Palatium eretto già dal goto Teodorico nel VI secolo e restaurato dai Longobardi, la basilica di San Michele sarebbe sempre stata al centro della vita politica e delle vicende private dei sovrani ospitando battesimi di rampolli illustri e incoronazioni di re italici per tutto il Medioevo: da Berengario I (nell’anno 888) a Lodovico III (900), da Ugo (926) a Berengario II e al figlio Adalberto (950), da Arduino d’Ivrea (1002) a Enrico il Santo (1004), a Federico Barbarossa (1155). Subì svariate vicissitudini, dal saccheggio degli Ungari nel 924 all’incendio del 1004, fino al terribile terremoto del 1117 che la danneggiò al punto tale che dovette essere abbattuta. Al suo posto, fu costruito l’edificio che, salvo alcune modifiche, si può ammirare ancora oggi.
La chiesa, in perfetto ossequio del resto al ruolo di custos (custode) rivestito da san Michele, fu luogo di rifugio di ribelli in almeno due occasioni, entrambe narrate da Paolo Diacono nell’Historia Langobardorum. La prima nel 642, quando un certo Unulfo, fedele servo del re Bertarido, vi trovò scampo dalle ire di re Grimoaldo; la seconda nel 737, quando un tale Herfemar, sodale del duca Pennone che si era ribellato a re Liutprando, vi si nascose per evitare la cattura, addirittura con la spada guainata. Il Chronicon Novalicense, redatto entro la prima metà dell’XI secolo, narra poi come durante l’assedio finale di Pavia da parte dei Franchi – correva l’anno 774 – il re Desiderio vi si recasse ogni sera a pregare.
Il rifiuto del duca Quanto il culto dell’Arcangelo fosse diffuso e sentito è dimostrato anche da un altro celebre episodio, riportato anch’esso dal Diacono, verificatosi appena prima della battaglia di Cornate d’Adda – nella pianura tra Milano e Bergamo -, che nel 688 vide scontrarsi l’esercito di re Cuniperto, filocattolico e fautore di una politica di pacificazione con Bisanzio, e i duchi “tradizionalisti” del Nordest, capeggiati dal duca di Trento Alachis. Narra il cronista che Alachis, sfidato dal sovrano in persona, rifiutò di combattere con lui perché fra le lance del re aveva scorto l’immagine sacra dell’Arcangelo, sulla quale anch’egli aveva prestato giuramento. Dopo la battaglia, vinta da Cuniperto, il re edificò sul luogo un monastero dedicato a san Giorgio, altro santo guerriero già protettore della cavalleria bizantina e ora “arruolato” di diritto tra le fila dell’esercito longobardo.
Sempre nella Langobardia maior, uno dei santuari di spicco era la Sacra di San Michele, a Susa, lungo il Valico del Moncenisio. Si trattava della prima tappa in territorio italiano, venendo dalle Alpi, della cosiddetta Via Sacra Langobardorum, itinerario percorso dai pellegrini che dal monastero di Mont Saint-Michel in Normandia portava al santuario di San Michele sul Gargano (di cui parleremo fra breve) per poi continuare fino alla Terra Santa. Oltre all’eremo (“Spelonca di San Michele”) consacrato da san Colombano a Coli vicino al monastero da lui fondato a Bobbio su terreni demaniali donati sempre da Agilulfo e Teodolinda – siamo nel 613 circa -, altre importanti chiese dedicate all’Arcangelo si trovano a Lucca, che fu capoluogo del ducato di Tuscia, e nel suo territorio.
Alla conquista della “minor” Nella cosiddetta Langobardia minor, ossia l’area centro-meridionale della penisola controllata dai Longobardi, il culto dell’Arcangelo era ancora più antico. Tra i primi a venerarlo fu l’imperatore Costantino, che dopo l’Editto di Milano (313) che poneva ufficialmente fine alle persecuzioni ai danni del cristianesimo, fece costruire e dedicare un grande santuario a Costantinopoli, il Micheleion. Dall’Oriente, il suo culto penetrò in Occidente, dove la prima basilica eretta a suo nome sembra essere quella che sorgeva su di un’altura al VII miglio della Via Salaria, a Roma. A darvi ulteriore impulso furono le sue ripetute apparizioni – tutte raccontate nel Liber de apparitione sancti Michaelis in monte Gargano, redatto intorno al IX secolo e giunto in differenti redazioni sia greche sia latine -, l’ultima delle quali l’8 di maggio dell’anno 490 al vescovo di Siponto (presso Manfredonia, Foggia), Lorenzo Maiorano, per indicargli una grotta sul Gargano da consacrare al culto cristiano. Il Santuario edificato sulla grotta, noto anche come “Celeste Basilica”, si sarebbe rivelato decisivo per lo sviluppo della devozione all’Arcangelo e per la sua diffusione in tutto l’Occidente europeo. Cent’anni dopo, nel 590, papa Gregorio Magno avrebbe ribattezzato la Mole Adriana – lo tramanda Jacopo da Varagine nella Legenda Aurea – “Castel Sant’Angelo” proprio in omaggio ad un’altra apparizione, stavolta a segnare la fine della tremenda pestilenza che stava mettendo in ginocchio Roma.
