Il Carroccio è perso, la croce di ghisa spezzata e gettata nel fango, il comandante Tiepolo fatto prigioniero e poi giustiziato. Milano e Brescia rischiano di essere assediate e rase al suolo. Le città del nord Italia si sottomettono a Federico II. Il 27 novembre del 1237 Federico II “vendica” la disfatta del nonno, il Barbarossa, avvenuta sessantuno anni prima a Legnano.
Nella pianura bergamasca lo “Stupor mundi” infligge una sonora sconfitta militare alla rinata Lega lombarda, ma non riesce a cogliere i frutti politici che lo avrebbero reso padrone dell’Italia. Cortenuova è il punto più alto della parabola di Federico II.
Le premesse Unificare i possedimenti imperiali di Germania e d’Italia. Un sogno accarezzato da Federico Barbarossa e da Enrico VI, ma sempre infrantosi davanti al desiderio di indipendenza dei Comuni lombardi e del Papa. Un sogno che neppure Federico II riuscì a realizzare, costretto a correre in Germania per punire il figlio ribelle Enrico dopo essere riuscito a piegare la nobiltà del Sud Italia. E una volta pacificata la Germania di nuovo in Italia per piegare i lombardi. Era diritto dell’imperatore governare sui territori del Sacro romano impero. “Senonché era già suo era il regnum del Mezzogiorno. Pertanto se la colata montante da sud si fosse fusa con quella discendente da nord, un unico magma avrebbe sommerso, nel centro, un’altra potenza: quella del patrimonium sancti Petri”1. Lo stesso Federico II, attraversando il Mincio nel 1236, aveva ricordato che era suo diritto “avventurarmi nelle terre dell’impero” come un qualsiasi pellegrino o viandante.
I riottosi Comuni del Nord, i ligures, o Collegati, Milano, Brescia, Mantova, Padova, Treviso, Bologna, Faenza, Verona, Piacenza, Lodi, Vercelli, Novara e Alessandria, avevano rifiutato di sottomettersi a Federico II, di partecipare a Diete e negoziati. Rivendicavano quelle libertà conquistate sul campo di Legnano. Guerra, quindi. Anche se l’imperatore svevo preferiva utilizzare il termine “perseguimento di un diritto” quando indicava la punizione da infliggere ai ribelli.
Si prepara la guerra Federico aveva fatto ritorno in Italia nell’estate del 1236, assediando e saccheggiando Vicenza. Papa Gregorio IX aveva cercato di mediare tra Federico e i lombardi, ma il 5 novembre 1236 a Brescia si erano rinsaldati i legami della seconda Lega lombarda ed erano state respinte tutte le richieste dell’imperatore. Un altro tentativo di mediazione del Pontefice era stato portato avanti a Brescia, nel luglio del 1237, alla presenza dei legati pontifici Tommaso di Santa Sabina e Rinaldo d’Ostia e dei rappresentanti dell’imperatore Hermann von Salza, Gran Maestro dell’Ordine teutonico, e il cancelliere Pier della Vigna. Mentre a Brescia si trattava, Federico rinforzava il suo contingente con 2.000 cavalieri teutonici e 6.000 arcieri saraceni, raccogliendo le truppe alleate di Ezzelino da Romano e di Gaboardo di Arnstein dalla Toscana, fino a raggiungere il numero di 15.000 uomini in armi. L’esercito federato, composto da 6.000 fanti e 2.000 cavalieri, era al comando di Pietro Tiepolo, figlio del doge di Venezia. Lo seguiva il Carroccio e la Compagnia dei Forti, altri mille uomini tra cavalieri e pedoni guidati da Enrico da Monza.
