“Cardinale Basilio Bessarione: un voto; cardinale Juan de Torquemada: un voto; cardinale Guillaume d’Estouteville: 6 voti; cardinale Filippo Calandrini: un voto; cardinale Enea Silvio Piccolomini: 9 voti”.
È la mattina del 19 agosto 1458 e nel Palazzo Apostolico del Vaticano, il cardinale protodiacono Prospero Colonna ha dato lettura dei risultati del secondo scrutino del Conclave chiamato ad eleggere il successore di Callisto II.
Per il vescovo di Rouen è una pioggia gelata. Era convinto di vincere lui: così convinto che l’ha persino votato, Piccolomini, tanto per fare il signore.
E invece è rimasto fregato: per tre voti il toscano lo ha battuto. Certo i giochi sono ancora aperti, ma vincere la partita, ormai, è un’impresa disperata. Gli italiani si sono compattati per paura che un nuovo papa francese possa riportare la sede pontificia ad Avignone, facendo piombare di nuovo la Chiesa Cattolica nella crisi che ottanta anni prima aveva aperto il più grave scisma della sua storia: quello che aveva visto a un certo punto addirittura tre papi contemporaneamente lottare per il primato; uno scisma sanato da quarant’anni ma che si porta ancora dietro i suoi strascichi.
Se viene eletto Guillaume d’Estouteville – non aveva fatto che ripetere in quei giorni Piccolomini – il papato tornerà in terra straniera. E se pure resterà a Roma, sarà ancora peggio, perché l’intera Chiesa finirà sotto il cappello del Re di Francia.
Così, per quanto divisi nei rispettivi interessi, gli italiani – orfani del più papabile di tutti: Domenico Capranica, scomparso alla vigilia del Conclave – hanno finito per concentrare i loro voti sul cardinale meno potente e più povero del collegio, ma grintoso e dinamico come nessun altro.
Nel primo scrutinio a contendersi la tiara sembravano ancora Piccolomini e Calandrini, vescovo di Bologna e fratello di papa Niccolò V, che avevano raccolto cinque voti ciascuno. Guillaume aveva deciso di approfittare della divisione degli italiani per lanciare la sua candidatura, e aveva promesso incarichi e privilegi ai colleghi francesi e greci.
Nemmeno gli italiani avevano perso tempo, evidentemente, ma come avrebbe mai potuto immaginare che a soffiargli il trono di Pietro potesse essere proprio lui: un vecchio libertino laicissimo, autore di libri erotici e ignorante di teologia: una creatura dell’imperatore rifiutato come vescovo persino nella sua patria, e che era stato addirittura segretario personale di un antipapa?
La partita – ufficialmente – non è ancora finita, ma sarà difficile per il francese riuscire a strappare al senese i due terzi necessari per l’elezione: ad appoggiarlo sono solo de Coëtivy, Colonna, Bessarione, Fieschi, Torquemada e Castiglione, mentre a sostenere Piccolomini sono Balbo, Orsini, Calandrini, Isidoro di Kiev, de Mella, de La Cerda, Jaime de Potual e del Mila y Borja.
Non basterà, al vescovo di Rouen, riuscire a convincere i due cardinali rimasti neutrali – Rodrigo Borgia e Giacomo Tebaldi – dovrebbe trovare il modo di strappare a Piccolomini anche qualcuno dei suoi sostenitori.
Mentre il nostro sta ancora ragionando sulle strategie da adottare per rovesciare la situazione, il cardinale diacono apre la procedura dell’accessus, che permette agli elettori di cambiare in corsa il proprio voto.
C’è un lungo silenzio rotto finalmente da Rodrigo Borgia, che annuncia di dirottare il suo voto su Piccolomini; i partigiani di d’Estouteville chiedono subito di aggiornare la seduta, ma prima che l’assemblea venga sciolta ufficialmente il cardinale Tebaldi interviene annunciando di cambiare anche lui il suo voto a favore di Piccolomini; che adesso ne ha bisogno solo di un altro per essere eletto.
