La guerra necessita di un pretesto per iniziare. Di un’occasione, fornita da un evento credibile, che possa dimostrare la giusta reazione ad una provocazione. Politici e militari cercano un casus belli, una trappola che nasconda le reali condizioni che portano al conflitto e che permetta all’aggressore di non passare per tale.
Perché ogni scontro, alla fine, richiede una legittimazione da consegnare alla storia.
A volte l’evento scatenante può essere costituito dall’orgoglio nazionale ferito (la mela di Guglielmo Tell), da aneliti indipendentisti (l’attentato di Gavrilo Princip a Sarajevo) o da questioni dinastiche (i rapporti tra Carlo Magno e la vedova del fratello Carlomanno e il ripudio di Ermengarda), altre volte più semplicemente il motivo che innesca un conflitto lungo e sanguinoso ruota attorno ad una donna (Elena di Sparta o Didone abbandonata), al possesso di terre e fiumi in epoche in cui i confini erano labili e imprecisi (il lupo e l’agnello), oppure ad antiche rivalità familiari (guelfi e ghibellini) o a questioni religiose. Finanche al “rapimento” di un secchio che si trasforma in un affronto da lavare nel sangue.
Il casus belli ha una tradizione più che millenaria e pur essendo finzione, rientra appieno nella prassi, nel diritto e nella politica internazionale.
L’aggressore ricerca sempre un motivo valido, anche se fasullo o al massimo verosimile, con un pizzico di realismo e, sicuramente, ben architettato, per potersi mettere dalla parte del de iusto bello, per dirla con sant’Agostino, e al riparo da qualsiasi critica. È il filosofo Ugo Grozio che, invece, sottolinea l’efficacia, sul piano psicologico, della consapevolezza di agire secondo iusta causa, ricordando anche che il vincitore, pur non essendo in possesso di una motivazione giusta e valida, alla fine si tiene il bottino e scrive la storia.
Il casus belli, quindi, che sia una provocazione, un dissidio o un evento creato ad arte, oppure un fatto leggendario che si tramanda da secoli o ancora un evento isolato che viene preso come offesa da lavare nel sangue, nasconde sempre delle motivazioni politiche, economiche o sociali che da sole non basterebbero a provocare una guerra.
Se la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, la storia è piena di episodi di conflitti sorti alla morte di re senza eredi, di regine in balìa di vassalli ingombranti, di contrasti dinastici tra fratelli o per questioni religiose.
Giustiniano e Amalasunta La guerra, nel passato più che oggi, era vista come l’unico modo per assicurarsi il potere. Giustiniano, l’imperatore del Codex, colse al volo l’occasione fornitagli dal triste destino di Amalasunta, erede di Teodorico re degli Ostrogoti, per intraprende la breve e effimera riconquista dell’Italia da parte bizantina. Il casus belli fu offerto all’imperatore d’Oriente dal rapimento e dall’uccisione della donna, tenuta prigioniera fino al 30 aprile del 535 nell’isola Martana del lago di Bolsena. L’episodio è ricordato da Procopio di Cesarea ne “La guerra gotica”: «V’ha un lago in Toscana, chiamato Vulsinio, dentro a cui sorge un’isola assai piccola invero, ma munita di un forte castello. Colà Teodato teneva racchiusa Amalasunta». La donna, dopo la morte del figlio Atalarico, designato da Teodorico quale erede, aveva sposato e associato al governo il cugino Teodato; ma il cugino avendo intenzione di governare da solo, aveva architettato di disfarsi della donna. Sicuramente sul destino di Amalasunta pesarono anche i provvedimenti favorevoli ai romani e che i goti non accettavano. Giustiniano, memore di diversi abboccamenti avuti con la regina, come l’accordo secondo il quale le truppe imperiali potevano usare le basi siciliane nella loro guerra contro i Vandali, decise di vendicare quell’uccisione iniziando la guerra greco-gotica. La vendetta o la sete di giustizia, però, poco avevano a che fare con l’occasione di riconquistare i territori d’Occidente.