La campagna dell’imperatore si aprì con la conquista di Mantova, senza colpo ferire. La città aprì le porte all’approssimarsi dell’esercito imperiale. Cosa che non fece Montichiari, dove una guarnigione di 1.500 fanti e 20 cavalieri resistette per due settimane, permettendo alle truppe della Lega di raggiungere Brescia ed impedendo che Federico la cingesse d’assedio. L’imperatore diede ordine, allora, di devastare il territorio, con l’intenzione di far uscire l’esercito della Lega dalla città e dare battaglia in campo aperto. I bresciani non abboccarono e preferirono attendere i soldati delle altre città federate, ancora in marcia per congiungersi con gli alleati.
La battaglia L’imperatore di ritirò a Pontevico, nelle vicinanze di Cremona. I ligures scelsero Manerbio, poco a nord dell’accampamento imperiale, in un terreno paludoso e protetto da un fiume, tenendo fede ad una strategia puramente difensiva. “Federico II nel 1237 si mostrò desideroso di imporre rapidamente la sua autorità ai comuni cittadini dell’Italia settentrionale e rinfacciò ai Milanesi la tattica dilatoria da loro adottata: «Temendo di venire con noi a battaglia campale, si sforzano di sbarrare il passo al nostro valoroso esercito in strettoie e ai passaggi dei fiumi, formano con i loro armati2 masse che contrappongono ai nostri cavalieri rendendo così impossibile un combattimento libero e senza impedimenti» nel quale sia possibile ottenere, una volta per tutte, la vittoria decisiva”3. A Cortenuova questa tattica, però, costò la sconfitta alla truppe della Lega lombarda.
L’imperatore decise di togliere il campo il 23 novembre, superò il fiume Oglio e congedò una parte delle truppe alleate. Federico II aveva deciso di porre termine alla campagna e di svernare in territorio sicuro. Almeno questo intesero i comandanti della Lega lombarda. E iniziarono a smobilitare anch’essi, marciando verso nord in direzione di Milano. L’esercito imperiale segue la direzione di nord-ovest, risale il fiume per 22 chilometri e si attesta a Soncino. I Collegati vanno a nord, da Manerbio verso Lograto e poi virano verso Chiari e raggiungono Palazzolo. Marciano paralleli all’Oglio e nella nebbia i due eserciti non si vedono. Probabilmente le due colonne sentono il rumore di ferro e carriaggi. Dalla sua posizione Federico può controllare la via di fuga verso Milano e verificare velocemente se i nemici intendono superare l’Oglio a nord o a sud e muovere di conseguenza. Per di più alle spalle dei Collegati c’è un contingente di bergamaschi attestato tra Ghisalba e Cividate al Piano con l’ordine di segnalare con il fumo il passaggio del fiume da parte del nemico. Un compito che i bergamaschi assolsero con molto rigore, dando alle fiamme la chiesa. Virtualmente i soldati della Lega sono già accerchiati.
La propaganda federiciana, posteriore alla battaglia, ha inteso attribuire all’imperatore una precisa strategia per attirare in trappola la Lega lombarda, attraverso un finto ripiegamento per condurre la battaglia in terreno favorevole. Secondo quanto scrive il cancelliere Pier delle Vigne (la vista delle “insegne mortuarie” dei ribelli avvenne “casualiter tamen feliciter”, cioè casualmente, ma con successo), invece, sembra più che Federico si sia reso conto di aver provocato un’occasione favorevole con la sua decisione e di averne prontamente approfittato.
La mattina del 27 novembre le truppe della Lega si apprestano a muovere, dopo aver trascorso la notte nei pressi del castello di Cortenuova, dove si erano trincerati allargando lo spazio tra mura e fossato per collocare il Carroccio. Il simbolo della libertà comunale era trainato, in questa occasione, non dai lenti buoi, ma da veloci e resistenti cavalli da guerra, che muovono per guadare l’Oglio. Passano il fiume le avanguardie di fanteria, poi i milanesi e i piacentini. Intorno alle tredici buona parte dell’esercito ha varcato il fiume e una lunga fila di picchieri e pavesai è schierata a difesa delle operazioni. Il Carroccio e le salmerie sono ancora a Cortenuova. All’improvviso, da sud, giunge un cavaliere. È un esploratore di Federico. L’uomo si lancia verso le truppe della Lega e urla: “Allerta! L’imperatore vi darà sempre battaglia”.