A questo punto lo stesso Colonna si alza in piedi e prima che qualcuno possa fermarlo grida: “Anche io voto per il cardinal di Siena e lo elevo a papa”.
È finita. Ai seguaci del cardinale francese non resta altro da fare se non accodarsi, e regalare a Piccolomini una vittoria all’unanimità, tanto che mentre nell’aula risuonano gli applausi, proprio uno di loro – Bessarione – va a congratularsi chiedendo, come prescrive il rito, se accetta il gravoso incarico e quale nome intenda assumere.
Enea, raggiante, annuncia che si chiamerà Pio II. Ma non è un omaggio a Pio I: il papa letterato e umanista sta pensando all’appellativo del grande eroe troiano di cui porta il nome, il condottiero pagano padre di Roma, la città di cui ora è riuscito a impadronirsi lui: Enea, il “Pio”.
E mentre riceve l’omaggio deferente dei cardinali, che si inginocchiano davanti a lui e gli baciano la mano, Enea Silvio – che pio non lo è mai stato fino ad oggi – ripensa alle parole di san Bernardino da Siena, che lo aveva sconsigliato di farsi frate, non vedendo in lui alcuna vocazione alla vita contemplativa.
“Beh, mi aveva detto che non ero adatto a fare il frate – ride tra sé mentre lo rivestono dei paramenti sacri – mica il papa!”.
Era nato a Corsignano in Val d’Orcia, Enea Silvio Piccolomini, il 18 ottobre 1405, primogenito di 18 figli.
La sua era una delle famiglie più importanti di Siena ma vent’anni prima della nascita di Enea era stata esiliata dalla città e costretta a ritirarsi in campagna, dove versava in difficili condizioni economiche, vivendo del lavoro nei campi.
Che fosse destinato a farsi strada, il primogenito, si era visto subito: di diciotto figli, era l’unico maschio riuscito ad arrivare all’età adulta. E con le due sorelle superstiti manterrà uno stretto rapporto per tutta la vita, tanto che – da buon papa nepotista – riempirà di privilegi i quattro figli di Laudomia e ne farà cardinale uno, Francesco, destinato a diventare a sua volta papa Pio III.
Per tutta la sua giovinezza l’ossessione di Enea era stata quella di riuscire a riconquistare il prestigio e il potere perduto dalla sua famiglia e il padre Silvio – intuendo le sue potenzialità – quando aveva compiuto diciotto anni lo aveva mandato a Siena a studiare diritto.
Al giovane Piccolomini, però, di legge non importava proprio nulla: era invece affamato di letteratura ed era arrivato a spendere tutto – rinunciando anche a comprarsi da mangiare – per crearsi una sua personale biblioteca di classici: Cicerone, Livio, Virgilio, ma anche Petrarca, e i libri che non poteva comprare se li faceva prestare e li trascriveva.
Come ogni uomo divorato dalla passione per l’arte era diventato in breve artista a sua volta: da lettore si era trasformato in poeta, scrivendo versi erotici tanto in latino quanto in volgare; poi si era trasferito a Firenze, entrando nei circoli frequentati dai più celebri umanisti, come Leonardo Bruni e Antonio Beccadelli detto il Panoramita.
La famiglia, però, non aveva approvato questa deriva artistica e dopo due anni lo aveva costretto a tornare a Siena a studiare giurisprudenza.
L’unica cosa che lo aveva affascinato un minimo, in quelle interminabili lezioni di burocrazia, era il dibattito sul conciliarismo che stava sconvolgendo la Chiesa occidentale e nel quale erano implicati molti dei suoi insegnanti.
Il Concilio era stato convocato a Basilea da papa Martino V, applicando una disposizione del Concilio di Costanza che prevedeva di tenere periodicamente un’assemblea di tutti i vescovi proprio per evitare che si sviluppassero insanabili fratture all’interno della Chiesa. All’ordine del giorno c’erano – tra l’altro – la ricomposizione dell’eresia hussita (condannata proprio al Concilio di Costanza), la riconciliazione con la Chiesa Ortodossa (separata da quella Cattolica dal 1054) e la riforma delle strutture ecclesiali.
