“Nelle diverse parti del mondo, Francesco splendeva di miracoli e accorrevano da ogni dove al suo corpo santo quelli che, per i meriti di lui, avevano goduto grandi e straordinari benefici del Signore”.
È il 16 luglio 1228 e sono passati appena un anno, nove mesi e sette giorni dalla morte del santo più celebre del mondo.
Santo, sì, santo subito; santo da un pezzo. Da una quindicina di anni, almeno. Nell’arco di poche stagioni il matto di Assisi, quel giovane di belle speranze con un passato da mercante e un futuro da cavaliere, che di punto in bianco si era trasformato in un vagabondo e s’era messo a vivere in mezzo ai lebbrosi, quella specie di buffone mistico senza tonaca né regola, che si ostinava a vivere da pezzente, senza un tetto sopra la testa e fuori da ogni ordine riconosciuto dalla Chiesa, proprio lui – Dio solo sa come – era diventato il personaggio più famoso della cristianità. Nell’arco di poche stagioni la gente che fino a poco prima lo prendeva a sassate o rideva di lui si era messa a baciargli le mani, a strappargli pezzi di tonaca da conservare come reliquia.
Prima un amico – Bernardo da Quintavalle – lo aveva seguito e si era messo a vivere con lui. Poi un altro amico. Poi un altro tizio ancora, che lo conosceva appena di vista. Poi uno che non l’aveva mai visto prima, e poi decine e poi centinaia e poi migliaia di uomini e donne di ogni età e classe sociale erano accorsi ad Assisi per far parte della sua fraternità. Che poi per forza di cose alla fine era diventata un vero e proprio ordine religioso, e che ordine! Il più celebre, il più potente, il più importante della Chiesa. Era arrivato addirittura in Egitto per far la pace con il Sultano, Francesco da Assisi. Aveva predicato ovunque e mandato i suoi frati in giro per l’Europa.
I miracoli, poi, si sprecavano: si raccontava che avesse tramutato l’acqua in vino, fatto risorgere ragazzini morti, parlato con gli animali, curato ogni sorta di malattia, che fosse persino apparso in sogno al Papa.
Negli ultimi giorni di vita Francesco aveva dovuto vivere sotto scorta, perché gli assisani erano terrorizzati all’idea che morendo lontano dalla sua patria, durante uno dei suoi numerosi viaggi, il cadavere potesse essere trattenuto in terra straniera. Francesco era di Assisi e il suo corpo – vivo o morto – apparteneva alla città.
Così, quando aveva avuto l’ultima crisi a Siena, era stato portato in tutta fretta alla Porziuncola. E qui, ascoltando il suo Cantico e degustando i dolci di frate Jacopa, nudo sulla nuda terra, aveva reso l’anima, la sera del 3 ottobre 1226.
Francesco aveva scelto la Porziuncola come casa sua e dei suoi frati e qui aveva voluto che fosse sepolto il suo amico Pietro Cattani, primo vicario dell’ordine – scelto dal fondatore quando aveva deciso di rinunciare ad ogni forma di potere – e che era rimasto schiacciato dal peso di quella responsabilità di cui lo stesso Poverello non era riuscito a farsi carico.
L’idea di seppellire lì anche Francesco, però, non era stata presa in considerazione nemmeno per un momento: Santa Maria degli Angeli si trovava in piena campagna, ed era troppo rischioso conservare i resti del santo al di fuori della mura della città, dove facilmente sarebbero stati preda dei tombaroli.
Così il corpo di Francesco – dopo aver sostato a San Damiano per consentire a Chiara un ultimo saluto – aveva trovato posto in pieno centro cittadino, all’interno della chiesetta di San Giorgio che lo stesso Francesco aveva restaurato dopo San Damiano e la Porziuncola.
Intanto, annunciandone al mondo la morte, frate Elia – nuovo vicario dell’Ordine – aveva anche spiegato di aver trovato sul suo cadavere i segni della passione di Cristo, e frate Leone – segretario e confessore di Francesco – aveva confermato che l’amico e maestro aveva ricevuto quelle stimmate due anni prima, durante un’estasi sul monte della Verna, e le aveva tenute nascoste per tutto quel tempo.
Quell’ultimo e incredibile miracolo aveva accresciuto ancora di più la venerazione per il Poverello, che aveva finito per essere considerato un vero e proprio “Altro Cristo”.
