In Inghilterra il revival medievale e cavalleresco, che ebbe la sua gestazione tra le pagine scritte di protoromantici e romantici, cominciò, a partire dall’ascesa della regina Vittoria (1837), a tracimare anche nello spazio sociale.
Da quel momento in poi si iniziò a guardare al Medioevo con nuovi occhi. Per sostanziarsi di antichità e rilanciare la propria immagine, la nuova dinastia, d’origine tedesca, attinse a un immaginario e una retorica che riconducevano all’Inghilterra medievale.
Il presente era collegato a un mitico passato medievale, in cui erano esasperati gli ideali cavallereschi e la continuità dinastica degli Hannover – la casa reale della regina Vittoria – con i Plantageneti che grande avevano reso il regno nei secoli di mezzo.
È il Return to Camelot per citare il bello e fondamentale libro – per quanti vogliano approfondire il medievalismi e i revival cavallereschi – di Mark Girouard.
Pensiamo al famoso Torneo di Eglinton nel 1839 che, anche se ampiamente parodiato, rimase nella memoria popolare come l’incarnazione vivente del genere di cose che Walter Scott in precedenza aveva portato in vita tra le pagine dei suoi romanzi; o al Bal Costumé, la grande festa di gala “medievale” voluta dalla regina Vittoria all’indomani del matrimonio con il principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha – il novello re Artù – e che per l’occasione vide la coppia reale nei i panni rispettivamente della regina Filippa e di Edoardo III (come poi furono poi immortalati in un dipinto di Sir Edwin Landseer).
Anche le arti figurative, in particolare la pittura, sembrano ossessionate dalle figure medievaleggianti di Artù, sir Galahad, La Belle Dame sans Merci o, più in generale, dal tema del cavaliere errante.
Entro la fine del decennio 1840 i Preraffaelliti scopriranno (o forse non è meglio dire inventeranno?) il Medioevo.
I cavalieri, ritratti da Mclise e Dyce, Rossetti & Co. spopoleranno non solo tra gli aristocratici ma anche tra una borghesia in rapida ascesa e desiderosa si affermazione, preda di un’irresistibile medieval fever.
Sempre in quella tornata di anni, il partito tory, quello dei conservatori, muovendo da un medievalismo tutto ideali cavallereschi di ascendenza “scottiana”, iniziò a cercare soluzioni nel Medioevo per far fronte a una sempre più crescente preoccupazione per la “condition of England”.
È il caso di Thomas Carlyle che in Past and Present (1843) contrappone ai mali della sua epoca l’armoniosa vita di un’abbazia, auspicando il ritorno a un eroico Medioevo in grado di contrastare l’inesorabile avanzata del mondo industriale, della borghesia, e dei disordini legati alle istanze operaie; o di Benjamin Disraeli che, col movimento della “Young England” (1842), guarda al passato dell’età di mezzo proponendo soluzioni neo-feudali alla crisi del presente.
Anche il mondo religioso e spirituale non rimase insensibile al canto delle sirene neomedievali. Negli stessi anni il Movimento di Oxford – fondato da quello che sarà poi il cardinale Newman – riproponeva atmosfere monastiche, insieme al recupero del ritualismo e del simbolismo religioso nell’ambito del revival anglo-cattolico e dell’High Church.
In letteratura Alfred Tennyson rielaborò motivi arturiani in The Lady of Shalott (1832-42) e Idylls of the King (1859-88) mentre la scoperta di importanti manoscritti, gli studi pionieristici sulla filologia e il folklore nordici, emanciparono la cultura “germanica” dalla tradizione classica che riscoprì – per citare Tommaso di Carpegna – le sue radici nel “Medioevo del Grande Nord”.
L’architettonico gothic revival, si diffondeva nelle campagne e nelle città inglesi, grazie al successo di uno stile sancito dalla ricostruzione e decorazione, ad opera degli architetti Barry e Pugin, in forme neo-gotiche, del palazzo di Westminster dopo l’incendio del 1834 – esempio monumentale, vistosissimo, della connessione fra monarchia e medievalismo.