Il mausoleo dei duchi di Spoleto Un’ulteriore apparizione, da poco documentata grazie a una scoperta d’archivio ancora inedita, sarebbe alla base anche della fondazione dell’abbazia di San Pietro in Valle a Ferentillo, in Umbria, luogo destinato a ospitare il mausoleo dei duchi di Spoleto (vedi Medioevo n. 229, febbraio 2016, pp. 92-103). E spelonche, ipogei e chiese rupestri consacrate al culto micaelico si trovano sparse un po’ in tutto il centro Italia.
Sul Gargano e sul Santuario i Longobardi finirono fatalmente per concentrare la loro attenzione a partire dal 570 – anno cui di solito si fa risalire la creazione del ducato di Benevento ad opera di Zottone – quando tentarono ripetutamente di strappare l’Italia meridionale ai Bizantini. Un episodio cruciale da questo punto di vista fu l’attacco, iniziato nel 642 dal duca di Benevento Aione (641-642), contro gli Slavi che razziavano la costa adriatica non lontano da Siponto. Messi in fuga dal suo successore Rodoaldo (642-647), gli Slavi furono ben presto sostituiti dai Bizantini, che preoccupati per le mire espansionistiche dei Longobardi nei confronti del territorio da loro occupato, attaccarono il santuario. Ecco la narrazione di Paolo Diacono: «Morto a Benevento il duca Rodoaldo, che aveva governato cinque anni,divenne duca suo fratello Grimoaldo e guidò il ducato per venticinque anni. […] Era un grandissimo guerriero e famoso in ogni luogo. In quel tempo i greci (ossia i Bizantini) giunsero sul monte Gargano per depredare il santuario del santo arcangelo, ma quando Grimoaldo si avventò contro di loro col suo esercito li sterminò tutti». Secondo una tradizione più tarda, l’episodio dell’anno 650 avvenne l’8 maggio: così, accanto alla ormai tradizionale festività del 29 settembre, giorno della consacrazione della grotta ad opera del Maiorano, questa data entrò nel calendario delle celebrazioni micaeliche come anniversario dell’apparizione dell’Arcangelo e della vittoria di Grimoaldo.
Santuario nazionale Da questo momento in poi, proprio il friulano Grimoaldo, duca di Benevento ma destinato a salire sul trono (662-671), si sarebbe prodigato per fare del luogo il santuario nazionale del suo popolo dando inizio a cospicui lavori di ingrandimento e ristrutturazione che sarebbero proseguiti alacremente con i suoi successori.
Il duca Romualdo e re Cuniperto (688-700), ad esempio, fecero costruire due scale, una per l’entrata e l’altra per l’uscita, allo scopo di facilitare il flusso sempre maggiore dei pellegrini, e un’ampia galleria di oltre 40 metri da impiegare come hospitium, ossia come ricovero, per chi si recava a visitare questo sacro luogo. Anche la regina Ansa, moglie di Desiderio (756-774) fu molto prodiga con i pellegrini che si recavano ogni anno al santuario tanto che, come riporta il suo stesso epitaffio (forse composto da Paolo Diacono), volle assicurare loro «ampla tecta pastumque», ampi ricoveri e cibo. Posto sotto la giurisdizione del vescovo Barbato di Benevento, il Santuario di San Michele divenne il centro propulsore della definitiva conversione al cattolicesimo dei Longobardi ancora pagani e, più in generale, dell’evangelizzazione del territorio: un esempio può essere riscontrato nella grotta della Morgia Sant’Angelo di Cerreto Sannita, detta anche “della Leonessa”, trasformata in una cappella dedicata al culto dell’Arcangelo intorno all’anno 700. L’importanza del luogo non sarebbe diminuita nemmeno dopo la formale caduta del regno: non solo la sua frequentazione da parte dei fedeli non conobbe sosta, ma Normanni, Svevi e Angioini lo utilizzarono a loro volta come formidabile elemento di coagulazione nella altrimenti precaria situazione politica del Mezzogiorno medievale.
La funzione, percepita come apotropaica da parte dei Longobardi, del loro santo “nazionale” risulta evidente dalla presenza costante dell’Arcangelo, con tanto di croce, scudo e legenda, sulle monete coniate da Cuniperto e dai suoi successori Ariperto II (702-712) e Liutprando (712-744), sicché san Michele finì per sostituire l’effigie della Vittoria sul verso non solo dei tremissi del regno, ma anche dei denari del ducato di Benevento. Da lì, con le ali spiegate e la spada sguainata, avrebbe ben presto “conquistato” l’Europa: come scrive lo storico Gilles Jeanguenin, «Da Roma e dall’Italia meridionale la devozione all’Arcangelo si diffuse verso l’Est in epoca carolingia, lungo l’itinerario dei monaci celti fino alle Alpi bavaresi, di cui i santuari dedicati a san Michele occupano le cime».
Lungo la cosiddetta Via Langobardorum, il principe degli angeli svolse dunque l’importante funzione di cerniera tra Oriente ed Occidente portando con sé, oltre ai vessilli delle milizie cristiane, anche l’eredità delle antiche divinità del mondo pagano.
Elena Percivaldi
da Medioevo n. 224 (maggio 2017). © Elena Percivaldi / Medioevo. Riproduzione vietata.