“Impuro, bordellatore insaziabile, beffeggiatore, crapulone, lesto de lengua e di spada, facile al gozzoviglio”.
Brancaleone da Norcia è il più celebre personaggio del Medioevo cinematografico italiano, creato nel 1966 da Mario Monicelli con l’obiettivo di “mostrare l’altra faccia” di un’epoca colorita e stracciona, per troppo tempo mitizzata e patinata dall’epica cavalleresca.
Iniziatore di un nuovo genere cinematografico, innovatore nel modo di raccontare l’Età di Mezzo e creatore di vero e proprio vocabolario di neologismi e locuzioni, il film L’Armata Brancaleone conta tante fonti di ispirazione quanti emuli e imitatori.
Poche opere cinematografiche hanno avuto altrettanta influenza nell’immaginario collettivo e nel linguaggio stesso: se il titolo del film è diventato l’antonomasia che definisce una squadra improvvisata e improbabile, le espressioni “che te ne cale?” o “mai coperto”, inventate dal regista con gli sceneggiatori Age e Scarpelli, hanno finito per entrare nel linguaggio comune.
Il successo strepitoso del film ha dato vita a un vero e proprio genere cinematografico: quello del Medioevo comico, che spazia da Superfantozzi a Quel gran pezzo dell’Ubalda fino a Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno dello stesso Monicelli. E la rilettura fresca e originale dell’Italia medievale è stata capace di travalicare lo schermo cinematografico e approdare in altri ambiti artistici, come il fumetto: basti pensare a Bellocchio e Leccamuffo di Corrado Blasetti e Giovanni Sforza Boselli, pubblicato su “Il Giornalino” a partire dal 1970.
Eppure, il padre di Brancaleone non coccolò troppo la sua illustre creatura. Artigiano austero, fino all’eccesso, Mario Monicelli – forse il più grande maestro della “commedia all’italiana”, autore di pietre miliari della cinematografia, come Guardie e ladri, I soliti ignoti, La grande guerra, Romanzo popolare, Un borghese piccolo piccolo, Amici miei e Il marchese del grillo – dimostrava di considerare L’Armata Brancaleone poco più che un film ben fatto e si diceva addirittura pentito di averne girato il seguito.
Chi scrive ha avuto due volte l’occasione di intervistare Monicelli, nel 2006 e nel 2009, in entrambi i casi al festival Le vie del cinema di Narni, e di farsi raccontare la genesi di questo capolavoro.
Spiegava Monicelli: “L’Armata Brancaleone è nata dal desiderio di raccontare cosa accadeva in Italia nell’anno Mille. Il Medioevo era un periodo particolarmente barbaro: in Italia non c’era la civiltà, che in quell’epoca apparteneva solo all’Islam. E allora avevamo voglia di raccontare questo Medioevo alternativo a quello epico che ci propongono i romanzi cavallereschi di Chrétien de Troyes. Che fosse quindi una parodia, ma allo stesso tempo, una contrapposizione a quest’immagine finta di un’epoca eroica e favolosa che si vede nei kolossal hollywoodiani”.
Quindi un Medioevo straccione e fantasioso, sporco, comico, parodistico. Ma per certi versi anche più realistico, in tutta la sua violenza, miseria e crudezza.
Non a caso, se il nome Brancaleone appartenne a un vero cavaliere protagonista della Disfida di Barletta (1503), la provenienza norcina del protagonista del film e il suo stemma – che rappresenta un cinghiale – evocano sapori decisamente poco aulici.
Il segreto di un’idea così geniale, raccontava Monicelli, stava innanzitutto nella capacità di copiare: “Tanto non ti inventi mai niente. Anche quando pensi di esserti inventato qualcosa, magari stai attingendo a ricordi che avevi da ragazzo, oppure a una storia che ti ha raccontato un amico e tu fai finta che sia tua. Non si inventa mai niente: uno che ha letto molto, che ha divorato romanzi e personaggi e riesce a far fruttare queste letture, sembra che abbia una grande fantasia; e invece si copia, magari inconsapevolmente, ma si copia. Io ho la fortuna di aver frequentato cinque o sei persone che avevano una sapienza letteraria straordinaria: Suso Cecchi D’Amico, Age, Scarpelli, Benvenuti e De Bernardi: erano dei grandi conoscitori e riportavano tutto ciò che assumevano”.