Bizantini contro Bulgari e l’ingombrante Irene d’Atene I primi scontri tra Bulgari e Bizantini avvengono sul finire del VII secolo dopo Cristo. Calati dal nord i Bulgari occuparono la Bessarabia meridionale e, nel corso dei secoli, andarono estendendo il proprio dominio a spese dei Bizantini. Le ostilità tra i due popoli terminarono a metà del XV secolo con l’avanzata delle truppe ottomane.
Le vicende belliche che vedono protagonisti Bulgari e Bizantini sono costellate di intrighi, sotterfugi e spedizioni militari dalle alterne fortune. Per incompetenza militare e politica brillano i tentativi effettuati dall’imperatore Costantino VI di fermare l’espansionismo bulgaro dopo le nove campagne militari e le due vittorie conseguite dall’imperatore Costantino V.
Così nel 791 l’imperatore bizantino Costantino VI organizza una spedizione punitiva contro la Bulgaria. Costantino VI voleva punire i Bulgari per aver attaccato le posizioni bizantine nella valle dello Strimone a partire del 789. Incapace politicamente e militarmente, l’imperatore aveva richiamato al suo fianco la madre Irene, l’unica donna a regnare da sola e a fregiarsi del titolo di “imperatore dei romani”, a differenza delle altre regine bizantine alle quali era riconosciuto il titolo di “imperatrice regnante”. Il re dei Bulgari, Kardam, andò incontro ai Bizantini e li sconfisse presso Adrianopoli.
Un anno dopo Costantino VI ci riprovò e preparò un’altra spedizione contro i Bulgari. Invase il territorio nemico e si accampò a Marcellae, presso Karnobat, iniziando la costruzione di una fortezza. Il re bulgaro Kardam mosse il suo esercito e il 20 luglio del 792 sbaragliò le forze di Costantino VI, irruppe nell’accampamento nemico e catturò dignitari e servi dell’imperatore, il quale era riuscito a riparare verso Costantinopoli. L’imperatore bizantino dovette firmare un trattato di pace con il quale accettava di pagare un tributo annuale alla Bulgaria e di non costruire fortezze nelle zone di confine.
Passano quattro anni e le mire di Costantino VI riprendono corpo. Questa volta il piano è preparato per far apparire lo scontro come il frutto delle continue e inaccettabili richieste dei Bulgari. Costantino VI fa sapere a Kardam che non è più disposto a pagare il tributo imposto dopo la sconfitta di Marcellae. Secondo lo storico Teofane il Confessore, l’imperatore inviò come “tributo appropriato” dello sterco al posto dell’oro. Nel frattempo ordinava di costruire nuove fortezze lungo il confine e di rafforzare quelle esistenti. Il vecchio re Kardam non aveva intenzione di scendere in guerra e temporeggiava, cercando di trattare e minacciando di devastare la Tracia se non avessero pagato il tributo e bloccato i lavori delle fortezze. Anche l’imperatore bizantino attendeva le mosse del rivale. Nessuno dei due eserciti, però, scendeva in campo.
Un messo imperiale portò la notizia di una serie di attacchi e saccheggi a danno dei monasteri lungo il confine. L’accusa era chiara: erano stati i Bulgari. Molto probabilmente si trattava di un piano ordito dalla madre di Costantino, Irene d’Atene, la quale aveva ordinato la devastazione dei monasteri per sollevare l’indignazione dei bizantini e dare un carattere religioso alla guerra contro i Bulgari. Costantino VI approfittò della situazione per far muovere l’esercito verso nord, ad Adrianopoli. Anche Kardam mosse i suoi uomini. Le armate si fronteggiarono per 17 giorni senza combattere fino all’accordo tra i due sovrani alle condizioni stipulate nel 792. Un anno dopo Costantino veniva fatto accecare dalla madre Irene e moriva poco dopo per un’infezione. Irene d’Atene assumeva il titolo di imperatrice e dava corso alla sua politica.
