Fanno tutti così: cominciano innamorandosi della povertà e finiscono puntualmente per mettere in discussione l’autorità del Papa, minando l’unità di Santa Madre Chiesa.
E questa è una cosa che Santa Madre Chiesa non può permettersi. Tantomeno poi, in un momento in cui non lo sa più nemmeno lei, quale è il vero papa e divisa lo è già fin troppo.
Quindi questi eretici, questi predicatori abusivi, queste teste calde difficili da gestire, questi potenziali papi di chiese rivali, è meglio toglierli di mezzo subito; e senza lasciare traccia. E non c’è da andare tanto per il sottile né da farsi troppi scrupoli ad usare mezzi non proprio legali né tantomeno morali.
Il diavolo è furbo, e bisogna essere più furbi di lui se vogliamo fregarlo. Quindi, sì: usare anche l’inganno, i tranelli, la menzogna, la cospirazione. Ogni mezzo – anche il più illecito – è lecito per far fuori i nemici di Santa Madre Chiesa.
Come dite? Che così si finisce per riservare ai nemici della Chiesa lo stesso trattamento che è stato riservato a Cristo? Ebbene, tanto meglio no? Così sono in buona compagnia, questi eretici. Poi se l’infinita misericordia di Dio deciderà di evitare loro la dannazione eterna, ne saremo tutti assolutamente felici. Intanto noi però, ad ogni buon conto, ce li togliamo dai piedi.
D’altra parte non è il primo né l’ultimo innocente, questo famoso teologo boemo, a finire sul rogo. Tra quindici anni toccherà a Giovanna d’Arco, tra un’ottantina a Girolamo Savonarola, trecento anni fa era toccato al povero Arnaldo da Brescia. E adesso è il turno suo: l’ultimo degli eretici, il primo dei protestanti.
È il 6 luglio 1415 e siamo a Costanza, in Germania, dove si è riunito un concilio ecumenico che sta cercando di ricomporre il più grosso pasticcio della storia del cristianesimo: lo Scisma che da quasi quarant’anni vede la Chiesa Cattolica governata da due papi rivali: uno ad Avignone e l’altro a Roma, con tutte le diocesi del mondo schierate con l’uno o con l’altro. Nel 1409 a Pisa si è riunito un Concilio che ha tentato di mettere ordine, deponendo entrambi i papi ed eleggendone un terzo: il risultato è che adesso di papi ne abbiamo tre, e chi sia quello vero, solo Dio lo sa.
In questo grande caos nessuno sa chi ha ragione, ma in compenso tutti sanno chi ha torto: è lui, Jan Hus da Husinec, Boemia, 44 anni. Un eroe, un maestro, quasi un messia in patria. Per questo è stato necessario attirarlo qui con l’inganno, facendogli credere che lo aspettava un confronto, un dibattito, magari un processo. Invece no: è qui solo per morire. Questa è l’unica cosa su cui tutti i padri conciliari sono d’accordo.
Nel mezzo del Duomo viene eretto un grande palco, degno dello spettacolo grandioso che si prepara. Sopra c’è una sorta di piedistallo, su cui vengono sistemati i paramenti, la pianeta per la messa e gli abbigliamenti sacerdotali. Mastro Jan Hus, appena entrato nella chiesa cade in ginocchio e si raccoglie in preghiera.
Nel frattempo il vescovo di Lodi sale sul pulpito e pronuncia un sermone tutto incentrato sulle eresie.
Finita la predica è il turno del revisore pontificio – Bernardo di Wildungen – che dà lettura dei capi di accusa.
Jan era arrivato a Praga nel 1390, giovane studente senza una lira ma con tanta fame di conoscenza: a Praga si respirava una primavera culturale e religiosa che le autorità, nonostante le repressioni, non erano riuscite a soffocare. Le idee di John Wyclif per il ritorno ad una chiesa povera e libera da legami con il potere, avevano fatto braccia negli studenti dell’università, tanto da portare alla nascita della Scuola dei predicatori di Milic, riformatore che aveva cercato in ogni modo di fare pressione sulle gerarchie per un cambio di rotta, ottenendo in cambio la chiusura della sua scuola e l’accusa di eresia.