Il gotico vincitore della “Battaglia degli Stili” come “stile nazionale”, esprimeva la superiorità morale, protestante e libera, dello spirito inglese.
Una vittoria segnata dal successo delle opere del critico d’arte John Ruskin: The Seven Lamps of Architecture (1849) e The Stones of Venice (1851).
Qui la lezione del gotico diviene ispirazione per una severa denuncia contro l’asservimento mutilante dell’operaio all’industria. Il gotico – per Ruskin stile umano, popolare, semplice, fantasioso, libero, selvaggio – rappresenta un atto d’accusa contro l’inumano degrado provocato dalla civiltà industriale e da una modernità che sembrava divorare inesorabilmente la “Marry England”.
La cattedrale medievale si profila allora come un monumento alla libertà.
Modello insieme etico ed estetico, essa era espressione del lavoro collettivo degli antichi, liberi, operai e di una società cooperativa, armoniosa, più equa e giusta.
In questa nostalgica apologia di un Medioevo totalmente idealizzato – perfetta età perduta in cui bellezza e crescita umana marciavano insieme – si rintracciavano i mezzi per la costruzione di una nuova società fondata sul rispetto dell’uomo e del suo lavoro.
Un sogno che porta Ruskin addirittura a prosciugare averi e salute mentale nella creazione di una gilda, in cui san Giorgio stesso – santo patrono britannico e massimo esempio di cavalleria – venne arruolato a combattere il drago dell’industrialismo.
La St. George Guild non era che un’utopica comunità organizzata secondo una rigida, quanto artificiosa, piramide feudale, con un legame tra gli appartenenti e il capo della gilda, paragonato a quello che univa un vassallo al proprio dominus.
Gli appartenenti erano tenuti a donare un decimo dei loro beni alla comunità al momento dell’ingresso e i terreni acquistati sarebbero stati coltivati rigorosamente senza l’ausilio di macchinari. “Un monastero mondiale contro il male di questi giorni” retto, secondo le fantasticherie del suo fondatore, dall’uso delle antiche leggi anglosassoni, integrate a quelle fiorentine del Trecento.
Gli artigiani sarebbero stati divisi in arti e organizzati secondo rigidi principi gerarchici e la valuta di puro oro o argento, coniata sul modello di fiorini e ducati, avrebbe recato impresse le effigi di san Giorgio e san Michele. Sarebbe stato un luogo idilliaco, la “Merry England” risorta.
Nonostante l’esito tragicomico – nella realizzazione pratica la gilda si affossò tra mille debiti, pochi tetri acri nello Yorkshire e a qualche minuto di giardinaggio – l’impresa di Ruskin, rappresenta la traduzione più concreta del medievalismo vittoriano, e anticiperà il movimento – questo sì egemonico e di portata europea – “Arts and Crafts”.
Una tale prospettiva trovò infatti terreno fertile tra i socialisti, come il preraffaellita William Morris, che fece delle idee del conservatore Ruskin, e del suo gotico, un manifesto politico.
Con Morris, forse il preraffaellita che maggiormente lasciò il segno, il sogno romantico medievale si trasformò in una realizzabile utopia che univa diritti operai ed estetica medievale.
Vi è un’ambiguità di fondo, quasi inestricabile, nel medievalismo vittoriano.
Potrà sembrare assurdo, un po’ paradossale, ma, riflettendoci sopra, il medievalismo vittoriano risulterà antitradizionalista nella misura in cui la riproposta di un ritorno al passato – che ad un’analisi superficiale può apparire come qualcosa di reazionario – rappresenta una rottura che tende a modificare una situazione di fatto, che rifiuta principi d’autorità dati per assoluti e la cultura mainstream (come ben testimonia la vicenda preraffaellita, nient’altro che una rivolta ai rigidi stilemi dell’Accademia).
Il revival medievale vittoriano di Ruskin, Pugin, Disraeli, Newman, Rossetti, Morris non era allora un semplice vagheggiare romantico, come quello dei molti dei loro, illustri, romantici predecessori, che amavano il Medioevo come qualcosa di remoto, senza alcuna connessione con la loro vita quotidiana.