Liutprando, la lotta iconoclasta e la donazione di Sutri I Longobardi si erano stabiliti in Italia da più di un secolo e mezzo, conquistando vasti possedimenti senza incontrare particolari difficoltà contro i bizantini, usciti dalla sfiancante guerra greco-gotica. Le mire espansionistiche longobarde si scontravano con le sacche di resistenza bizantine e con il Papato, sempre vigile a non farsi stringere nella morsa di ingombranti e ostili vicini. Liutprando cercò di rafforzare la sua posizione unificando i territori italiani che erano rimasti in mano bizantina: tutta la costa adriatica, compresa la capitale Ravenna e il territorio a sud della Toscana.
Liutprando seppe cogliere il momento propizio quando nel 726 l’imperatore Leone III Isaurico emanò l’editto che proibiva l’uso delle immagini sacre e decretava la distruzione di quelle esistenti (periodo passato alla storia come lotta iconoclasta). L’editto era una dichiarazione di guerra a papa Gregorio II. Liutprando si presentò come un difensore del Papa, della fede e delle immagini sacre e approfittando della confusione che regnava in Italia decise di attaccare l’Esarcato, conquistando Cervia, Classe e Ravenna. Poi puntò a sud-ovest e penetrò in Toscana e Lazio, impadronendosi di Sutri, a pochi chilometri da Roma. Le proteste di Gregorio II convinsero il re longobardo a non farsi nemico il Papato. Così Liutprando decise di rinunciare ai possedimenti laziali, ma non li restituì ai bizantini, bensì li donò ai «beatissimi apostoli Pietro e Paolo», contribuendo a fondare quello che diventerà il Patrimonium Sancti Petri.
Carlo Magno, padre dell’Europa Il mancato pagamento dei tributi e il rifiuto di ricevere il battesimo e convertirsi al cristianesimo, invece, costituirono più volte motivo di guerra tra i Franchi di Carlo Magno e i Sassoni. In particolare nel 772 quando questi ultimi si rifiutarono di pagare il tributo e distrussero una chiesa cristiana. Il sovrano franco invase il territorio nemico e alla confluenza del Weser con l’Aller fece strage della fanteria sassone. Circa cinquemila prigionieri ribelli vennero decapitati quando rifiutarono di abiurare Wotan. La carneficina durò tre giorni e tre notti.
Carlo Magno era, comunque, uso a creare espedienti o sfruttare singoli eventi per muovere guerra ed espandere i suoi dominii. Due donne sono, ad esempio, protagoniste delle macchinazioni del sovrano franco per risolvere un duplice problema: rendere stabile il trono franco e liberare il Papa dall’invadente presenza longobarda in Italia. Gerberga, longobarda e moglie di Carlomanno, fratello del sovrano franco e re a sua volta, alla morte del marito fugge da re Desiderio per chiedere protezione e per garantire ai figli l’eredità che spetta loro. Carlo Magno, dopo aver incamerato i territori del fratello, non resta a guardare e prepara un piano. La moglie Ermengarda (o Desiderata), longobarda e figlia di re Desiderio, sposata nel 770, diviene la vittima innocente sacrificata sull’altare della necessità politica. Il suo ripudio nel 771, a sua volta con la scusa di non riuscire a dare un legittimo erede a Carlo, è il pretesto perfetto per muovere guerra ai Longobardi, prestare soccorso al Papato e chiudere in convento Gerberga e i due nipoti, assicurandosi il trono franco.
La Guerra dei Cento anni Il conflitto che oppose Francia e Inghilterra per oltre 100 anni, che portò alla nascita degli Stati nazionali, alla certezza che la cavalleria pesante potesse essere sconfitta da fanti e arcieri, all’epopea di Giovanna d’Arco, nacque dal mancato pagamento di un tributo, dalla confisca di un feudo inglese in terra francese e dalle rivendicazioni derivanti da un matrimonio di cui in pochi avevano compreso la deflagrante portata.
