«Oimè oimè padre mio dolcissimo perdonate alla mia presuntione di quel che v’ho detto e a dire costretta so’ dalla dolce Verità di dirlo. La Volontà sua è questa e vi dimanda che facciate giustizia dell’abondantia delle molte iniquità che si commettono nel giardino della Santa Chiesa…Voi avete preso l’autorità, dovete usare virtù e potentia vostra e non volendola usare meglio sarebbe a rifiutarla… Guardate quanto avete cara la vita che non commettiate negligentia né tenete a beffe le operazioni dello Spirito Santo che sono dimandate a voi…» (Lettera 255).
Così scrive Caterina poco più che ventenne al pontefice Gregorio XI tornato (provvisoriamente) a Roma da Avignone nel 1367: con dolorosa e audace determinazione gli chiede di liberare la chiesa dalla corruzione rinnovando lo spirito del vangelo. E prima ancora lo aveva implorato ma anche minacciato: «Venite venite venite e non aspettate tempo ché il tempo non aspetta voi…» (lettera 206).
Caterina era nata in una famiglia numerosissima e modesta ma non povera, da Lapa e da Giacomo Benincasa nell’attuale contrada dell’Oca. Proprio in quell’anno (1347) erano apparsi in Europa i primi orrendi segni della peste che farà più di venti milioni di vittime. In Italia anche le fiorenti città della Toscana come Siena erano state contagiate dai viaggiatori provenienti da Venezia dove attraccavano le navi partite dai porti dell’Asia.
Caterina fino all’adolescenza vive nel chiuso della casa di famiglia dove il suo comportamento caparbio e silenzioso preoccupa i genitori: mangia pochissimo, si dedica a dure pratiche ascetiche, si isola dalla vita familiare. A quindici anni si unisce al gruppo delle Mantellate, donne laiche e benestanti che sotto la guida dei domenicani, pur continuando a vivere in famiglia, praticavano un regime di vita religiosa e povera e prestavano quotidiana assistenza agli indigenti della città. Caterina adotta le loro regole con estremo fervore e senza nessuna prudenza: è giovanissima e bella e la sua dedizione totale alle opere di misericordia desta sospetti e maldicenze fra le compagne.
Vive una duplice vita: nel chiuso delle mura domestiche gioisce delle visioni divine talvolta violente e sempre inebrianti per la presenza vivida di un Cristo uomo sofferente e amoroso; fuori nelle strade della città cura instancabilmente i derelitti e i malati, con quell’amore «che è uno e medesimo».
«In quanta eccelentia sta l’anima in me e io in lei …come il pesce sta nel mare e il mare nel pesce così io sto nell’anima, mare pacifico» (Dialogo, par. 111).
Altre donne di quei secoli – Margherita da Cortona, Umiliana de’ Cerchi, Angela da Foligno, tutte laiche come Caterina – avevano preannunciato Caterina nell’espressione di una spiritualità tutta nuova: come lei avevano voluto e vissuto durissime penitenze e digiuni, praticato soccorso materiale e affettivo verso i poveri e gli ammalati, goduto come lei visioni traboccanti felicità, rapimento e annullamento di sé nel divino.
Caterina, come Francesco d’Assisi, conosce Dio anche attraverso i lebbrosi e la povertà: l’esperienza religiosa nel Duecento oramai lontana dalla solennità e dalla solitudine contemplativa del monastero altomedievale era divenuta convivenza attiva e condivisione delle miserie e difficoltà del popolo della città mentre il colloquio appassionato con il Cristo restava riservato a un tempo e a uno spazio personale e intimo.
Su questo aspetto lo storico cristiano Claudio Leonardi ha scritto parole decisive e, credo, amare: «Dopo Caterina lo spirituale dovrà sempre più rifugiarsi nel privato, apparire come un fatto che occorre velare perché straordinario e anche pericoloso per l’esperienza storica della Chiesa».
Quando nel 1370 Urbano lascia Roma per stabilirsi a Avignone, Caterina ha una visione che riassume e innalza il messaggio delle precedenti: Cristo le apre il petto e sostituisce il cuore della donna con il suo. È il segno di una trasformazione mistica che trasmette a Caterina una energia unica: guidata dal suo Dio interiore la giovane donna esce dalla sua città natale e affronta il mondo e i potenti della terra con un linguaggio, una sapienza e un coraggio che lei stessa riconosce come «cose nuove». In questi dieci anni, gli ultimi della sua breve vita, avviene qualcosa di prodigioso: Caterina è riconosciuta come profeta e guida del popolo cristiano in un passaggio difficile, al pari di Mosè che aveva traghettato la sua gente attraverso il Mar Rosso. Fino allora il suo compito era stato «convertire i cuori», ma nell’ultimo decennio della vita Caterina vuole convertire e riformare la stessa Chiesa di Avignone sottomessa non solo al potere dei re francesi ma anche segnata dalla «temporalità» e dalla lontananza dal vangelo. Il pensiero di Caterina è lucido e veloce, il suo stile singolare anzi unico, ma come tante altre donne del suo tempo la giovane donna non sa scrivere e detta ad alcuni fedeli litterati della sua comunità le lettere indirizzate ai potenti e agli amici, scritti piene di grida, ammonimenti e preghiere. Nel 1374 i domenicani le assegnano come confessore e segretario personale Raimondo da Capua, forse anche con l’intento di controllarla. Ma fatalmente Raimondo diventa presto un suo devoto, la segue con amicizia e fedeltà assoluta tanto che è Caterina a raccomandargli di esser più libero e staccarsi da tutti, anche da lei («anche da me»).
