Sorretto da un uovo nascosto nelle sue segrete, sorge da un unico blocco di tufo su un’isola che non c’è.
Castel dell’Ovo è a guardia del golfo di Napoli da oltre un millennio, baluardo tra la potenza del mare e quella del fuoco, acquattato sotto il vulcano alle sue spalle.
Luogo leggendario, raffinata villa luculliana, carcere, monastero, fortezza e sede di talismani alchemici, la cittadella murata è anche e soprattutto un simbolo. Che si è evoluto nel tempo e che ogni volta è diventato emblema di un’epoca.
Nell’Antichità rappresentò il mito. Incarnato dalla sirena Partenope, che per il rifiuto di Ulisse si lasciò spiaggiare morente sulla rena di Megaride, piccola isola di due scogli gemelli che diverrà il basamento del castello. L’antichissimo culto, nato nella Grecia orientale approdò così sulla costa tirrenica. La sirena trovò sepoltura nell’isola e genti cumane la colonizzarono. Per fondare, sulle alture di Pizzo Falcone e Monte Echia, il primo nucleo di Partenope, la città antica riemersa nel 1949 con gli scavi di Via Nicotera. Era il VII secolo a.C.
In epoca romana divenne l’emblema dei fasti aristocratici della repubblica. Neapolis, la città nuova costruita a valle di Partenope dal IV secolo a.C. e annessa a Roma dal 326 a.C., piacque a Lucullo (117-56 a.C.). Il console, passato alla storia per i deliziosi convivi e i sollazzi gastronomici, apprezzò in particolare quei due scogli al centro del golfo e ne fece le fondamenta di una splendida villa. Megaride smise allora di essere un’isola. Un corridoio la collegò alla terraferma dove eleganti giardini, che si estendevano fino a Pizzo Falcone e Monte Echia, videro fiorire per la prima volta in Europa ciliegi e peschi importati dalla Persia.
Plutarco ricorda i celebri banchetti: “Vi erano d’obbligo, come antipasti, frutti di mare, uccellini di nido con asparagi, pasticcio d’ostrica, scampi. Poi veniva il pranzo vero e proprio: petti di porchetta, pesce, anatra, lepre, pavoni di Samo, pernici di Frigia, morene di Gabes, storione di Rodi. E formaggi, e dolci, e vini”. I cibi erano serviti nella dimora sul golfo al bordo di laghetti pullulanti di pesci e lungo moli che si protendevano sul mare.
Lucullo portò nella villa anche collezioni di monete, quadri e sculture raccolte nei suoi numerosi viaggi e costruì una grandiosa biblioteca che contava un numero incredibile di manoscritti ed era aperta a tutti. Megaride divenne un raffinato centro di incontro di studiosi e letterati.
Poi Megaride vide la fine di un impero e il principio di un’epoca. Nel periodo tardo antico divenne la prigione di Romolo Augustolo (461-dopo il 511), l’ultimo imperatore di Roma, sulla cui data di deposizione in Italia si fa iniziare il Medioevo. Romolo era figlio di Flavio Oreste, un generale romano di origine barbara e, al contrario del padre, poteva sedere sul soglio imperiale perché sua madre era di stirpe romana. Nel 475 Oreste depose Giulio Nepote (che regnò per un anno) e mise sul trono il giovane figlio per governare in suo nome. Ma pochi mesi dopo lo sciro Odoacre catturò e uccise Oreste. E, il 4 settembre del 476, si liberò anche di Augustolo, il piccolo imperatore. Il ragazzo venne confinato nel Castellum lucullanum, l’antica villa dei tempi della repubblica. E di lui non si seppe più nulla.