Quando il 18 marzo del 1152 Eleonora d’Aquitania andava in sposa ad Enrico II Plantageneto, gli portava in dote quasi mezza Francia. Un vasto territorio (Aquitania e Guascogna) che unito ai possedimenti di Enrico (Normandia, Maine e Angiò) ne faceva un vassallo del re di Francia, ma con un’estensione di territori controllati maggiore del sovrano stesso. Alla morte di Carlo IV (1328) si estinse la dinastia Capetingia e due principi, nipoti del defunto re, Filippo di Valois ed Enrico III, re d’Inghilterra si contesero il regno. I grandi feudatari scelsero il primo, ma il secondo possedeva mezza Francia ugualmente. Nel 1337, Filippo VI decise di porre fine a questa situazione, accusò il cugino di mancare ai suoi doveri di vassallo e gli confiscò il feudo d’Aquitania e di Normandia. Edoardo III rispose con una spedizione militare nelle Fiandre, dichiarandosi re di Francia sulla base della sua discendenza capetingia. La guerra si protrasse fino al 1453 consegnando alla storia una Francia unita territorialmente e un’Inghilterra ormai lontana dagli interessi europei.
Confini, mercati e pascoli Le cronache medievali sono ricche di racconti di scontri e tensioni tra castelli e città per questioni di acque, di confini, di strade, pascoli, in un continuo confronto tra le rispettive zone di superiorità giurisdizionale e politica. Il casus belli era lo sconfinamento del bestiame su un confine contestato, la deviazione di una roggia o il ferimento di un fattore. Controversie che portavano molto spesso a scontri e battaglie.
Vicenza contro Padova Nel 1311 Vicenza decide di aiutare Verona nell’attacco contro Padova, ma per giustificare questo ribaltamento è Padova a dover attaccare, solo così Vicenza si può giustificare. Per portare Padova al punto di rottura i vicentini non esitano a deviare il fiume Bacchiglione.
Dalle zuffe alla battaglia Nel dicembre del 1452 si riaccese una controversia tra i Rossi e i Sanvitale tra Parma e Correggio: il motivo risiedeva in un certo numero di capi di bestiame ammazzati. Il conflitto si allargò ben presto al decorso delle acque, all’uso dei pascoli e alla percorribilità delle strade. Dalle zuffe tra contadini si passò rapidamente a fatti d’arme, agguati, scontri e scorrerie.
Genovesi e aragonesi in Sardegna Nel 1333 sul colle di Sorres i genovesi Doria contendono il controllo della zona del Meilogu al Giudicato di Arborea e agli Aragonesi. I Doria hanno costruito un forte di legno a presidio della via Turresa. Con un colpo di mano, però, la fortificazione è caduta in mano ai catalani. I soldati iberici entrano nel forte con un pretesto: intendono arrestare dei fuorilegge che stavano inseguendo e che hanno visto entrare nella fortezza. Una ricostruzione non reale che nasconde il desiderio di scalzare i genovesi da una posizione di superiorità nell’area e assicurarsi il controllo della via che collega Cagliari a Sassari. Un anno dopo Brancaleone Doria decise di riprendersi il forte. Due giorni di assedio e di battaglia. Alla fine, però, i genovesi devono ritirarsi per l’arrivo di un contingente di soccorso dell’esercito aragonese e degli alleati del giudicato di Arborea. Poi si scatena la rappresaglia contro i villaggi rimasti fedeli ai Doria. Otto insediamenti vengono saccheggiati e dati alle fiamme.