Martino non aveva tuttavia fatto in tempo ad aprire il Concilio, e il compito era toccato al suo successore: Eugenio IV, che si era trovato subito il conflitto con gli altri vescovi.
Sin dalle primissime sedute, infatti, si erano formate due linee opposte: quella che, su modello di Costanza, riteneva il potere del Concilio superiore a quello del papa (era stato il Concilio, infatti, 15 anni prima a deporre i tre papi rivali e ad eleggere Martino V) e quelli che rivendicavano il potere assoluto del vescovo di Roma.
La diatriba aveva appassionato il poeta ventiseienne, che nel frattempo cercava lavoro in giro per l’Italia, peraltro con scarsi risultati. Intanto aveva conosciuto san Bernardino ed era rimasto tanto entusiasta delle sue prediche da accarezzare l’idea di lasciare tutto e farsi frate; era stato lo stesso predicatore, però, a dissuaderlo: per il poco che l’aveva conosciuto, aveva capito che quel ragazzo non era troppo portato né per la povertà, né per l’obbedienza, né tanto meno per la castità.
Nel 1431, però, era arrivata la grande occasione: proprio a Siena era stato notato da Domenico Capranica, vescovo di Fermo e fondatore del collegio per seminaristi ancora oggi tra i più importanti di Roma. Capranica era diretto a Basilea con l’obiettivo di unirsi alla fazione dei conciliaristi: non erano questioni teologiche, in realtà, a fargli sostenere la superiorità dell’assemblea dei vescovi sul papa, ma interessi squisitamente personali: Eugenio non aveva confermato la sua promozione a cardinale annunciata da Martino prima di morire.
Capranica aveva assunto quindi il giovane letterato senese come segretario e avvocato: sarebbe stato lui a fargli da procuratore davanti all’assemblea conciliare, al fine di ottenergli il riconoscimento della dignità cardinalizia.
Giunto a Basilea nella primavera del 1432, Enea Silvio aveva aderito in pieno al movimento conciliare sbrigando con successo l’affare di Capranica e andando ben al di là delle personali esigenze di quest’ultimo. E quando l’anno successivo Eugenio IV aveva sospeso il Concilio dichiarandolo scismatico in caso di prosecuzione, Enea Silvio si era schierato energicamente contro il gesto del pontefice romano e aveva abbracciato l’oltranzismo con cui l’assemblea conciliare aveva continuato nel suo programma di demolizione della monarchia pontificia.
Quando poi – nel 1434 – il cardinale Capranica si era riconciliato con il Papa, Enea era rimasto a Basilea passando al servizio prima di Nicodemo della Scala, vescovo di Frisinga e poi del vescovo di Novara Bartolomeo Visconti, prendendo parte anche al complotto che si proponeva di catturare Eugenio mentre si trovava a Firenze e ricattarlo, se non addirittura deporlo o ucciderlo.
Il complotto però era stato scoperto ed Enea se l’era dovuta dare a gambe, trovando impiego presso un altro importante cardinale del Concilio – il bolognese Niccolò Albergati – e stringendo amicizia con il suo maestro di casa: Tommaso Parentucelli da Sarzana.
A partire dal 1435, aveva intrapreso una serie di lunghi viaggi in Lombardia, Savoia, Borgogna e Scozia, per cercare di convincere i rispettivi sovrani ad appoggiare l’assise conciliare. Era stata una grande avventura, irta di pericoli ma anche di storie d’amore che avrebbe poi raccontato nei Commentarii.
Profondamente razionalista, Enea Silvio aveva guardato con diffidenza e spirito critico i fenomeni di magia e superstizioni religiose che aveva incontrato nei suoi viaggi, trovando sempre una spiegazione scientifica là dove il popolo gridava al miracolo.
Quando era tornato a Basilea nel 1436 aveva scoperto che anche Albergati era passato con il papa. Enea aveva scelto però la coerenza, schierandosi con la maggioranza fieramente antipapale e contraria ad ogni forma di compromesso, e si era fatto notare per le doti oratorie che avevano favorito una brillante carriera nell’organizzazione del Concilio stesso.