“Persone d’entrambi i sessi, dopo la sua morte e per la sua intercessione, fecero ritorno al Signore – racconta ancora la Leggenda dei tre compagni, attribuita tradizionalmente ed erroneamente a Leone, Rufino e Angelo (a causa di una lettera a loro firma tramandata insieme al manoscritto) – numerosi personaggi della nobiltà con i loro figli indossarono il saio francescano mentre le spose e le figlie entravano nei monasteri delle Povere Donne”.
“Così pure parecchi uomini della cultura e celebri letterati, – continua la biografia, opera in realtà, di laici assisani – sia del laicato che del clero, rinunciando al fascino dei piaceri, al peccato e alle cupidità mondane, entrarono a loro volta nell’Ordine, impegnandosi a seguire, ognuno secondo la particolare grazia ricevuta da Dio, la povertà e gli esempi di Cristo e del suo servo Francesco”.
“A questo Santo si può ben a ragione applicare quanto fu detto di Sansone – chiosa la Leggenda – che furono molti più i nemici ch’egli uccise morendo, di quelli che aveva ucciso vivendo”.
Non c’era dunque nient’altro da fare, per la Chiesa, che formalizzare quello che il popolo aveva deciso già da un bel pezzo.
D’altra parte, appena un anno dopo la morte del nostro, era stato eletto papa – con il nome di Gregorio IX – Ugolino dei Conti di Segni, il cardinale più vicino a Francesco e, soprattutto, all’ordine francescano.
Vescovo di Ostia, Ugolino era stato scelto da Onorio III come protettore dell’Ordine, e si era adoperato a lungo perché Francesco “mettesse in regola” – in ogni senso – la sua confraternita, con una regola, appunto, che lo stesso cardinale aveva supervisionato e che il papa aveva approvato.
Eletto pontefice nel 1227, Gregorio aveva rivendicato la sua amicizia con Francesco anche per stroncarne spietatamente le ultime volontà: di fronte alla severità mostrata dal fondatore nel suo Testamento, infatti, una delegazione dell’ordine guidata da frate Elia e di cui faceva parte anche Antonio di Padova, si era recata dal papa per sapere se gli ordini contenuti nel Testamento – giudicati troppo duri dai frati – fossero vincolanti o meno; e Gregorio li aveva rassicurati, sostenendo che dal momento in cui il santo aveva redatto le sue ultime volontà dopo essersi dimesso formalmente dalla guida della congregazione, non aveva alcun diritto di impartire ordini e quindi, i frati potevano infischiarsene beatamente di quello che il santo aveva “comandato fermamente per obbedienza”.
L’ordine non aveva più bisogno di una guida spirituale, di un testimone del Vangelo, di una coscienza critica e sempre vigile che lo aiutasse a restare fedele a sé stesso: aveva bisogno invece di un santo fondatore che lo legittimasse definitivamente e ne accrescesse il prestigio e il potere.
Così, “il signor papa Gregorio – racconta Tommaso da Celano nella sua Seconda vita – trovandosi a Perugia con tutti i cardinali e altri prelati, cominciò a trattare la sua canonizzazione. Tutti furono concordi e si dissero favorevoli. Lessero e approvarono i miracoli, che il Signore aveva operato per mezzo del suo servo, ed esaltarono con le più alte lodi la santità della sua vita”.
Non deve fare troppa strada, il pontefice, per arrivare ad Assisi: è già da qualche anno, infatti, che Perugia – roccaforte guelfa – è diventata di fatto una delle sedi pontificie, ma anche acerrima nemica della ghibellina Assisi.
Lo stesso Francesco aveva avuto un pessimo rapporto con Perugia: se in gioventù ci aveva passato oltre un anno come prigioniero di guerra, anche da celebrità aveva dovuto affrontare i pregiudizi subiti in quanto assisano.
Ad ogni modo, per la solenne cerimonia arrivano ad Assisi non solo decine di dignitari ecclesiastici, ma anche una folta rappresentanza di principi e baroni, oltre che “una moltitudine innumerevole di popolo confluito da diverse località, e che il Papa aveva convocato”.
Il 16 luglio, dunque, il papa si reca da Perugia ad Assisi seguito da tutto lo stuolo dei prelati e una gran folla.
“Quando tutti si trovarono nel luogo preparato per una circostanza così solenne – racconta Tommaso – da principio papa Gregorio parlò al popolo ed annunziò con affetto dolcissimo le meraviglie del Signore. Poi, con un nobilissimo discorso, tessé le lodi del padre san Francesco, versando lacrime di commozione mentre esponeva la purezza della sua vita”.
