Un unico, grande libro, con dentro tutto il sapere conosciuto. Lo vergò un solo uomo, agli inizi del Duecento, a Podlažice, in Boemia, nel chiuso di una cella di un piccolo e sperduto monastero benedettino.
Il nome dell’autore del Codex Gigas, il più grande manoscritto medioevale esistente al mondo, spunta in un necrologio: “Hermanus inclusus”.
Due parole e un anonimo annuncio di morte, per raccontare un uomo e il suo destino: “Hermann, il recluso”. Un monaco, rinchiuso in un convento. Forse per scelta. Oppure per espiare i suoi peccati attraverso una via che appariva privilegiata: quella della copiatura dei testi dell’antichità, paziente trasmissione del sapere grazie alla quale, gli uomini del Medioevo e quelli moderni possono dare ancora ragione a Bernardo di Chartres: “Siamo nani sulle spalle dei giganti”.
Il Codex Gigas, il “Libro Gigante”, per molto tempo fu considerata l’ottava meraviglia del mondo. Oggi è conservato nella Biblioteca Nazionale di Svezia. Fu chiamato con nomi diversi: Gigas Librorum, Codex Giganteus o Fans Bibel. È conosciuto anche con il nome di “Bibbia del Diavolo”, per via di una grande, famosa e colorata illustrazione del demonio che spunta tra le pagine dell’imponente volume.
Da quella grande e vivida immagine, nacque una leggenda, secondo la quale l’autore, per portare a termine un’opera così difficile, vendette la propria anima al demonio. Il fantastico racconto passò di bocca in bocca, tra le campagne, i monasteri e le città: il monaco finì, in una sola notte, il suo incredibile lavoro. Il diavolo, come prevedeva quel patto scellerato, in cambio del suo aiuto, chiese di essere raffigurato nel codice. Alla fine dell’ultima pagina, lo scriba benedettino, si rese conto di quello che aveva fatto: insieme all’anima aveva perso anche la salute della mente. Nel delirio scatenato dal rimorso, implorò l’aiuto misericordioso della Vergine Maria. La Madonna lo soccorse appena in tempo: il penitente morì, qualche istante prima di saldare il conto con il principe delle tenebre.
La leggenda si propagò sulla base di una riflessione comune: il Codex appare in effetti come un’opera miracolosa. Gli studiosi che hanno “vivisezionato” il volume, sono giunti alle stesse conclusioni: il “Libro Gigante” è comunque l’opera di un solo uomo, che ha copiato con cura le antiche parole di fede e saggezza, senza nemmeno un refuso. L’autore non era quindi un semplice scrivano ma un uomo di cultura.
Tutte le pagine sono vergate con il medesimo tipo di inchiostro, ottenuto dalle galle di quercia. Le graziose miniature, in rosso, blu, giallo, verde e oro, forse furono composte, come prevedeva la regola amanuense, da un altro autore. Ma hanno tratti dilettanteschi rispetto ad altre opere dello stesso periodo. Spesso le maiuscole occupano lo spazio di una intera pagina.
La grafia non mostra cambiamenti, segni di malattia, mutamenti di umore dell’autore o cedimenti causati dalla stanchezza o dai crampi alla mano che di frequente colpivano gli amanuensi. Si ripete invece armoniosa e uniforme, pagina dopo pagina: è la minuscola carolina, uno stile di scrittura creato durante il regno di Carlo Magno, già caduto in disuso al tempo in cui venne redatto il manoscritto e che verrà ripreso dai primi umanisti italiani soltanto nella seconda metà del Trecento. Tanta precisione, insieme al fatto che nella gran parte dei manoscritti medievali lo stile della scrittura fosse diverso per il logico alternarsi dei copisti, ha alimentato la leggenda di un libro scritto in un periodo incredibilmente breve.
Ma quanto tempo ci volle per realizzare il grande manoscritto?
Di certo non meno di 25 anni. Il monaco Hermann iniziò il suo lavoro dopo il 1204. Possiamo dirlo in modo certo grazie alla data della canonizzazione di San Procopio di Sazava, patrono della Repubblica Ceca, che è già riportata nel libro. Il Codex Gigas fu finito in una data che varia tra il 1224 e il 1230: nel grande libro si indica infatti la morte del vescovo Andrea di Praga, avvenuta nel 1223 ma non quella del re boemo Ottokar che risale al 1230.
Gli studiosi del Museo Nazionale di Svezia hanno calcolato che a una mano esperta, per scrivere una riga occorrano almeno 20 minuti. In base a questi calcoli, l’estensore del manoscritto per finire la sua opera, avrebbe dovuto lavorare giorno e notte per cinque anni di seguito. Se consideriamo le pause, gli orari della vita monacale, scandita da più turni giornalieri di preghiere e le eventuali malattie che attraversano la vita di un uomo, possiamo calcolare che per realizzare il Codex Gigas ci sia voluto almeno un quarto di secolo.