Federico II è già stato avvertito dei movimenti nemici e l’esercito si è subito messo in movimento per coprire i 18 chilometri che lo separano dai lombardi. I soldati di Federico marciano a ranghi compatti, bandiera dopo bandiera, ognuna segue il vessillo del proprio comandante. L’ora è tarda per dare battaglia, ma Federico ha deciso di regolare i conti ugualmente. Il cronista Matteo da Parigi immagina l’imperatore che arringa i suoi uomini: “Alza e dispiega , tenace alfiere mio, l’aquila mia vincitrice. Miei guerrieri, che tante volte vi inebriaste del sangue nemico, sguainate le vostre terribili lame. Travolgete con il vostro furore codesti ratti, che hanno osato uscire dalla loro tane. Che provino oggi le lance folgoranti dell’imperatore romano”.
Gli imperiali coprono la distanza in poche ore e verso le tre l’avanguardia si scontra con un drappello di cavalieri lombardi, mettendolo in fuga. L’imperatore fa marciare le truppe disposte su sette colonne e quando giunge sull’obiettivo non fa schierare le truppe nell’ordine di battaglia, ma lancia subito all’attacco la sua cavalleria dopo un fitto lancio di frecce da parte dei suoi saraceni.
Milanesi e piacentini non si aspettavano una marcia così rapida e un attacco altrettanto veloce. L’unica difesa pronta era il muro di “palvesi” rivestiti di cuoio pesante e una siepe di “lanze longhe”.
Uno schieramento coeso, ma poco numeroso e non in grado di contrastare il tiro dei saraceni e le cariche dei cavalieri teutonici. Il fronte si rompe in poco tempo e i lombardi superstiti cercano di raggiungere Cortenuova, dove già erano ammassati milanesi e alessandrini ammassati intorno al Carroccio. La cavalleria della Lega lombarda, decisiva sul campo di Legnano, viene spazzata dal terreno di battaglia dai duemila “teothoni” lasciando al suolo un ammasso di uomini disarcionati, morti, feriti, cavalli trafitti o scossi. La confusione, d’altronde, regna anche nel campo lombardo quando Federico immette nello scontro le altre truppe venete di Ezzelino da Romano e, poi, la retroguardia con l’intento di cogliere una vittoria decisiva prima del buio. I fanti lombardi, però, tengono duro per quasi tre ore e l’antemurale dei picchieri ripiega ordinatamente. Al grido di “Roma guerriera! L’imperatore guerriero” gli uomini di Federico assaltano le “lanze longhe”, cercano di scalzare dal fossato i picchieri alessandrini e di penetrare nel quadrilatero guelfo stretto attorno al Carroccio, dal quale si alza il grido di “Sant’Ambrogio”. Ancora Matteo da Parigi: “Infiniti, dall’una e dall’altra parte, vengono schiantati. E il grido in mischia dei combattenti, l’urlo dei morenti, il rombo delle armi, il nitrir dei cavalli, il ruggito dei cavalieri che si avvinghiano, la martellante percussione dei colpi folgoranti, gremiscono di fragore lo stesso cielo”.