La battaglia della Meloria e il vassallo ribelle Le flotte di Pisa e Genova si inseguono da due anni nel tratto di mar Tirreno chiuso tra la costa toscana, quella della Sardegna e dalla Corsica. Il conflitto tra le due Repubbliche si è acceso nel 1282. Entrambe aspirano al controllo della Sardegna e della Corsica e a proteggere le reti commerciali lungo il Mediterraneo. Pisa ha risentito della diminuzione dei commerci di seta e spezie con l’Oriente a seguito della costituzione dell’Impero Latino a Costantinopoli, fortemente appoggiato dai genovesi, e cerca nuovi spazi, dovendosi guardare dall’aggressività di Lucca e Firenze. Genova, padrona dell’intera Liguria e protetta dalle montagne, non ha nemici via terra e può dedicarsi al mare. Il casus belli è ricondotto alla decisione di un signorotto della Corsica, Simoncello di Cinarca, il quale volendo sottrarsi al controllo di Genova, si rifugiò a Pisa, chiedendo protezione e divenendo vassallo della repubblica toscana. La Superba non esitò a far valere le proprie ragioni e scatenare il conflitto. In realtà esistevano tanti precedenti da vendicare.
Guerra degli Otto santi Il 1374 è un anno di carestia e di pestilenza. Firenze soffre la fame e ha avuto almeno settemila vittime per la peste. Così quando il vescovo di Bologna, Guillaume de Noellet, rifiuta di fornire grano ai fiorentini, per questi ultimi è facile immaginare che il Papato voglia impadronirsi della città e del suo contado. Sospetti che diventano certezze quando a giugno del 1375 la compagnia di ventura di Giovanni Acuto irrompe nel territorio toscano. Il vescovo di Bologna è lesto a chiarire che l’Acuto ha terminato la condotta con la Chiesa e si muove in piena libertà. Firenze è convinta che il condottiero inglese abbia avuto ordine di devastare il contado fiorentino. Tanto più che il legato pontificio di Perugia, Gherardo Dupuy, sta cercando di portare dalla parte della Chiesa i senesi.
I fiorentini insediano la magistratura degli Otto della guerra e insorgono contro la Chiesa. Tra scorrerie di bande di capitani di ventura, assedi e scontri campali, la guerra terminò solo con il rientro in Italia del papa avignonese Gregorio XI e poi con la pace di Tivoli nel 1378.
Offese e ingiurie, Guelfi e ghibellini I termini guelfi e ghibellini nascono in area germanica e stanno ad indicare i partigiani delle casate di Sassonia-Baviera (Welf, capostipite della casa di Baviera) e quelli delle casate di Franconia-Svevia (Weiblingen, un castello della casa Sveva). Una divisione che insanguinò la Germania per cinque lustri e arrivò anche a contraddistinguere l’architettura militare: i merli piatti erano tipici dei castelli guelfi, quelli a “V” erano ghibellini. In Italia i due termini indicarono i seguaci del Papa e quelli dell’Imperatore.
Le origini di questa divisione nella Penisola, però, viene rimandata ad un litigio durante un banchetto tra Buondelmonte de’ Buondelmonti e Oddo Arrighi. Il primo stava mangiando dal piatto comune quando il secondo glielo sottrasse in segno di disprezzo. I due iniziarono ad insultarsi e poi vennero alle mani, ma vennero subito divisi dai parenti e portati via. Le rispettive famiglie si schierarono subito in opposte fazioni. Il clima a Firenze si stava scaldando, così i capi delle due famiglie decisero si suggellare la pace con un matrimonio tra Buondemonte de’ Buondelmonti, giovane ricco e bello, con una ragazza degli Amidei, soltanto nobile.
Il contratto nuziale era già stato sottoscritto quando Buondelmonti si innamorò di una Donati e decise di sposarla, annullando il contratto precedente. Il partito degli Amidei non gradì la rottura e giurò vendetta sia per la prima offesa sia per l’ingiuria del matrimonio saltato. Il giorno del matrimonio un gruppo di sicari attese Buondelmonte sulla strada verso la chiesa e lo uccise. Il cronista Villani indica in questo episodio l’origine della spaccatura cittadina in guelfi e ghibellini.