Agli albori del Medioevo il Castellum cambiò radicalmente la sua funzione e divenne un cenobio, luogo di vita sociale (dal greco κοινός, comune e βίος, vita) per una piccola comunità di preghiera devota a Santa Patrizia (ca.664-685). Sembra che la santa, ora sepolta nella chiesa di San Gregorio Armeno al centro di Napoli, sia stata accolta e rifocillata proprio qui in seguito a un naufragio. Compatrona della città insieme al celebre San Gennaro, Patrizia era una nobildonna bizantina fuggita da Costantinopoli per evitare il matrimonio che le imponeva l’imperatore Costante II e seguire la vocazione alla preghiera e all’assistenza. Al suo culto è legato il prodigio della liquefazione del sangue, come per San Gennaro. Secondo la tradizione, il miracolo si ripete nel giorno della sua morte, avvenuta il 25 agosto 685 tra le mura dell’antico edificio.
Nel secolo VIII il cenobio si trasformò in un vero e proprio monastero, dimora di seguaci di un leggendario ordine: quello dei basiliani. Giunti sulle coste della penisola per sfuggire alla furia iconoclasta dell’imperatore bizantino Leone III Isaurico (675-741), che nel 726 ordinò la distruzione delle immagini sacre in tutte le province dell’Impero con azioni che costarono la vita a diversi monaci, i basiliani sbarcati sul golfo trovarono rifugio tra le mura di tufo di Megaride. E le elessero a luogo di preghiera e lavoro, dove si rispettava la regola di San Basilio Magno (329-379). Vescovo e teologo della Cappadocia, Basilio fu tra le figure di spicco del monachesimo cristiano. E’ riconosciuto come padre degli ordini conventuali orientali, gli storici gli attribuiscono anche un grosso peso nello sviluppo di quello occidentale, soprattutto grazie alla sua regola, che fu di ispirazione per San Benedetto.
La splendida Sala delle Colonne, che conserva blocchi di pietra cilindrica usati in epoca romana per abbellire la villa di Lucullo, divenne il refettorio dove monaci e monache consumavano i pasti, mentre i cunicoli e le cellette scavati nel tufo, i romitori basiliani, servivano per pregare e riposare. Nel Cenobio in insula maris, indicato in quel periodo anche col nome di isola di San Salvatore, venne edificata la chiesa del Salvatore, di cui restano visibili deboli tracce.
Il monastero era un fiorente centro di cultura, nel quale i monaci si dedicavano a copiare codici e creare preziose raccolte. Agli amanuensi del Cenobio luculliano veniva affidata la trascrizione di pergamene dalle più importanti raccolte conventuali e il richiamo che esercitò questa schola scriptoria conferì all’intera città un ruolo notevole tra i centri più importanti della cultura occidentale. Secondo alcune fonti, il monastero conservava anche parte del tesoro della biblioteca di Lucullo, con il quale si contribuì alla diffusione delle opere dell’antichità classica.
Poi il castello cambiò ancora volto. Gli emiri arabi, presi il nord Africa e la penisola iberica, iniziarono a sferrare attacchi contro le coste dell’Italia meridionale. Avevano già strappato il controllo del Mediterraneo ai Bizantini e la penisola era l’ovvia preda seguente. Le incursioni, i saccheggi e i rapimenti sulle coste determinarono l’occupazione e la fondazione di centri da utilizzare per la penetrazione verso l’interno. Tra le prime conquiste ci furono Ischia, Ponza e Lampedusa. Bizantini e Carolingi allora, cominciarono a dotarsi di flotte militari e acquartierarono una importante base della controffensiva a Napoli, ducato autonomo sotto l’autorità formale di Costantinopoli. I monaci abbandonarono Megaride, che da cenobio divenne castrum, una struttura difensiva di grande importanza strategica per la città.
Tra i secoli IX e XI le funzioni difensive del castrum furono rafforzate. Il primo documento in cui è citato come forte risale al 1128. Si tratta di un accordo tra Sergio VII (†1137), ultimo duca di Napoli, e la repubblica di Gaeta. Sotto la minaccia dell’invasione normanna, il duca giura pace a Gaeta a nome suo e dei suoi sudditi, tra i quali sono elencati anche gli abitanti dell’Arce del Salvatore. Pochi anni dopo la fortezza diventerà sede non solo militare, ma anche regia. La salita al trono di Ruggero II d’Altavilla (1095-1154) nel Regno di Sicilia, porterà i normanni alla conquista di tutta l’Italia meridionale e lo stesso Ruggero farà del castello la sua “principale stanza” nella penisola dove, al suo ingresso in città, terrà il parlamento generale ai napoletani.