Caterina dunque scrive, predica, consiglia, viaggia in Italia, va fino ad Avignone e contribuisce a far nascere nel pontefice Gregorio XI la decisione di tornare a Roma. Ma due anni dopo, nel 1378 con l’avvento di un antipapa, l’unità della Chiesa si frantuma e Caterina assiste impotente e disperata alla rovina.
Quando muore a Roma il 27 aprile del 1380 le sue ultime parole sono «dolce Gesù» e «sangue sangue sangue».
Nelle lettere di Caterina dalla prima all’ultima avvertiamo una corrente impetuosa di affettività, un senso straordinario della corporeità e di quella «dolcezza del cuore» che arriva talvolta a sconvolgerla: quando il sangue del condannato da lei convertito all’amore divino e alla pace, durante l’esecuzione capitale le macchia la veste e le invade i sensi e l’anima, scrive: «Riposto che fu, l’anima mia riposò in pace in tanto odore di sangue… che mi era venuto addosso di lui. Non voglio dire di più… Non vi meravigliate figlioli miei dolcissimi se io non vi impongo altro se non di vedervi annegati nel sangue e nel fuoco che versa il costato del figliolo di Dio…Gesù dolce Gesù amore» (lettera 273).
Enigmatica e grandissima Caterina. Vista dall’esterno, fuori dall’aura della sua santità canonica e dell’alta posizione di patrona d’Italia e d’Europa, appare ai nostri occhi di moderni ricca di contrasti difficili da comporre, spesso incomprensibili: una giovane donna incredibilmente tenace e determinata nell’opera che svolge in ambito pubblico (oggi diremmo politico), lucida e forte nelle sua idea di riforma religiosa che riprende con nuova forza molti motivi del dissenso cristiano e delle eresie, appassionata e inquieta nei pensieri e nella immaginazione, sofferente nel suo giovane corpo volontariamente e ostinatamente stremato dal digiuno[1].
Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri
Voce dall’Enciclopedia delle Donne
Note: [1] Interessante l’analisi di R. Bell (La santa anoressia, Laterza 1987) che rimane tuttavia generica: attraverso la malattia l’autore sembra voler spiegare il talento misterioso della santità femminile. È come pretendere di render conto delle straordinarie visioni di Ildegarda di Bingen attraverso gli attacchi di emicrania di cui soffriva. Oliver Sacks (L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi) scrive: «non tutti coloro che soffrono di mal di testa sono in grado di immaginare quel che Ildegarda vede nelle sue grandiose visioni….» e non tutte le anoressiche hanno la forza di parola e d’azione di Caterina.
Consigli di lettura:
Le lettere di Caterina furono riunite dopo la sua morte e rimaneggiate in senso agiografico. Il Duprè Theseider (Epistolario di S. Caterina da Siena, Roma, 1940) riconosce l’autenticità delle 382 lettere ma ne edita criticamente solo 88. Possiamo rifarci all’edizione di U. Meattini ed. Paoline (ultima ed. 1987), Il Dialogo (Caterina l’ha chiamato Il libro della divina dottrina) è nelle Edizioni Cateriniane di G. Cavallini, Roma 1980.
Interessante la traduzione italiana di alcune lettere: Vestitevi di sangue. Lettere ai fedeli (a cura di M.Colombo), Archinto 1991.
Per orientarsi sui numerosi studi dedicati a Caterina da Siena, al di là di quelli più particolarmente agiografici, consiglio:
C. Leonardi, Caterina la mistica, in Medioevo al femminile, Laterza I ed. 1989
Scrittrici mistiche italiane a cura di G.Pozzi e C. Leonardi, Genova 1988
Atti del Convegno, Todi 1983, Temi e problemi della mistica femminile, edito dal Centro Studi della spiritualità medievale.
The feminine mind in medieval mysticism, in Creative women in medieval and early modern Italy, a cura di E. Ann Matter e John Coakley, University of Pennsylvania Press 1995.