La spaccatura, intanto, aveva raggiunto l’apice nel 1439, quando di fronte alla decisione di Eugenio di trasferire il Concilio a Ferrara, i padri conciliari lo avevano dichiarato decaduto e avevano eletto al suo posto il duca di Savoia Amedeo VIII con il nome di Felice V.
Enea aveva vissuto da protagonista quell’elezione, ma non aveva potuto prendere parte alle votazioni, per un semplice motivo: era un laico, e tale era determinato a restare. La ragione era una sola: non voleva contravvenire all’obbligo della castità; e a Enea Silvio Piccolomini potevate chiedere tutto, ma non di rinunciare alle donne. Quello proprio no.
Ad ogni modo Felice V lo aveva nominato suo segretario personale e nel 1442 lo aveva mandato come ambasciatore alla Dieta di Francoforte, dove – peraltro – aveva ricevuto la corona di poeta. La cosa aveva colpito l’imperatore Federico III di Asburgo che gli aveva offerto un posto nella Cancelleria ed Enea ne aveva approfittato per svincolarsi dalla figura ormai ingombrante dell’antipapa e lasciare definitivamente Basilea, ammorbidendo le sue posizioni conciliariste.
Se in un primo momento aveva cercato di portare Federico dalla parte di Felice, col tempo il diplomatico artista aveva capito che – rimanendo neutrale – lo stesso imperatore avrebbe potuto porsi come arbitro tra le parti e ricomporre la frattura.
Intanto alla corte imperiale Enea Silvio aveva continuato ad assecondare le sue ambizioni letterarie, scrivendo commedie e racconti erotici, e anche quelle amorose: da una donna inglese aveva persino avuto un figlio, che aveva spedito a Siena affidandolo alle cure di suo padre.
Nel frattempo, da tre anni era esploso il dibattito sull’autenticità della Donazione di Costantino, scatenato dagli studi di Lorenzo Valla che aveva dichiarato un falso l’atto su cui si basava proprio la supremazia assoluta del Papa. Enea Silvio aveva cercato in quell’occasione di conciliare la sua anima di umanista con quella di ecclesiastico proponendo di affidare la vertenza al pubblico dibattito nel corso dello stesso Concilio.
Poi c’era stata la conversione.
Le tragedie vissute in quel periodo dalla cristianità, drammi personali, un inesorabile declino fisico che si stava affacciando e lunghe meditazioni lo avevano portato a decidere di chiudere con il passato e dedicare tutta la sua vita a servire Dio, e a 42 anni si era fatto, finalmente, ordinare prete.
Lo scisma conciliare si stava sclerotizzando: i vescovi riuniti in assemblea erano ormai arroccati sulle proprie posizioni e difesi dal Re di Francia, che ne approfittava per depotenziare l’autorità imperiale. Il rischio ormai concreto era quello di una frantumazione dell’Europa cristiana in tante chiese nazionali, sottoposte ognuna al proprio sovrano. Gli interessi dell’Impero germanico convergevano dunque con quelli del Vaticano per fronteggiare l’egemonia francese.
Alla questione Enea aveva dedicato due libri: il primo nel 1440 e il secondo nel 1450 ed era stato inviato a Roma per trattare con Eugenio, approfittando dell’udienza per dichiarare la sua conversione alla causa romana e ottenere il perdono papale.
Negli anni successivi l’ormai celebre diplomatico – tra i pochi a cambiare fronte per questioni di principio e non di convenienza personale – era diventato il ponte tra Chiesa e impero trattando tutti gli snodi della nuova alleanza (a cominciare dalla destituzione dei vescovi eletti dai principi tedeschi) culminata con il riconoscimento del vescovo di Roma come unico pastore supremo della cristianità decretato dalla Dieta di Francoforte, e facendosi portavoce con il Pontefice delle condizioni poste, tra cui spiccava la messa per iscritto della preminenza del concilio sul papato.