La sua eredità era stata raccolta però dalla Cappella di Betlemme, una nuova scuola dove si usava la lingua volgare e si ospitavano gli studenti universitari.
Jan si era laureato nel 1395, l’anno dopo aveva iniziato a insegnare filosofia nella stessa università e nel 1400 era stato ordinato prete. Le sue prediche venivano frequentate dalla “quasi totalità” – racconta un collega – della popolazione praghese. Per i poveri che gli venivano raccomandati Hus chiedeva elemosine ai suoi conoscenti; “usava invitare a tavola i maestri e ricevere con amore e bontà ogni visitatore”.
Il teologo era diventato così in poco tempo il personaggio più popolare di Praga, un punto di riferimento per la popolazione che si era infiammata quando Jan aveva iniziato a chiedere pubblicamente una riforma dei costumi ecclesiastici.
“Prima accusa – declama Bernardo di Wildungen – Hus sostiene che vi è una sola chiesa universale che è la totalità dei predestinati. E prosegue: la santa chiesa universale è solo una dal momento che uno solo è il numero dei predestinati”.
“Per predestinati s’intendono gli eletti, coloro che si salveranno – replica Jan – e per preconosciuti i dannati nell’ultimo giudizio”.
“Fate silenzio! – replica stizzito l’inquisitore – non vi è consentito di replicare. Seconda accusa: secondo Hus Paolo non è mai stato membro del diavolo benché abbia compiuto alcuni atti simili a quelli della Chiesa dei malvagi”.
Con il passare del tempo, si era ritrovato a sposare quasi in toto la dottrina di Wyclif che – sfiduciato nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche – sperava che una riforma della Chiesa si potesse ottenere per iniziativa dei governi laici. Tuttavia, a differenza di Wyclif, Jan credeva nella transustanziazione, e cioè nella presenza reale di Cristo nell’eucarestia.
Ancora più vicini alle dottrine di Wyclif erano due colleghi di Jan: Stanislao da Znojmo e Stefano Páleč che, accusati di eresia, erano stati convocati a Bologna dal cardinale Baldassarre Cossa.
Anziché essere interrogati, però, arrivati in Italia i due erano stati incarcerati e massacrati di botte, tanto che Páleč era rientrato immediatamente nei ranghi dell’ortodossia romana divenendo uno dei principali accusatori di Hus.
Jan era spaventato, ma non aveva nessuna intenzione di fare marcia indietro come il suo collega. Per lui la fede in Cristo trovava conferma nella ragione e questa nell’esperienza di ciascuno nella ricerca della verità. Una verità che resta unica ma di cui nessuno può dirsi depositario. E soprattutto, nessuno può contraddirla con il suo esempio. Perché la verità è giustizia.
“Settima accusa: Hus sostiene che Pietro non è oggi e non fu mai il capo della santa chiesa cattolica. Ottava accusa: Hus sostiene che quei sacerdoti che in qualsiasi modo vivono una vita criminosa contaminano la potestà sacerdotale e come figli infedeli ragionano da miscredenti. Nona accusa: Hus sostiene che la dignità papale trasse origine da Cesare e l’istituzione papale e la sua preminenza provennero dal potere di Cesare”; “mi riferivo qui al potere temporale, alle insegne imperiali e alla supremazia riconosciuta al papa sulle quattro sedi patriarcali” ribatte il teologo.
“Silenzio! Decima accusa: Hus sostiene che nessuno può ragionevolmente affermare di se stesso e di altri che è a capo di una chiesa particolare, neppure il romano pontefice. Undicesima accusa: Hus sostiene che non bisogna credere che ogni romano pontefice, chiunque sia, è a capo di qualunque chiesa particolare. Dodicesima accusa: Hus sostiene che nessuno fa le veci di Cristo o di Pietro se non lo segue nel modo di comportarsi. Tredicesima accusa: secondo Hus il papa non è vero e manifesto successore del principe degli Apostoli Pietro, se si comporta in modo contrario a Pietro e si lascia sedurre dalla cupidigia di denaro: in tal caso è vicario di Giuda Iscariota. Quattordicesima accusa: i dottori che affermano che se alcuno, soggetto a censura ecclesiastica, rifiuti di lasciarsi correggere debba essere consegnato al giudizio secolare, in pratica si comportano come il sommo sacerdote, gli scribi e i farisei di fronte al Cristo. Quindicesima accusa: secondo Hus l’obbedienza ecclesiastica è obbedienza secondo l’invenzione dei preti della chiesa, prescindendo da ogni esplicito comandamento della Scrittura”.