Nello specifico – ricordava il regista – Brancaleone trae gran parte dell’ispirazione dal Morgante, il poema comico di Luigi Pulci scritto nel 1478.
Vera e propria parodia dei poemi cavallereschi, il Morgante – ambientato nella corte di Carlo Magno – racconta le peripezie di Orlando e Rinaldo in Asia e in Egitto per combattere gli infedeli, soffermandosi sulla conversione al Cristianesimo – operata dallo stesso Orlando – del gigante Morgante che diventerà suo scudiero.
Proprio come Pulci, anche Monicelli basa gran parte della comicità della sua opera sulla vivacità della lingua: un idioma immaginario, destinato a fare scuola, a cavallo tra il latino maccheronico, la lingua volgare medievale e l’espressione dialettale.
“Quella lingua non l’abbiamo creata – spiegava Monicelli – ma desunta, rubacchiata, soprattutto da Jacopone da Todi, San Francesco e Gregorio Magno. Andavamo a pescare in molti testi medievali. E poi molto dai dialetti, di cui eravamo grandi cultori e intenditori. Pescavamo modi di dire, vocaboli dialettali, specialmente dal sud, e qualche volta, ce li siamo inventati. La verità è che il ritmo e la costruzione li prendevamo soprattutto dai testi di Jacopone da Todi e in parte anche dal Cantico delle creature, che noi dileggiavamo nel modo di parlare. Ci si divertiva a scherzare sul linguaggio – “frate sole, sora luna” – in modo goliardico”.
E aggiungeva: “Ci siamo divertiti davvero tanto a scrivere la sceneggiatura. Mano a mano che andavamo avanti, quella lingua ci apparteneva sempre di più e nei tre mesi in cui abbiamo scritto il copione parlavamo sempre in quel modo tra di noi. Devo dire che non è stato il prodotto di un vero e proprio studio, ma di un grande divertimento. Soprattutto in fase di scrittura”.
Una scelta, quella dell’uso del dialetto, particolarmente anticonformista per quei tempi. “Fino al giorno prima si diceva che non bisognava parlare in dialetto. Nei film si voleva l’italiano puro. Io e i miei collaboratori, invece, eravamo sostenitori del dialetto e volevamo usare solo ed esclusivamente quello. Adesso se ne sono accorti tutti, che il dialetto è fondamentale per la lingua italiana”.
Eppure fu proprio quella lingua, così astrusa, a rendere scettico il produttore. “Non è che fosse scettico, è che proprio non voleva fare il film. Anche perché, nella lettura, il copione è molto più difficile da capire. Mario Cecchi Gori quando lesse la sceneggiatura, ci disse che c’erano due cose che non gli piacevano: innanzitutto il linguaggio; che lui non capiva, anche perché era un uomo acculturato, ma non eccessivamente. Soprattutto pensava che queste cose dette sullo schermo rendessero il film incomprensibile. E poi è un film che non ha intrighi, sviluppi, non so, tradimenti, amori, ma solo una serie di vagoncini – li chiamava così – uno dietro l’altro, in un treno che non porta da nessuna parte, perché non si sa nemmeno come il film finisce. Io gli dissi: se non lo vuoi fare mi rivolgerò a qualcun altro. Quanto all’intreccio, a me non piacciono i film pieni di intrighi che poi si risolvono alla fine con la giustizia e l’amore che trionfano. A me interessa mettere in piedi personaggi e vicende uno dietro l’altro. Questo mi piace fare. Lui mi rispose: “Bene, allora io non ti pagherò. Se al film ci credi prenderai la percentuale sugli incassi”.
Io accettai, e alla fine presi naturalmente più del triplo di quanto lui mi avrebbe offerto. D’altra parte c’è una specie di regola nel cinema italiano: un film che nasce faticosamente finisce bene”.
E’ vero anche che, appena uscito, il film andò, effettivamente, piuttosto male. “Fu promosso e rilanciato grazie ai ragazzini: andavano a vederlo e comprendevano benissimo quella buffa lingua. Parlo di ragazzi di dodici–tredici anni che continuavano a riempire i cinema e lo hanno trasformato in un successo”.