Più volte nel corso di quelle ore le truppe federiciane sono sul punto di vincere la battaglia, lo stesso imperatore lo ricorda in un suo scritto: “Superato il fossato vedemmo alcuni dei nostri arrivare fino quasi a toccare il timone del Carroccio”. I lombardi, però, tengono duro e respingono i tentativi di penetrazione nel quadrato difensivo. Lo stesso comandante Pietro Tiepolo cade nelle mani dei ghibellini mentre combatte. Gli imperiali scavalcano il contrafforte e il fossato, si fanno sotto, vengono respinti, non c’è spazio per caricare e i cavalieri gettano le lance e mettono mano a spade e asce. Il corpo a corpo infuria. La Compagnia dei Forti rimane saldamente al proprio posto. Poi giunge la sera e cala la nebbia. Federico sospende l’attacco, ma ordina alle truppe di dormire in assetto da guerra, senza togliere le armature, pronti a tutto. Già “nel settembre del 1236 fanti e cavalieri dei comuni fedeli a Federico II giungono al fiume Chiese a non più di due miglia dall’esercito della Lega lombarda, e ivi rimasero tutta la notte armati e schierati aspettando l’arrivo dell’imperatore”4.
L’attacco finale è previsto per le prime luci dell’alba. D’altronde “in azioni intraprese allo spuntare dell’alba si distinguono sia Federico II sia suo figlio Enzio: nel novembre del 1237, durante i movimenti che porteranno alla battaglia di Cortenuova, l’imperatore di primissimo mattino ordinò ai fanti di varcare l’Oglio, il 27, sempre «summo mane», un cavaliere fu inviato a sfidare il nemico che stava a sua volta attraversando il fiume”5.
Durante la notte, approfittando delle nebbia e delle maglie larghe nel blocco degli imperiali attorno a Cortenuova, le truppe lombarde abbandonano il campo, lasciando il Carroccio, spogliato delle insegne, della croce di ghisa e danneggiato in modo da renderlo irriconoscibile. All’alba il castello di Cortenuova è deserto, ma l’imperatore ordina alla sua cavalleria di inseguire i fuggiaschi. La piena dell’Oglio e del Serio impedì alla maggior parte di fuggire e riparare a Brescia o Milano e molti finirono annegati. I prigionieri furono almeno 5.000. Altrettanti rimasero sul campo di battaglia. “Nel 1237, dopo la vittoria di Cortenuova contro la seconda Lega lombarda, Federico II fece scrivere, con la solita magniloquenza, che «in nessun’altra guerra vi furono tanti morti» e che «le sepolture non bastano agli uccisi», ma non si ha alcuna memoria di necropoli, salvo il ritrovamento di qualche sporadico e insignificante frammento di ossa”6. Le perdite imperiali furono esigue.
Le conseguenze Federico II aveva riscattato la sconfitta di Legnano e inflitto una disfatta umiliante alla Lega lombarda. Il Carroccio sfilò per le vie di Cremona trainato da un elefante. Il comandante Pietro Tiepolo, incatenato al Carroccio che sarà poi donato alla città di Roma, verrà spedito a Trani e lì impiccato. L’imperatore Federico celebrò il suo trionfo, distrusse Cortenuova, accettò la sottomissione di Lodi, Novara, Vercelli, Chieri e Savona e l’omaggio di Amedeo IV di Savoia e Bonifacio II del Monferrato, intimò ai milanesi e ai bresciani la resa incondizionata (senza ottenerla) e si inimicò ulteriormente papa Gregorio IX. La parabola di Federico II aveva raggiunto il suo apice, poi verranno la sconfitta di Fossalta, la prigionia del figlio Enzo e la morte nel 1250.
Umberto Maiorca
1 Raffaele Iorio, La rivincita dell’imperatore, in Storia e dossier, Giunti, n. 104, aprile 1996, pp. 39-45.
2 Flavius Vegetius Renatus, Epitoma rei militaris, Stutgardiae-Lipsiae, 1995.
3 A. A. Settia, Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel medioevo, Laterza, 2004, p. 184.
4 A. A. Settia, op. cit., p. 246.
5 A. A. Settia, op. cit., pp. 254-255.
Bibliografia essenziale
Caproni R., La battaglia di Cortenuova, Cortenuova, 1987
Cattaneo G., Federico II di Svevia, Roma, 1992
Kantorowicz E., Federico II imperatore, Milano 1976