“Qui mi riferivo a un’obbedienza ben distinta dall’obbedienza esplicita alla legge di Dio, come risulta evidente dall’articolo da cui la frase è tratta”.
Di fronte allo scisma di occidente Hus era rimasto neutrale, sostenendo che dirimere la controversia spettasse al futuro concilio. Lo stesso atteggiamento era stato deciso da re Venceslao, mentre l’arcivescovo di Praga Zajíc Zbynek si era schierato con il papa di Roma e aveva istituito una commissione per valutare l’ortodossia del nostro.
Nel frattempo lo stesso Venceslao aveva promulgato una legge che rovesciava la tradizionale egemonia tedesca nell’Università di Praga, attribuendo più potere agli elementi boemi e provocando così l’abbandono degli studenti e degli insegnanti tedeschi, che avevano fondato una nuova università a Lipsia, ma anche l’elezione a rettore – nel maggio del 1409 – dello stesso Hus.
Di fatto si profilava una faida che vedeva contrapposti da una parte il re e l’università guidata da Hus, dall’altra i tedeschi, l’arcivescovo e una parte della Chiesa.
Intanto il concilio di Pisa si era concluso il 26 giugno 1409 con la scelta di un nuovo papa – Alessandro V – che però, anziché sostituire gli altri due aveva finito per affiancarli. In compenso il nuovo papa aveva subito firmato una bolla che condannava nuovamente gli scritti di Wyclif e autorizzava l’arcivescovo di Praga a vietare a Jan di predicare. La notifica era arrivata al nostro, però solo dopo la morte di Alessandro.
Il sospiro di sollievo del rettore aveva avuto comunque breve durata: come “Papa di Pisa” era stato infatti eletto proprio quel Baldassarre Cossa che aveva fatto arrestare e torturare i suoi due colleghi e che aveva assunto il nome di Giovanni XXIII, aprendo peraltro un caso destinato a durare più di cinquecento anni: a stabilire definitivamente che Cossa sia da considerare un antipapa e non un papa sarà infatti solo Angelo Roncalli quando nel 1958, prenderà il suo stesso nome.
Jan, da parte sua, aveva scelto la strada della disubbidienza, rifiutando di presentarsi a Roma per giustificare la propria posizione.
“Il defunto papa di cui non saprei dirvi se si trova in paradiso o all’inferno – aveva detto durante una predica alla Cappella di Betlemme – scriveva nelle sue pergamene contro gli scritti di Wyclif in cui vi sono pure molte cose buone. Io ho presentato appello e mi appellerò nuovamente”. “Io devo predicare – aveva aggiunto – anche se un giorno dovessi lasciare il paese o morire in carcere. Poiché i papi possono mentire ma il Signore non mente”.
Il 15 maggio 1411 l’arcivescovo lo aveva messo ufficialmente al bando, ma inutilmente: i fedeli avevano continuato a seguirlo; l’8 giugno era arrivato addirittura l’interdetto su Praga, altrettanto inutilmente; anche perché alla fine era intervenuto il re in persona in difesa di Hus, stabilendo che bando e interdetto dovessero essere rimessi e che il rettore non fosse tenuto a presentarsi a Roma.
“Diciassettesima accusa: Hus sostiene che i sacerdoti di Cristo che vivono secondo la sua legge, che hanno conoscenza delle Scritture e desiderio di edificare il popolo, devono predicare malgrado una pretesa scomunica. E poco oltre: se il papa o un altro prelato ordina a un sacerdote avente le suddette qualità di non predicare, l’inferiore non dovrebbe ubbidire. Diciannovesima accusa: Hus sostiene che servendosi delle censure ecclesiastiche di scomunica, sospensione o interdetto il clero assoggetta il popolo laico per innalzare se stesso, dà libero corso alla propria cupidigia di denaro, protegge la malvagità e prepara la via all’Anticristo. Ventesima accusa: Hus sostiene che se il papa è malvagio allora è un diavolo, come l’Apostolo Giuda, un ladro e un figlio di perdizione, e non è capo della santa chiesa militante”.