Un successo bissato quattro anni dopo con Brancaleone alle crociate, che si spingeva ancora più oltre nel citazionismo, riprendendo lo stilita di Simon del deserto di Luis Buñuel e addirittura la partita con la morte del Settimo Sigillo di Ingmar Bergman (con la nera falciatrice che in questo caso parlava toscano) e un cast ancora più stellare: se nel primo film ad affiancare Vittorio Gassman c’erano Gian Maria Volontè, Catherine Spaak ed Enrico Maria Salerno, stavolta della squadra fecero parte Adolfo Celi, Stefania Sandrelli, Lino Toffolo, Paolo Villaggio e Gigi Proietti.
“Non volevo girarlo, e infatti sarebbe stato meglio che non l’avessi fatto” commentava Monicelli. Per lui, il film, “sì, era bello, ma un po’ di riporto. E poi quando arrivi per secondo arrivi secondo. Il seguito, anche se è bello come il primo, ha un difetto: che arriva secondo. Come alle corse: il secondo può anche essere più bravo del primo, però è arrivato secondo. Io – anche se ne ho girati due – ai seguiti non ci credo. Ma ci crede il produttore, che ci guadagna molto perché dopo il successo del primo trova tutte le porte già aperte, i privilegi, l’esercente pronto ad accoglierlo. Ma il regista no, perché il regista arriva sempre secondo. Era meglio il primo, ti dicono tutti”.
Tornando all’Armata Brancaleone, Monicelli aveva bellissimi ricordi delle riprese: “L’Italia centrale è, come sempre, la vera Italia. L’Italia non è né il Piemonte – come credevano i piemontesi – né Napoli. L’Italia vera è quella centrale: Toscana, Marche, Umbria e Abruzzo. Qui è avvenuto tutto quello che serviva all’Italia. E’ l’Italia migliore, quella più autentica. L’abbiamo girato tutto qui, il film”.
Il personaggio di Brancaleone da Norcia era stato cucito su misura per Vittorio Gassman: “L’avevo scelto io per quello che era stato il suo primo ruolo comico perché lo conoscevo fuori dal set. Era una persona molto divertente, simpatica, spiritosa, che sapeva cogliere gli aspetti umoristici della vita. E allora mi domandavo: come mai un attore con queste qualità e questa formazione deve fare sempre i drammi, i Re Lear, gli Amleti? Così gli ho proposto una parte comica, e ha avuto il successo che meritava”.
“Con Gassman – spiegava Monicelli – avevamo un rapporto di grande familiarità e amicizia e devo dire che ha sempre risposto a quello che gli chiedevo in maniera che mi ha molto favorito. Per cui se io ho una certa notorietà lo devo in gran parte a lui”.
Il resto del cast de L’Armata Brancaleone fu invece scelto gradualmente, cercando gli attori che potessero essere adatti per i personaggi. “I risultati non sono stati sempre buoni: Gian Maria Volonté, ad esempio, non era assolutamente adatto per la parte del bizantino. Io non lo volevo, l’ha voluto Cecchi Gori, che con lui aveva fatto i film di Leone. Io invece avevo proposto la parte a Raimondo Vianello, che però rifiutò categoricamente, e anzi, devo dire che mi trattò anche piuttosto male. Questo perché lui aveva un forte rancore nei confronti del cinema, che lo aveva dimenticato. In televisione formava una coppia comica grandiosa con Ugo Tognazzi, ma Tognazzi è stato preso dal cinema e trasformato in una grande star, mentre Vianello è stato completamente abbandonato. E’ un vero peccato perché avrebbe potuto dare molto e sicuramente avrebbe reso il personaggio del bizantino meglio di Volonté che – anche fisicamente – non era assolutamente adatto alla parte”.
Uno dei personaggi del film che rimangono più nella memoria dello spettatore è il cavallo Aquilante. Una leggenda metropolitana vuole che in realtà sia stata una cavalla. Monicelli spiegava: “In verità, non mi sono mai interessato al sesso del cavallo. Volevo però che avesse questo colore giallino, umile, ispirandomi al prototipo del cavallo di Sancho Panza. L’abbiamo tinto di giallo e gli abbiamo messo una gualdrappa che era una retina miserabile. Il sesso francamente non l’ho guardato”. “E sinceramente – concluse con il solito sarcasmo il grande maestro del cinema, scomparso a 95 anni nel 2010 – credo che anche se lo avessi guardato non avrei saputo riconoscerlo”.
Arnaldo Casali