I Pazzi contro i Medici La famiglia fiorentina dei Pazzi è passata alla storia, oltre che per aver dato i natali a santa Maria Maddalena de Pazzi, per essersi schierata apertamente contro i Medici e anche per l’attentato nel duomo fiorentino che portò al ferimento di Lorenzo e all’uccisione del fratello Giuliano. Il motivo scatenante la rivalità va ricondotto al clima politico del periodo e all’ormai potenza nascente dei Medici. Il casus belli che contrappose i Medici ai Pazzi, si presentò con la morte del ricco fiorentino Giovanni Borromei. Si rimanda ad una decisione di Lorenzo di privilegiare i nipoti maschi nell’ereditare rispetto alle figlie. Riconoscendo alla norma anche effetto retroattivo. Una decisione che portò al congelamento della cospicua eredità di Giovanni Borromei, la cui figlia Beatrice aveva sposato Giovanni de’ Pazzi, e suscitò l’odio di una famiglia verso l’altra. Fino alla congiura del 26 aprile 1478.
I Normanni e il regno del Sud Roberto il Guiscardo e il fratello Ruggero d’Altavilla poterono impadronirsi della Sicilia con relativa facilità grazie al disgregarsi del fronte musulmano a seguito di inimicizie e incomprensioni. Una delle cause dell’indebolimento degli arabi viene ricondotto all’affronto che Ibn at Timnah, emiro di Castrogiovanni, facile al vizio del bere, fece nei confronti del cognato e quaid di Catania Ibn al Hawwâs. Un giorno il primo, in preda agli effetti del vino, avrebbe fatto tagliare le vene alla moglie, sorella del secondo, a seguito di un banale litigio. La donna venne salvata dal figlio. Il giorno successivo l’emiro si profondeva in mille scuse, profondamente pentito e imputando le sue azioni all’ubriachezza. La donna finse di accettare le scuse e di perdonare il marito, ma poi si rifugiò dal fratello e non tornò più dall’emiro. Da questo doppio affronto nacque il conflitto tra i due principi musulmani e nel quale si inserirono, vittoriosamente, i normanni. Ibn at Timnah si alleò con gli uomini del nord e ne facilitò la conquista della Sicilia.
Le trappole di Ruggero II d’Altavilla Ruggero II d’Altavilla è un principe fortunato. Prima gli emiri arabi litigano tra di loro e consegnano la Sicilia ai normanni guidati dal padre e dallo zio, poi pur uscendo sconfitto in battaglia, riesce ad impossessarsi della restante parte peninsulare del regno per la morte dei principi rivali.
Nel 1131 Ruggero II è re di Sicilia da due anni quando invia in soccorso di papa Anacleto II 400 cavalieri, guidati da Roberto principe di Capua e Rainulfo conte di Alife (che anni prima ne aveva sposato la sorella). È uno stratagemma per allontanare i feudatari più pericolosi e reclamare i suoi diritti di re. Ruggero invia un funzionario ad Avellino da Riccardo di Ravecanina (fratello di Rainulfo) ben sapendo di suscitare una reazione negativa. Riccardo di Ravecanina fa seviziare cavare gli occhi e tagliare la lingua all’ambasciatore di Ruggero. Quando la notizia giunge al re l’esercito è già pronto a muovere guerra. Ruggero si presenta ad Alife e porta via la sorella e il figlio di Rainulfo. Inizia la guerra, con assedi e agguati per il possesso di città e castelli. Nel luglio del 1132 si combatte nella piana di Sarno. Ruggero viene sconfitto da Rainulfo, ma la battaglia non è decisiva. Nei due anni successivi Ruggero II conquista castelli e roccaforti. Rainulfo chiede la pace (e ottiene la restituzione di moglie e figlio) e Roberto di Capua fugge a Pisa.
Nel 1135 Ruggero II resta vedovo. Si chiude nel dolore nel suo palazzo di Palermo. Non si fa vedere per settimane. Poi si sparge la voce che sia morto. Forse è lui stesso a mettere in giro questa notizia. Rainulfo straccia il trattato di pace e si ribella. Roberto da Capua lo raggiunge dall’esilio pisano. Ruggero II è già in marcia verso la Puglia e la mette a ferro e fuoco. Il 29 ottobre del 1137 gli eserciti si scontrano a Rignano Garganico. Ancora una volta ne esce vincitore Rainulfo, ma la battaglia non è decisiva per le sorti della guerra. Solo l’improvvisa morte di Rainulfo, il 30 aprile 1139, porrà fine alle ostilità e consegnerà l’intero sud a Ruggero II di Sicilia.