Una vita già chiusa in una biografia ufficiale che Gregorio ha chiesto di scrivere a tempo di record a Tommaso da Celano, ex capo dei francescani in Germania; il libro susciterà però molte polemiche in città: seguendo il mandato di Ugolino, infatti, il frate scrittore (autore – tra l’altro – del celebre inno funebre Dies Irae) si è preoccupato più di scrivere un’agiografia di stampo classico – ricalcando la figura di Francesco su quella dei santi più celebri – piuttosto che restare fedele alla verità storica. La cosa non è andata proprio giù a chi Francesco l’ha conosciuto bene, e tanto meno alla sua famiglia che nel libro di Tommaso ci fa una pessima figura. Così, vent’anni dopo, lo scrittore sarà costretto a scrivere una seconda vita del santo, riveduta e corretta e composta utilizzando – questa volta – testimonianze di prima mano.
Finito il suo discorso, papa Gregorio alza le mani al cielo e con voce sonora proclama ufficialmente santo Francesco d’Assisi, stabilendo che la sua festa venga celebrata il 4 ottobre: il frate era morto infatti il 3 ma dopo i vespri (e il giorno medievale comincia la sera, non a mezzanotte).
“Ecco, beato padre, abbiamo tentato nella nostra semplicità di lodare, come meglio ci è stato possibile, le tue mirabili azioni e di esporre a tua gloria almeno alcuni aspetti delle innumerevoli virtù della tua santità. Siamo convinti che le nostre parole hanno tolto molto splendore alla tua grandezza, perché non sono in grado di esprimere i prodigi di tanta perfezione” scrive Tommaso.
“Tu ormai ti nutri col fiore di frumento, di cui eri affamato; ora ti disseti al torrente delle delizie, di cui prima eri assetato. Ma non crediamo che l’abbondanza della casa di Dio ti abbia così inebriato, da farti dimenticare i tuoi figli perché anche Colui che ti disseta si ricorda di noi”.
Al termine della solenne celebrazione lo stesso Gregorio pone la prima pietra della maestosa basilica dedicata al santo e che sarà edificata sul “Colle dell’inferno”, dove un tempo si svolgevano le esecuzioni dei condannati a morte, e che d’ora in avanti sarà detto “Colle del Paradiso”.
La prima parte della chiesa – la cosiddetta Basilica inferiore – sarà ultimata anch’essa a tempo di record, in appena due anni, tra l’eccitazione di frate Elia e il disappunto dei compagni di Francesco, che conoscendo bene la contrarietà assoluta del santo nei confronti di un progetto simile (anni prima si era messo a demolire personalmente un convento in costruzione a Santa Maria degli Angeli) si opporranno energicamente, tanto che Bernardo da Quintavalle arriverà a distruggere l’urna in cui si raccolgono le offerte.
Ma i problemi saranno ancora più gravi al momento della traslazione del corpo del santo dalla chiesetta di San Giorgio alla sua dimora definitiva, con l’esplosione di veri e propri tafferugli tra i frati e i cittadini di Assisi.
La cerimonia avverrà meno di due anni dopo, il 25 maggio 1230, vigilia di Pentecoste, quando dopo “magnifici preparativi”, la cassa con le ossa del santo sarà levata da terra tra lo squillo di trombe e deposta su un carro “riccamente ornato con una mirabile varietà” racconta padre Candide Chalippe Recolletto in Vita del serafico patriarca san Francesco di Assisi, pubblicata in Francia intorno al 1600.
“Ma per cagione del gran peso convenne farlo tirare ai buoi, che di scarlatto furono ricoperti”. “Il ministro generale e alcuni dei padri dell’ordine de’ più riguardevoli – prosegue Recolletto – erano stati nominati dal papa suoi commissari e vicari apostolici per la solennità, ma non fu loro possibile far l’ufficio loro. Imperocché i Principali di Assisi, che avevano fatto mettere all’armi molta gente, si impossessarono per forza del santo corpo”.
I rappresentanti del Comune, dopo aver agguantato la bara facendo uso di violenza, non permetteranno a nessuno di toccarla temendo che venga sottratta qualche reliquia.
Giunti alla chiesa nuova, impediranno alla gente di vedere i resti del santo. “Ebbero l’ardire di prenderlo tumultuosamente, cosicché il sacro deposito fu toccato dalle profane lor mani e collocato nel suo proprio sito”.
Nella confusione generata, a nessun religioso sarà permesso di rendere omaggio al corpo di Francesco. Ma lo stesso frate Elia sarà sospettato di aver organizzato tutta l’operazione per impedire, ancora una volta per ragioni di sicurezza, che si sapesse dove si trovi – esattamente – la tomba e l’ingresso ai sotterranei per raggiungerla, con l’obiettivo di scongiurare una eventuale profanazione.