Il castrum restò una delle maggiori sedi continentali del Regno di Sicilia per tutta la dominazione normanna. Guglielmo I di Sicilia (1131-1166), detto il Malo, lo fece restaurare e ampliare ed è di questo periodo la costruzione della torre poi detta di Normandia, attribuita a un architetto di nome Buono. Delle quattro torri menzionate nel corso della storia all’interno delle mura fortificate, oggi restano identificabili solo questa, nel lato sud del castello, e la torre di Mezzo, in posizione centrale. Le altre due (torre Colleville sul lato nord e torre Maestra al centro) si conoscono solo grazie al Vasari, secondo il quale Federico II di Svevia (1194-1250) nominò esecutore di ulteriori lavori di consolidamento il Fuccio, architetto e scultore fiorentino, se non addirittura Nicola Pisano. Federico fece del forte anche una sede del tesoro reale, dove raccolse reperti di epoca greca e romana, eleggendo il castrum a museo archeologico ante litteram.
Per quanto riguarda l’assetto del castello nel Trecento, la fonte più preziosa di informazioni è la Miniatura del codice dell’Ordine del Nodo, realizzata nel 1352 e conservata nella Biblioteca Nazionale di Parigi. Nel disegno, solo la torre campanaria è cilindrica, mentre tutte le altre presentano pianta quadrata, merlatura terminale con balestriere e coperture a solaio. La struttura del castello è tipica dell’epoca normanno-sveva, a foggia di cittadella fortificata.
L’Arce del Salvatore continuò ad essere utilizzata principalmente come struttura difensiva anche dagli Angioini. Ed è durante la loro dominazione su Napoli (1266-1442) che compare per la prima volta il riferimento all’uovo. In relazione a lavori eseguiti, la fortezza viene infatti citata come “Chastel du Salvateur eu mer de Naple, qui est dit communement chastel d’euf”. La denominazione trova riscontro nella Cronica di Partenope, un testo anonimo del XIV secolo in cui, tra i diciassette capitoli dedicati alla descrizione dei prodigi che il vate Virgilio (70-19 a.C.) avrebbe compiuto per i napoletani, c’è la collocazione nelle segrete del castello di un uovo magico. Dall’integrità di quest’uovo, immerso in una caraffa di vetro protetta da una gabbia metallica, sarebbe dipeso per sempre il destino della città.
Il valore della leggenda dell’uovo per i napoletani è chiarita da un episodio avvenuto durante il tempo di Giovanna d’Angiò (ca. 1327-1382) che nel 1343, non ancora diciottenne, ereditò il Regno di Napoli. Nel corso di un tentativo di espugnare il regno, Ambrogino Visconti (dei Visconti di Milano) venne imprigionato a Castel dell’Ovo, ma riuscì a evadere grazie al crollo dell’arco naturale che univa da secoli i due scogli di Megaride. Il castello subì danni pesanti e la vista delle rovine convinse la popolazione a credere che Ambrogino avesse rotto l’uovo, che il castello fosse crollato per questo e che il destino di Napoli fosse inevitabilmente segnato. Per riprendere il controllo della città, Giovanna fu costretta a giurare di aver sostituito l’uovo magico con un altro. Può darsi che i danni di quel periodo siano in realtà da attribuire a un maremoto, che intorno alla metà del Trecento viene ricordato nelle cronache di Napoli come una grande calamità per buona parte dell’area partenopea.
Nel XIV secolo comunque, Castel dell’Ovo è già profondamente legato alla figura di Virgilio, del quale Napoli tramanda in particolare le eccezionali facoltà taumaturgiche. A partire dal V sec. d.C. (con la Vita virgiliana riproposta da Svetonio del grammatico Donato) e con rinnovata attenzione dal Duecento in poi, biografia e leggende del poeta romano si fondono indissolubilmente. Il vescovo di Hildesheim Corrado di Querfurt ad esempio, in una lettera del 1196 ad Arnoldo di Lubecca, attribuisce la conquista di Napoli al fatto che il il piccolo modello della città costruito da Virgilio, contenuto in una bottiglia di cristallo, si fosse incrinato.