Il guanto di sfida di Corradino e i Vespri siciliani Il passaggio da Manfredi a Carlo d’Angiò venne accolto, in Sicilia, con freddezza, presto mutata in aperta ostilità. Il nuovo governo francese era dispotico, le antiche assise non venivano convocate, i funzionari erano tutti francesi, il commercio era passato nelle mani di mercanti e banchieri toscani e i prelievi fiscali erano insopportabili.
La nobiltà siciliana aveva chiesto l’intervento di Corradino di Svevia, nipote di Manfredi e ultimo discendente della dinastia degli Hohenstaufen. Una volta in Italia il giovane era stato tradito, sconfitto a Tagliacozzo, catturato e decapitato a Napoli, in piazza del mercato, il 29 ottobre 1268. Dal patibolo lancia un guanto: «Qualcuno raccoglierà la mia sfida». Gli anni passano, ma quel guanto di sfida non è stato dimenticato.
Il 30 marzo del 1282 il soldato Drouet ferma una coppia di aristocratici che sta andando a messa nella chiesa del Santo Spirito per la celebrazione dei vespri. Il soldato non perquisisce l’uomo, ma palpeggia e insulta la donna. Il marito strappa la spada dal fianco del soldato e lo trafigge. L’insurrezione dilaga in un attimo in tutta l’isola e la caccia al francese diventa l’attività di qualsiasi siciliano in età adulta. Molti francesi vengono riconosciuti con uno stratagemma: viene loro mostrato un pugni di ceci, ciciri in siciliano. La pronuncia errata vale alla perdita della vita.
Giovanni da Procida, l’uomo che aveva raccolto il guanto di sfida di Corradino e che aveva organizzato la rivolta insieme con il conte Enrico Ventimiglia, Alaimo di Lentini signore di Ficarra, Palmiero Abate signore di Trapani e Gualtiero di Caltagirone signore di Butera, offre la corona di Sicilia a Pietro III di Aragona, il quale accetta e muove contro i francesi. La pace di Caltabellotta (1302) mette fine alla prima fase della guerra per il possesso del sud Italia.
Il lupo e l’agnello, il casus belli in letteratura Se il rapimento di Elena di Sparta da parte del principe troiano Paride, ha prodotto il capolavoro omerico, un semplice fatto d’armi tra Modena e Bologna, a causa di una secchia, ha permesso ad Alessandro Tassoni di scrivere uno dei più brillanti poemi eroicomici della storia della letteratura.
La “secchia rapita” dai modenesi, in sfregio dei bolognesi, si confonde nella storia e diventa sia causa di guerra sia conseguenza di una sconfitta. La battaglia di Zappolino è uno degli scontri medievali più sanguinosi e viene considerato acceso proprio a causa del furto di un secchio da parte di un gruppo di cavalieri modenesi ubriachi o assetati.
La guerra tra Modena e Bologna va inserita nell’acceso clima politico e bellicoso dei guelfi e dei ghibellini nel corso del XIV secolo, ma Alessandro Tassoni, mischiando date e personaggi, trasforma la “secchia” nel casus belli che spinge i bolognesi a vendicare il furto e l’oltraggio. Il 15 novembre del 1325 oltre 30.000 uomini si affrontarono a Zappolino e più di 2.000 rimasero sul campo. Per Bologna fu una gravissima sconfitta e il secchio è ancora a Modena nella torre della Ghirlandina (in copia, l’originale è a Palazzo Comunale). Il conte di Culagna, personaggio del poema eroicomico, mette pace tra le due città assegnando la secchia a Modena e lasciando a Bologna la custodia del figlio di Federico II, lo sfortunato re Enzo.
Umberto Maiorca