Intanto Giovanni XXIII aveva iniziato la raccolta dei fondi necessari alla guerra contro Gregorio XII mediante la vendita delle indulgenze.
Le proteste di Hus, che dichiarava che ogni guerra santa non possa corrispondere al messaggio evangelico, del suo discepolo Girolamo da Praga e di molti cittadini erano state represse; lo stesso Stefano Páleč, ora dottore in teologia dell’Università, aveva esortato il re a soffocare la protesta e tre giovani erano stati condannati e decapitati.
Nel luglio 1412, era arrivata puntale e ineluttabile la scomunica, l’ordine di arresto e la demolizione della Cappella di Betlemme; il rettore aveva perso anche l’appoggio del re e il cardinale Giovanni di Lisbona aveva portato a Praga l’atto di scomunica, che era stata ratificata dalla diocesi il 18 ottobre.
“Accusa ventiduesima: Hus sostiene che un papa o un prelato malvagio è un pastore solo in apparenza, in realtà è un ladro e un brigante. Accusa ventitreesima: Hus sostiene che il papa non deve farsi chiamare “santissimo” neppure limitatamente al suo ufficio, perché altrimenti anche un re dovrebbe esser chiamato santissimo secondo il suo ufficio e così pure il boia e l’araldo dovrebbero esser chiamati santi; in verità perfino il diavolo dovrebbe esser chiamato santo, essendo agli ordini di Dio”.
Come risposta alla scomunica – risposta preventiva, peraltro, perché attuata il 12 ottobre, quasi una settimana prima della notifica – Jan aveva esposto sul ponte di Praga, nei pressi del palazzo arcivescovile, un “Appello a Cristo”, rivolto da “Jan Hus da Husinec, maestro e baccelliere formato in teologia presso la illustre Università di Praga, sacerdote e predicatore titolare della Cappella detta di Betlemme a Gesù Cristo, giudice equo il quale conosce, protegge, giudica, rivela e corona immancabilmente la giusta causa di ognuno”.
Nell’appello Jan sosteneva la legittimità del suo ricorso “per l’ingiusta sentenza e la scomunica comminatami dai pontefici, scribi, farisei, e giudici insediatisi sulla cattedra di Mosè come il santo e grande patriarca di Costantinopoli Giovanni Crisostomo presentò ricorso alla sentenza di due Concili di vescovi e chierici e così come i vescovi, spero beati, Andrea di Praga e Roberto di Lincoln presentarono ricorso contro la sentenza del papa”.
Nella lettera Hus ricordava anche che a Roma non si era presentato perché “lungo la strada mi erano tese ovunque insidie e il pericolo corso da altri mi rese prudente”. Aveva inoltre menzionato il concordato raggiunto con l’arcivescovo di Praga Zbynek, secondo il quale “non era noto in tutto il regno di Boemia un solo eretico e nemmeno nella città di Praga e nel Margraviato di Moravia”.
Aveva poi argomentato sotto il profilo giuridico il suo rifiuto di presentarsi in giudizio: “Tutte le antiche leggi divine dell’Antico e del Nuovo Testamento, nonché le leggi canoniche dispongono che i giudici devono visitare i luoghi dove si dice che sia stato commesso un delitto ed ivi esaminare l’accusa fatta e devono rivolgersi a quelli che conoscono la condotta dell’accusato che non siano malevoli né gelosi verso di lui poiché l’incolpato o accusato deve avere sicuro e libero accesso al luogo di giustizia e il giudice, come i testimoni, non devono essere suoi nemici: è dunque evidente che non sussistevano queste condizioni per farmi comparire in giudizio”.
Intanto per iniziativa del re di Ungheria Sigismondo era stato convocato, il 30 ottobre 1413 un nuovo concilio, da tenersi a Costanza il primo novembre 1414: compito del Concilio era non solo eleggere un nuovo papa e ristabilire l’unità della Chiesa, ma anche combattere la corruzione ecclesiastica e porre fine alle dispute dottrinali, affrontando anche il caso Hus.