La guida di Dante nella Commedia fu dunque un nume tutelare per Napoli, che protesse così bene tanto da essere considerato il suo primo patrono, predecessore di San Gennaro. Secondo la tradizione, in tutta l’area dai Campi Flegrei a Napoli ci sono segni del suo intervento prodigioso. Molti hanno a che fare con l’acqua, come la costruzione dei bagni termali di Baia e Pozzuoli e il prosciugamento di paludi insalubri che portavano la peste o l’incanto di acque sorgive che acquistarono il potere di guarire ogni malattia. Altri con gli animali, come la generazione di una mosca e di una sanguisuga d’oro capaci di tenere lontani i corrispettivi naturali che infestavano Napoli, o la forgiatura di un cavallo di metallo che aveva la virtù di guarire quelli veri.
Dall’attribuzione di queste azioni magiche, anche le opere di Virgilio acquistarono valore oracolare: vennero chiamate sortes virgilianae e tramandate e interpretate cristianamente. Fu così che Virgilio assunse una veste profetica, esaltata dall’annuncio, dato nella quarta egloga delle Bucoliche quarant’anni prima della nascita di Cristo, della venuta di un divino puer che avrebbe segnato l’inizio di un’età di pace e di serenità.
Le sue spoglie, storicamente traslate a Napoli dopo la morte avvenuta a Brindisi e custodite in un tumulo ancora visibile sulla collina di Posillipo, furono profanate durante il regno di Ruggero il Normanno. E secondo una leggenda, sarebbero state murate a Castel dell’Ovo. Il re infatti conquistata Napoli dopo un lunghissimo assedio, avrebbe permesso a un medico inglese di aprire il sepolcro del poeta. Ma i cittadini riuscirono a trafugare le ossa fino a Castel dell’Ovo e consegnarono solo i libri con le formule magiche che erano stati sepolti con Virgilio. Per rassicurare i napoletani, le preziose reliquie rimasero visibili attraverso una grata per un certo tempo e poi murate. In ogni caso, il sepolcro del poeta lungo la via Puteolana, meta di pellegrinaggio già dal I secolo d. C., continuò ad essere luogo di culto popolare, che da pagano si è poi trasformato in cristiano con la celebre festa di Piedigrotta.
Nel corso dei secoli, l’architettura di Castel dell’Ovo è stata modificata ampiamente e le sue funzioni sono cambiate ancora anche se, per la posizione e l’imponenza, fu spesso destinato a carcere. Tra i tanti, vi fu imprigionata la stessa Giovanna d’Angiò nel 1381, il condottiero spagnolo Pietro Navarro (che però il 2 luglio del 1503 riuscì a espugnare il castello grazie all’utilizzo delle mine), il filosofo Tommaso Campanella nel XVI secolo e Francesco De Sanctis dal 1850 al 1853.
Con l’unità d’Italia il castello divenne un presidio della Marina militare e fu utilizzato per la difesa della costa. Dopo la grande epidemia di colera della fine dell’Ottocento, nel periodo del risanamento urbanistico che cambiò volto a molti quartieri storici di Napoli, Castel dell’Ovo rischiò addirittura di scomparire per sempre: un progetto del 1871 ne prevedeva l’abbattimento per far posto ad un nuovo rione. Ma per fortuna non se ne fece nulla. Dopo gli interventi di restauro del terremoto del 1980, è passato dal ministero della Difesa a quello dei Beni culturali e poi al Comune di Napoli.
Oggi, sede della Direzione regionale per i Beni Culturali della Campania, è simbolo della storia e della bellezza di questa terra. Nelle grandi sale, che sono visitabili, si svolgono mostre, convegni e manifestazioni. Parte dello storico rione di Santa Lucia, è adiacente all’incantevole porticciolo turistico del Borgo Marinari, animato da ristoranti e bar e sede storica di alcuni tra i più prestigiosi circoli nautici napoletani.
Daniela Querci