D’altra parte il contemporaneo Marco da Lisbona, nella sua Cronaca della Traslazione, pur tacendo riguardo alla rissa confermerà come Elia “direttore della Sacra funzione, fatto segretamente trasferire il corpo del santo in luogo non a tutti noto, ma a pochi amici suoi, ed essendo seguito molto rammarico tra i frati che si erano congregati più per vedere il detto corpo che per fare il capitolo generale, a tutti frate Elia con poche e sagge parole soddisfece”.
Venuto a sapere dei tumulti, il pontefice, furibondo, lancerà sul popolo di Assisi l’interdetto e una pesante invettiva in cui li paragona ad Oza, che Dio punì con la morte per aver osato toccare l’Arca dell’Alleanza. Convocherà poi a Roma i rappresentanti del Comune autorizzando il Vescovo a scomunicarli in caso di disobbedienza.
Avuta soddisfazione ed essendosi sincerato “dell’operato e del fine degli assisani” Gregorio accorderà immediatamente il perdono alla città e cinque anni dopo – nel 1235 – tornerà lui stesso per consacrare la nuova basilica, che ricoprirà di privilegi e di ricchi arredi: su tutti una croce d’oro, scintillante di pietre preziose con incastonata una reliquia del legno della croce di Cristo, oltre a suppellettili liturgiche, altri oggetti utili al servizio dell’altare e molti preziosi e splendidi paramenti sacri.
La basilica sarà inoltre esentata dalla giurisdizione del vescovo di Assisi e sottoposta direttamente al Papa. Un privilegio di cui la chiesa madre del francescanesimo e il convento annesso godranno ininterrottamente per 775 anni: a revocarlo, infatti, sarà papa Benedetto XVI con un motu proprio del 9 novembre 2005 con cui la basilica e il convento saranno posti – per la prima volta – sotto l’autorità del vescovo diocesano.
Quei tumulti del 1230, pur se rimossi dalla cronaca ufficiale, lasceranno però il loro segno nei secoli. La tomba del santo rimarrà infatti ignota e misteriosa per 600 anni creando anche una feroce polemica tra i frati conventuali e i frati osservanti, i “ribelli” che troveranno sede proprio alla Porziuncola e che arriveranno a negare che il corpo del santo sia davvero custodito nella Basilica di Assisi. Una lotta senza esclusione di colpi e destinata a passare anche attraverso commedie teatrali satiriche, e che vedrà come principali contendenti il frate conventuale padre Baldassarre Lombardi e l’osservante padre Flaminio Annibali, che nel 1779 darà alle stampe il volume Quanto incerto sia che il corpo del serafico S. Francesco esista in Assisi.
D’altra parte anche chi dava per scontato che la basilica voluta da Gregorio ed Elia contenesse le reliquie doveva ammettere che “la situazione presente del corpo forma difficoltà, intorno alle quali non si può parlar chiaro”.
“Nessuno sa infatti né come né dove il corpo è depositato” scrive padre Recolletto nel suo volume, tradotto in italiano più di un secolo dopo. Nessun frate potrà dire di aver visto la tomba, e se la leggenda parlerà di un corpo conservatosi integro, in piedi e con gli occhi aperti, con le piaghe “fresche e vermiglie”, sotto il pontificato di Clemente XI (1700-1721) il frate francescano e vescovo di Assisi Ottavio sosterrà, al contrario, che il corpo “si trova in cenere ed ossa sotto l’altare della basilica maggiore e non esiste alcun sotterraneo”, ricevendo per questo il rimprovero del papa e la proibizione ad affrontare ancora l’argomento.
Da parte sua, Pio V (1566-1572) ordinerà segretamente degli scavi sotto la basilica, senza riuscire però ad individuare né la cripta né la tomba.
Ci riproverà Pio VII nel 1818, e questa volta – dopo ben 52 notti di scavi segreti nei sotterranei – la tomba tornerà finalmente alla luce per essere autenticata definitivamente dal papa il 5 settembre 1820.
Insieme alle ossa, i vescovi dell’Umbria, i periti laici e i notai troveranno anche la traccia di quei tafferugli: lo scheletro, infatti, non si presenterà integro ma con le ossa tutte sparse, “centrifugate” dai movimenti bruschi a cui la cassa era stata sottoposta durante quella violenta e imbarazzante traslazione di cui le cronache avevano cercato di cancellare, inutilmente, la memoria.
Arnaldo Casali