Il grande volume pesa quasi 76 chili. Misura 92 centimetri in lunghezza e 50 cm in larghezza e ha uno spessore di 22 cm. La copertina, in legno, è rivestita di pelle e mostra alcuni ornamenti in metallo. Le pagine, in pelle d’asino, in origine erano 320 ma 8 fogli, contenenti la Regola di San Benedetto, sono andati perduti. La pergamena del manoscritto è di una qualità rara e costosa: completare il volume richiese l’uso della pelle di almeno 160 animali.
Il “Libro Gigante” comprende la trascrizione completa della Bibbia, quella tratta dalla Vulgata, la traduzione in latino della versione in greco e in ebraico, curata da Sofronio Eusebio Girolamo. Fu chiamata così, “edizione per il popolo”, perché era pensata per essere alla portata di tutti, sia per la diffusione che per lo stile, non eccessivamente raffinato.
Nel Codex ci sono anche i libri degli “Atti degli Apostoli” e della “Apocalisse di Giovanni” tratti dalla Vetus Latina, una traduzione della Bibbia antecedente alla Vulgata. E poi altre opere, all’epoca considerate di fondamentale importanza: la “Etymologiae” di Isidoro di Siviglia, due lavori di natura storica di Giuseppe Flavio, “Antichità giudaiche” e “Guerre giudaiche”, e una storia della Boemia firmata da Cosma Praghese (1045-1125) il precursore della storiografia ceca. Ci sono poi trattati di storia, etimologia e fisiologia, un calendario con la lista dei santi e l’elenco dei monaci ospitati nei monasteri boemi, insieme a un rituale dell’esorcismo, formule magiche e altri documenti sparsi.
La visione famosa del Diavolo sbuca a pagina 290. Immagini del genere sono usuali nell’arte medievale. Ma quello del Codex è uno dei rari casi in cui il demonio appare da solo, a pagina intera, per una altezza di 50 centimetri.
Belzebù è ritratto all’interno di un paesaggio vuoto, delimitato da una semplice cornice. Sembra pronto a balzare fuori dalla pagina: ha il volto verde e la lingua biforcuta. Quasi un poster che schizza su un muro: è accovacciato, con le braccia tese verso l’alto, quattro dita nelle mani e nei piedi, grandi corna e artigli rossi. Un perizoma di ermellino, tessuto di solito associato alla regalità, sottolinea il fatto che siamo proprio di fronte al principe delle tenebre.
Ma la raffigurazione della Città Celeste a pagina 289, proprio accanto al foglio che raffigura il demonio, è la prova provata che dietro la “Bibbia del Diavolo”, non c’è nessun mistero da svelare. Il Bene e il Male sono vicini: sta all’uomo scegliere la strada da seguire.
Di certo è il messaggio che volevano trasmettere ai fedeli i vescovi e i mecenati che pagarono opere simili al Codex. Benefattori che commissionavano ai conventi bibbie di grandi dimensioni in un’epoca in cui i libri erano ancora relativamente pochi. La famosa abbazia svizzera di San Gallo intorno al IX secolo possedeva solo 400 volumi. Con l’aumento di monasteri e la creazione di nuovi ordini monastici si cominciarono a produrre bibbie di dimensioni più piccole.
La “Bibbia del Diavolo”, per i gravi problemi finanziari del piccolo monastero di Podlažice, venne acquistata dal convento cistercense di Sedlec e poi dal monastero benedettino di Brevnov, finché nel 1594 entrò a far parte della biblioteca praghese di Rodolfo II d’Asburgo, appassionato cultore di scienze occulte. Lì potettero vederla anche i grandi astronomi Tycho Brahe e Keplero e il pittore Arcimboldo.
Nel 1648, durante la Guerra dei Trenta Anni diventò parte del bottino di guerra del “sacco di Praga”: le truppe svedesi del generale Konigsmarck portarono il Codex Gigas nel castello reale di Stoccolma insieme a centinaia di altri libri rari, dipinti, bronzi, sculture, gioielli e strumenti scientifici. Di certo la regina Cristina di Svezia, rimirò a lungo le pagine del prezioso manoscritto che anni dopo scampò al terribile incendio che distrusse il palazzo reale (7 maggio 1697). La “Bibbia del Diavolo”, visto e il peso e le dimensioni, fu lanciata dalla finestra: l’opera si salvò anche se in alcune pagine rimasero i segni indelebili delle bruciature.
Il pittore tedesco Jakob Philipp Hackert che nel 1764 lavorò a Stoccolma, ascoltò la leggenda del monaco boemo che vendette l’anima al diavolo e raccontò la storia anche al suo amico Goethe, immortale autore del Faust. Svariate pubblicazioni, soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, si sono occupate del grande libro miniato. Le credenze popolari hanno continuato a alimentare improbabili nessi tra il Codex Gigas e le disgrazie che colpirono i luoghi dove l’opera fu di volta in volta custodita.
Gli svedesi non fanno caso alle superstizioni e si tengono stretto il manoscritto trafugato come bottino di guerra. Quando nel 2007 il Codex Gigas tornò a Praga per una mostra, venne assicurato per 10 milioni di euro. Ma per gli svedesi non ha prezzo. E ora, grazie al Web appartiene all’umanità.
Federico Fioravanti
La versione digitale del Codex si può consultare in rete: http://www.kb.se/codex-gigas/eng/.