Essi consideravano la vita, la società medievale, come l’unica via realmente praticabile, esperibile, per una riforma della società.
In questo senso medievalismo e romanticismo non andarono più a coincidere quando il primo accolse la dimensione utopica di attualizzare e rivivere il passato.
Ciò è evidente ad esempio in Ruskin che accusava Walter Scott – rappresentante di quel medievalismo ancora di “carta” – di sciupare “quasi metà della sua potenza intellettuale sognando il passato con passione, ma senza scopo”, dedicando i suoi sforzi letterari a rivivere il passato “non nella realtà, ma sul palcoscenico della finzione”.
La nostalgia per il “bei tempi andati”, per l’ “età dell’oro” e per la “Merry England”, non costituiva allora una semplice fuga che incoraggiava un passivo ritiro dalla realtà politica e sociale, ma un ideale, dotato di un potere reale e attivo.
Il medievalismo ottocentesco, complesso nelle sue origini e vario nelle sue manifestazioni, si profila quindi come soluzione ai “mali” della modernità come industrialismo ma anche utilitarismo e urbanizzazione.
Il Medioevo, in particolare il sistema feudale – veicolato principalmente attraverso il modello neocavalleresco – sembrava offrire un’immagine più armonica e stabile rispetto l’insicurezza religiosa e l’alienazione di una società industriale.
Lontano dal configurare un programma omogeneo e coerente, l’irretimento dei vittoriani per il Medioevo, diede luogo a visioni distanti e spesso contraddittorie.
Possiamo così parlare di un medievalismo di destra, autoritario, paternalistico, reazionario in Disraeli, Carlyle e Ruskin; di segno utopico e socialista in William Morris; di ispirazione cattolica in Pugin, Digby e Newman o anticattolico e filoanglicano in Charles Kingsley.
Come ben ha rilevato Alice Chandler, il sogno del Medioevo vittoriano, nelle sue diverse declinazioni e sfumature, si configura però sempre come “sogno d’ordine”, come tentativo di recuperare una dimensione armoniosa e più solidale della convivenza umana.
I secoli di mezzo diventano emblema di un ordine più alto al quale l’umanità può tornare a mirare rispetto ad un presente disorientato e in veloce trasformazione.
Gli effetti di questo medievalismo – in particolare quello del revival cavalleresco con tutto il suo apparato ideologico-pedagogico (ordine, obbedienza, dovere, sacrificio, fedeltà al sovrano e alla nazione), e immaginario (cavalleria, crociata, spiritualità monastica) – si rese tristemente utile nel fornire il necessario equipaggiamento ideologico per le generazioni mandate all’avventura coloniale prima e all’enorme massacro della Grande Guerra poi.
Fu proprio la Prima Guerra Mondiale la tomba del medievalismo dell’età vittoriana ed edoardiana.
È nei fangosi campi di battaglia dell’Europa, quelli di Verdun e della Somme, tra le ultime, disperate, cariche di cavalleria – contro poco cortesi nidi di trincee e carri armati che si consumò il naufragio del sogno medievale vittoriano.
Dopo l’esperienza dei brutali combattimenti in trincea, il medievalismo britannico gradualmente abbandonò il mondo reale – finendo di idealizzare la società britannica come una nuova Camelot – per rifugiarsi nel regno della fantasia.
È il 1917 quando un giovane accademico oxoniense, J. R. R. Tolkien, dopo aver sperimentato l’orrore la battaglia della Somme, scrive La Caduta di Gondolin, il primo racconto completo ambientato nella Terra di Mezzo: l’allucinata epopea di una città di una civiltà superiore schiantata da un esercito da incubo e difesa, disperatamente, da forze elfiche.
Il ventiquattrenne studioso di filologia, troverà rifugio nella scrittura e, esorcizzando i suoi traumi, evocherà un mondo neomedievale: la Terra di Mezzo.
Davide Iacono