Jan era stato dunque invitato a raggiungere Costanza per partecipare al Concilio, con la garanzia dell’incolumità. Il teologo scomunicato, nella speranza di poter essere riabilitato da quell’agognato Concilio, era partito alla volta della città tedesca l’11 ottobre, e – dopo aver sostato a Norimberga, a Ulma e a Biberach – era arrivato a Costanza il 3 novembre.
“Accusa ventiseiesima: secondo Hus per il solo fatto che gli elettori o la maggioranza di essi abbia espresso a viva voce il proprio voto a favore di una data persona, secondo le consuetudini umane, tale persona non dev’essere considerata ipso facto legittimamente vero e manifesto successore e vicario dell’Apostolo Pietro”.
“Pensate alla papessa Giovanna – interrompe Jan – non fu eletta anch’essa legittimamente? Eppure era una donna!”. “Tacete, o vi faccio portare via! Accusa ventisettesima: secondo Hus non vi è un minimo barlume di evidenza nel fatto che vi debba essere un capo che regge la chiesa nelle questioni spirituali”. “È evidente – interviene ancora il maestro – dato che è risaputo che la chiesa è stata per lunghi periodi senza papa e così si trova tuttora dopo la condanna di Giovanni XXIII”.
Il 27 novembre Jan era stato invitato a un incontro amichevole dai cardinali Pierre d’Ailly e Ottone Colonna, prossimo papa Martino V, Guillaume Fillastre e Francesco Zabarella. Assai poco amichevole, l’incontro si era rivelato l’ennesimo tranello. Appena arrivato, infatti, Jan era stato subito arrestato e incarcerato.
Il Concilio era proseguito in un clima sempre più teso: il 20 marzo Giovanni XXIII, accusato di corruzione e dichiarato decaduto in quanto simoniaco, era fuggito da Costanza, mentre Gregorio XII si era dimesso spontaneamente; quanto al terzo papa, Benedetto XIII, sarà deposto il 26 luglio 1417 come scismatico ed eretico.
“Accusa ventottesima: secondo Hus Cristo, senza capi mostruosi come la papessa Giovanna e Giovanni XXIII e altri che furono eretici o per vari motivi dei criminali, reggerebbe molto meglio la sua chiesa mediante i suoi veri discepoli sparsi in tutto il mondo. Accusa ventinovesima: secondo Hus gli apostoli e i fedeli sacerdoti del Signore avevano coraggiosamente organizzato la chiesa nelle cose necessarie alla salvezza ben prima che fosse istituito l’ufficio papale e così farebbero se non vi fosse più un papa fino al giorno del giudizio”.
Un coro di risate accompagna la lettura. “Adesso fai anche profezie?” grida uno dei padri conciliari. “Al tempo degli apostoli la chiesa era governata infinitamente meglio di adesso – risponde Hus – che cosa impedisce a Cristo di reggerla meglio anche ora, senza quei capi mostruosi che ora abbiamo avuto, mediante suoi discepoli veri? Vedete! Ora non abbiamo nessun capo, eppure Cristo non cessa di reggere la sua chiesa!”.
Ad aprile era giunto a Costanza Girolamo da Praga, per ottenere da Sigismondo la liberazione del suo maestro, ma il Re aveva risposto con un mandato di cattura: Girolamo aveva tentato la fuga ma era stato arrestato alla frontiera bavarese: sarà mandato al rogo il 30 maggio 1416.
Il 18 maggio era stato intimato a Jan di ritrattare le sue affermazioni. Aveva ottenuto un’udienza pubblica il 5 giugno, nel corso della quale avrebbe potuto dimostrare l’ortodossia delle sue dottrine: all’udienza, però, gli era stato impedito di parlare. Poi era stato interrogato nuovamente dai cardinali Zabarella e d’Ailly, che gli avevano chiesto di ritrattare la sua tesi, secondo la quale un re, un papa o un vescovo che siano in peccato mortale decadono dalla loro carica, così come il dubbio sulla necessità di un capo visibile della Chiesa. Jan aveva risposto che dopo la deposizione di Giovanni XXIII la Chiesa continuava a essere retta da Cristo e aveva rifiutato di abiurare.
