Si è sempre detto, e la maggior parte degli scritti sull’argomento non si stanca di ripeterlo, che le donne nel Medioevo lavoravano, ma lavoravano in casa, tessendo e filando, magari alla luce di una candela ricordando il passato, come ce le dipinge in una lirica Ronsard. Potevano al massimo aiutare il marito nella sua attività, e proseguirla se vedove, ma erano retribuite meno rispetto agli uomini e incapaci di sopravvivere col proprio lavoro. Tutto questo secondo l’opinione tradizionale, viziata da preconcetti e da schemi attuali proiettati sul passato.
Questo libro mostra un quadro completamente diverso: donne che lavoravano in tutti i possibili settori, compresa l’edilizia, le miniere e le saline; imprenditrici che si autofinanziavano con propri capitali ottenuti dalla vendita di abiti e gioielli; retribuzioni commisurate “alle reali capacità” e quindi non dipendenti dal genere; donne che col proprio lavoro riuscivano a mantenere se stesse e familiari in difficoltà, o a saldare i debiti dei mariti; nobildonne impegnate nelle attività più varie: dall’organizzazione di laboratori per il ricamo, alla gestione di miniere, alla direzione di opere di bonifica, all’impianto di caseifici, alla gestione di alberghi.
Lucrezia Borgia, ad esempio, era un’abilissima imprenditrice agricola impegnata in lavori di bonifica e in svariate attività, tra cui la produzione di mozzarelle di bufala (di cui tra l’altro era golosa). Non raramente finanziava i suoi affari vendendo i propri gioielli: sacrificando una catena d’oro costruì l’argine di un fiume. Analogamente la madre di Lucrezia con la vendita dei propri monili finanziò la ristrutturazione di un albergo nel centro di Roma, garantendosi in tal modo una cospicua rendita.
C’erano poi le mercantesse, le armatrici di navi per la pesca del corallo, le imprenditrici nell’editoria che firmavano col proprio nome le pubblicazioni, le prestatrici di denaro orientate in particolare al credito verso le aziende femminili.
Dotate di notevolissime capacità organizzative nella flessibilità estrema dei loro ruoli, erano le donne stesse a tenersi al difuori dalle associazioni professionali, che in genere ne tolleravano il “lavoro nero” senza escluderle, ma cercando al contrario di obbligarle ad iscriversi quando avevano necessità di tenerle sotto controllo. Questa divergenza di intenti portò spesso a vivaci scontri tra le donne e le corporazioni o le autorità cittadine, e più di una volta furono proprio le donne ad avere la meglio.
L’apprendistato femminile esisteva, spesso in modo informale, e tendeva ad emergere in casi particolari, quando erano le lavoratrici stesse ad aver bisogno di un attestato che dimostrasse le loro capacità (ad esempio nella lavorazione di materie prime preziose). Talvolta erano invece le corporazioni ad imporre alle donne la stipulazione scritta del contratto di apprendistato, soprattutto in settori importanti per la salute della collettività (come la confezione del pane).
Donne al lavoro nell’Italia e nell’Europa medievali (Secoli XIII-XV), Maria Paola Zanoboni, Jouvence, 2016