Dante, irascibile e sublime

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Dettaglio della statua dedicata a Dante in Piazza Santa Croce a Firenze, opera dello scultore Enrico Pazzi (1865)

Se c’è una cosa che Dante Alighieri proprio non tollerava, era di essere citato a sproposito. Il Sommo Poeta non sopportava proprio di sentire i popolani cantare le sue rime, magari dimenticando e storpiando le parole, né tantomeno ascoltarle declamate dai cafoni in assai poco dignitosi contesti bucolici. Ed era pronto anche a menare le mani, per difendere la purezza della sua poesia.

Nato a Firenze nel 1265 in una famiglia borghese di origini aristocratiche, il piccolo Dante con la puzza sotto il naso ci era nato e cresciuto.
Il padre – Alighiero di Bellincione – faceva il cambiavalute ed era di simpatie guelfe. Ma non era da lui che il figlio avrebbe ereditato le ambizioni politiche. Alighiero ne aveva così poche da riuscire a salvarsi dall’esilio dopo la battaglia di Montaperti. Dante, invece, nella mischia ci si butterà ancora giovanissimo e ci resterà tutta la vita.

“Se non volete darmi affetto datemi almeno un po’ di potere” recita la battuta di un film di Nanni Moretti.
E chissà che non siano state proprio le carenze affettive, a spingere l’Alighieri verso un’affermazione pubblica: la mamma – Bella degli Abati, di famiglia ghibellina – era morta quando il figlioletto aveva appena cinque anni e il padre si era risposato con Lapa di Chiarissimo Cialuffi. Che aveva probabilmente svolto, più o meno, il classico ruolo da matrigna delle fiabe.
Dopo aver studiato grammatica, retorica e dialettica, Dante era diventato allievo del politico ed erudito Brunetto Latini, celebre autore del Tresor, di cui proprio il devoto allievo svelerà pubblicamente (almeno ai posteri) le tendenze omosessuali, gettandolo – affettuosamente – nell’inferno.
Successivamente si era dedicato agli studi di filosofia presso la scuola domenicana di Santa Maria Novella e quella francescana di Santa Croce.

A diciotto anni aveva conosciuto Bice Portinari, figlia del fondatore dell’ospedale di Firenze, che pure aveva già visto una volta quando aveva nove anni. Due anni dopo aveva sposato Gemma Donati, a cui era stato promesso sin da quando era appena dodicenne.

Morta probabilmente di parto – a 24 anni – Beatrice diventerà la più celebre musa della storia della letteratura. Ma già prima della sua prematura scomparsa, il giovane poeta ha iniziato a scrivere e cantare rime con gli amici della sua ristretta e spocchiosissima cerchia di letterati.

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A Firenze, al numero 1 di Via Santa Margherita, c’è il Museo Casa di Dante. La csa degli Alighieri è stata ricostruita agli inizi del secolo scorso

Dopo un soggiorno a Bologna – una sorta di Erasmus ante litteram – il poeta si è gettato a capofitto nel dibattito che oppone il “dolce stil novo” di Guido Cavalcanti alla scuola siculo-toscana di Guittone d’Arezzo.

All’inizio degli anni ’90 Dante Alighieri è un giovane e brillante poeta già molto conosciuto a Firenze. Ma la fama di letterato non basta ad appagare le sue ambizioni: si dà anche alla politica, iniziando una carriera militare che lo porta a combattere nelle guerre contro Arezzo e Pisa, nel 1294 fa parte della delegazione che scorta Carlo Martello D’Angiò (figlio di Carlo II) a Firenze, poi è ambasciatore per conto del Comune e nel 1300 diventa addirittura uno dei sette priori della città opponendosi alle ingerenze di papa Bonifacio VIII.

La Divina Commedia che lo trasformerà nel padre della letteratura italiana e in uno dei più importanti scrittori al mondo, è ancora di là da venire, ma Dante di Alighiero è già uno dei cittadini più conosciuti di Firenze e le sue rime sono molto apprezzate non solo dagli intellettuali ma anche dal popolo.
Forse anche troppo apprezzate, tanto che qualcuno le ha persino messe in musica, facendone canzonette da canticchiare allegramente mentre si lavora. E questa è una cosa che Dante Alighieri proprio non sopporta. Il suo volgare non è per il volgo ed è decisamente meglio non farsi sorprendere dall’autore a canticchiare i suoi versi. Perché sono guai.

Racconta Franco Sacchetti – scrittore vissuto a Firenze tra il 1332 e il 1400 – nel suo Trecento novelle che un giorno Dante, uscito di casa dopo pranzo “passando per porta San Pietro, battendo ferro uno fabbro su la ‘ncudine, cantava il Dante come si canta uno cantare, e tramestava i versi suoi, smozzicando e appiccicando, che parea a Dante ricevere di quello grandissima ingiuria”.

“Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio; sì che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento, di stare insieme crescesse ’l disio”.

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Dante ritratto da Salvador Dalì

Come si permette quel cafone di canticchiare i suoi versi storpiandoli a piacimento, mentre batte il ferro caldo sull’incudine?
Senza dire una parola, il poeta entra nella bottega, prende le tenaglie, il martello, le bilance e tutti gli arnesi e le butta in mezzo alla strada.
Alle proteste del fabbro – privato dei ferri del mestiere e guastato nella sua arte – il poeta replica: “Tu canti il libro e non lo dì com’io lo feci; io non ‘ho altr’arte e tu me la guasti”.
Il fabbro rimane basito. Non sa cosa rispondere: raccoglie mestamente le sue cose, e pensa bene di cambiare repertorio. “E se volle cantare, cantò di Tristano e di Lancellotto e lasciò stare il Dante”.

Un’altra volta il poeta-priore se ne sta andando in giro per Firenze armato fino ai denti: “E portando la gorgiera e la bracciaiola, come allora si facea per usanza” racconta Sacchetti. A un tratto si imbatte in un asinaio che trasporta la spazzatura “il quale asinaio andava drieto agli asini cantando il libro di Dante, e quando aveva cantato un pezzo, toccava l’asino e diceva: “Arri”.

Dante gli si fionda come una furia, si toglie il pesante bracciale e lo usa come arma dando una grande sbatacchiata sulle spalle dell’uomo. Quello si gira spaventato e il sommo poeta urla: “Cotesto ‘arri’ non vi miss’io”.
L’asinaro non è remissivo come il fabbro e si ribella: sfotte il poeta tirando fuori la lingua fin quanto ne può e condisce la smorfia con abbondanti gesti osceni a cui il poeta risponde – con ben più stile (anche se poco dolce e men che meno nuovo) – con battute sprezzanti.

Un caratterino non facile, il Sommo Poeta. Quando nel 1301 partirà alla volta di Roma come ambasciatore, i suoi concittadini non lo faranno più tornare, decretandone l’esilio e costringendolo a vagabondare in giro per l’Italia fino alla morte, che avverrà nel 1321 a Ravenna, dove ancora oggi riposano i resti del padre della letteratura italiana. Così sublime e così arrogante e irascibile.

Arnaldo Casali