Il 18 giugno il Concilio di Costanza aveva redatto un elenco di 30 accuse contro Hus, proposizioni considerate eretiche tratte da tre sue opere: il “De ecclesia”, il “Contra Stephanum Palec” e il “Contra Stanislaum de Znoyma”, dandogli tempo due giorni per contestarle.
“Devi sapere che Páleč insinuò che non dovrei temere la vergogna dell’abiura, ma considerare invece il vantaggio che ne deriverebbe – aveva scritto dal carcere il 23 giugno ad un amico – e io gli risposi: è più vergognoso essere condannato e bruciato che abiurare. In che modo potrei temere la vergogna? Ma dimmi il tuo parere: che cosa faresti tu se fossi certo di non essere incorso negli errori che ti sono imputati? Abiureresti? E lui rispose: ‘È difficile’. E si mise a piangere”.
Il 5 luglio aveva scritto agli amici boemi: “Se mi dessero carta e penna, con l’aiuto di Dio, risponderei anche per iscritto: Io, Jan Hus, servo di Gesù Cristo in speranza, non intendo dichiarare che ogni articolo ricavato dai miei scritti sia errato, per non condannare i detti delle sacre Scritture e specialmente di Agostino”.
“Accusa trentesima: secondo Hus nessuno è signore in campo secolare, nessuno è prelato, nessuno è vescovo fintantoché sia in peccato mortale”.
“Si leggano ora i capi d’accusa estratti dalle dichiarazioni rilasciate dai testimoni ascoltati al processo” dice il presidente dell’assemblea.
“Primo capo d’accusa: secondo cui dopo la consacrazione dell’ostia sull’altare permane il pane materiale o la sostanza del pane. E il prete in peccato mortale non può operare la transustanziazione, né consacrare, né battezzare”.
“Non ho mai sostenuto, insegnato o predicato – grida Jan – che nel sacramento dell’altare, dopo la consacrazione, permanga il pane materiale”.
“Hus sostiene inoltre che la condanna dei 45 articoli di John Wyclif pronunciata dai dottori è assurda e iniqua; errato è il presupposto su cui si fonda. Tale presupposto è che nessuno di tali articoli sia cattolico, ma che ognuno di essi sia eretico”.
“Non è vero neanche questo: io ho sostenuto che solo 5 delle 45 proposizioni di Wyclif condannate dal Concilio fossero ortodosse”.
“Secondo quanto testimoniato in una deposizione, Hus ha affermato di essere, lui, la quarta persona della Deità”.
“Non è vero: nominate dunque il dottore che ha deposto contro di me!”.
“Non c’è alcun bisogno di nominarlo, qui e ora. Noi ti condanniamo anche per il tuo appello rivolto a Cristo e per aver continuato a predicare pur essendo scomunicato”.
Si alza dunque il vescovo di Concordia: “Per tutto questo noi ti condanniamo a bruciare sul rogo, unitamente a tutti i tuoi scritti”.
Il trailer del film per la tv Jan Hus (2015) del regista Svoboda, una delle produzioni più costose della storia della televisione ceca
Jan Hus è in ginocchio, con gli occhi levati al cielo: “Signore Gesù Cristo, io t’imploro, perdona tutti i miei nemici per amore del tuo nome. Tu sai che essi mi hanno accusato falsamente, che hanno prodotto falsi testimoni, che hanno orchestrato falsi capi d’accusa contro di me. Perdonali, per la tua sconfinata misericordia”.
Jan viene poi rivestito dei paramenti sacri e gli viene consegnato un calice.
Viene invitato, per l’ultima volta, ad abiurare. Per l’ultima volta Jan Hus rifiuta. Poi scende dal palco.
I vescovi si avvicinano e cominciano a spogliarlo pronunciando anatemi. Uno gli toglie di mano il calice: “O Giuda maledetto – dice solennemente – perché hai abbandonato la via della pace e hai calcato i sentieri dei giudei, noi ti togliamo questa coppa della redenzione”.
“Io accolgo – risponde Jan – questa umiliazione con animo mansueto e lieto per il nome del nostro Signor Gesù Cristo”.
Poi gli viene posta sulla testa una corona di carta tonda, con tre diavoli dipinti e la scritta: “Questi è un eresiarca”.
A questo punto il re dice al duca Lodovico, figlio del defunto Clemente di Bavaria, che gli sta di fronte tenendo in mano il globo con la croce: “Va’, prendilo in consegna!”.
Il duca prende in custodia Jan e lo affida, a sua volta, agli aguzzini.
Il corteo esce dalla Chiesa e passa davanti al cimitero, dove i suoi libri stanno bruciando. Una grande, commossa folla segue il corteo. Jan sorride: “Non crediate – dice – che io vada a morire per gli errori che gli mi sono stati falsamente attribuiti e appoggiati dalla falsa testimonianza dei miei peggiori avversari”.
Il gruppo arriva su un prato circondato da giardini, luogo del supplizio.
Jan si inginocchia ancora e si immerge in preghiera. La corona con i tre demoni gli cade dalla testa; quando se ne accorge, il maestro sorride.
“Rimettetegliela su – dice uno dei soldati – che sia bruciato coi demoni suoi signori che ha servito in terra”.
Denudato, con le mani legate dietro la schiena, il maestro boemo viene legato a un palo con funi e una catena intorno al collo.
“Oggi voi bruciate un’oca – grida – ma dalle sue ceneri sorgerà un cigno!”.
Sotto i piedi gli mettono due grandi fascine di legna mista a paglia e altre intorno al corpo fino al mento. Gli viene chiesto ancora una volta di abiurare. Jan leva gli occhi al cielo e grida: “Dio m’è testimone che mai insegnai le cose che mi sono falsamente attribuite e di cui falsi testimoni mi accusano. Egli sa che l’intenzione dominante della mia predicazione e di tutti i miei atti e dei miei scritti era solo tesa a strappare gli uomini dal peccato. E oggi sono pronto a morire lietamente”.
Il rogo si accende, e Jan comincia a cantare un inno sacro. Quando ha finito parte con un altro. Ma appena comincia a cantare il terzo inno una folata di vento gli copre il volto di fiamme; sembra balbettare giusto il tempo sufficiente a recitare due o tre volte il Padre nostro. E così, pregando nell’intimo, muovendo appena le labbra e scuotendo il capo, Jan Hus rende l’anima.
Quando la legna si è consumata tutta, il corpo carbonizzato di mastro Hus appare ancora incatenato al palo, appeso per il collo. Allora i boia tirarono giù le membra abbrustolite e il palo, chiedono un altro carico di legna e la gettano nel fuoco, insieme ai resti del teologo: spezzano le ossa a bastonate per farle bruciare più velocemente. Poi trovano la testa, ancora intatta. Si scagliano contro di essa con i randelli fino a farla a pezzi, e gettano anch’essa nel fuoco. Cercano tra le interiora il cuore, lo trovano; prendono un bastone, lo appuntiscono come uno spiedo e ci infilzano il cuore, poi lo passano sul fuoco. Come una bistecca da servire ben cotta, punzecchiano il cuore con le lance per farlo arrostire bene. Per farlo consumare, fino a che non è diventato completamente cenere.
Non deve restare niente, di Jan Hus. Nemmeno una scarpa, che possa diventare una reliquia. Anche tutti i vestiti vengono bruciati, e le scarpe ovviamente. Quando del più pericoloso eretico degli ultimi cinquecento anni – quando del condannato che più di ogni altro ha condiviso il processo, la tortura, la salita al calvario e il supplizio di Cristo e che più di ogni altro ha seguito il suo esempio di amore e di perdono – non è rimasta che cenere, tutta quella ancora pericolosa polvere viene caricata su un carro e gettata nel Reno.
Perché questa volta no, questa volta non deve risorgere.
Nessun cigno deve nascere da quelle ceneri.
Eppure proprio un cigno diventerà – appena un secolo dopo – il simbolo di Martin Lutero. E questa volta, non ci sarà modo di fermare la rivoluzione. E la ricerca della verità oltre i dogmi: “Perciò, fedele cristiano, cerca la verità, ascolta la verità, apprendi la verità, ama la verità, di’ la verità, attieniti alla verità, difendi la verità fino alla morte: perché la verità ti farà libero”.
Arnaldo Casali
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