Il 23 febbraio 1447 Eugenio IV era morto e al suo posto era stato eletto Tommaso Parentucelli, l’amico di vecchia data di Enea, che aveva preso il nome di Niccolò V ed era riuscito a risolvere la crisi conciliare nell’aprile del 1449, quando Felice V – abbandonato anche dal Re di Francia – aveva abdicato.
Niccolò aveva ricompensato il vecchio amico per il ruolo svolto nominandolo vescovo di Trieste, ma aveva dovuto fare i conti con la netta opposizione del Capitolo della Cattedrale: i preti triestini non avevano nessuna intenzione di prendere ordini da quel vecchio libertino che aveva parteggiato per l’antipapa e si era fatto prete da meno di due anni. Enea, però, l’aveva presa con filosofia, o forse con autentica fede: aveva ripetuto di voler fare solo ciò che piace a Dio e combattere per il vangelo nell’unica Chiesa legittima, ovvero quella romana.
Niccolò V, da parte sua, ci aveva riprovato affidandogli nel 1450 la diocesi di Siena e segnando così un ritorno a casa che si era rivelato tutt’altro che indolore: convinti che Piccolomini avrebbe usato il suo nuovo ruolo per riportare al potere la famiglia, i governanti di Siena lo avevano osteggiato in tutti i modi; quando poi, nel 1456 era diventato cardinale, erano arrivati addirittura a impedirgli di rientrare in città.
Negli anni successivi Enea aveva continuato a trattare accordi diplomatici delicatissimi sul fronte politico europeo ed italiano, miranti a rendere sempre più salda l’alleanza tra Chiesa e impero tedesco, fino ad giungere – nel 1452 – a quella che sarebbe passata alla storia come l’ultima incoronazione di un imperatore da parte di un papa: un capolavoro di diplomazia che gli aveva fatto meritare il titolo di principe dell’impero.
Nel corso della stessa cerimonia Enea aveva invitato la cristianità a mobilitarsi in una crociata per salvare Costantinopoli, assediata dai turchi. Il suo appello, però, era stato inutile: i sovrani europei non si erano mossi e il 19 maggio 1453 la città era stata presa, decretando così la fine dell’impero romano d’oriente e – secondo alcune convenzioni storiche – del Medioevo stesso.
Due anni dopo Niccolò V era morto ed Enea si era trasferito stabilmente in Italia, continuando la sua azione di diplomatico a servizio della Santa Sede; attività che gli aveva fatto guadagnare anche la nomina a cardinale. Il 6 agosto 1458 anche Callisto era morto e una settimana dopo la Falciatrice si era portata via il cardinale Domenico Capranica, dato quasi per scontato per la successione.
La scomparsa del favorito aveva dato spazio alle mire del potente e ricchissimo cardinale normanno Guillaume d’Estouteville, la cui vittoria avrebbe potuto rovesciare completamente la situazione che si era creata così faticosamente in quegli anni, tanto più nel momento in cui la Francia stava cercando di inserirsi nella contesa successione per il Regno di Napoli.
La parte avversa ai francesi – capeggiata dal signore di Milano Francesco Sforza e appoggiata dagli Aragona (rivali dei francesi nella successione a Napoli) – vedeva come papabili Prospero Colonna e lo stesso Piccolomini.
Nonostante fosse uno dei cardinali più poveri del Conclave, Enea aveva guadagnato progressivamente terreno, anche contro il veneziano Pietro Barbo, che si sarebbe comunque rifatto qualche anno dopo col nome di Paolo II.
Il conclave si è aperto il 16 agosto, con la partecipazione di diciotto cardinali su ventiquattro: otto italiani, cinque spagnoli, due francesi, due greci e un portoghese. Nelle consultazioni preliminari del 17 agosto sono stati subito presi degli accordi che vincolano il futuro pontefice all’assenso del Sacro Collegio in alcune materie decisionali di fondamentale importanza, come il trasferimento della Curia romana o la collazione dei benefici maggiori. A tutela dei privilegi del ceto cardinalizio è stato poi ribadito il decreto del concilio di Costanza sul numero e sulla qualità dei cardinali, nonché sulla procedura della loro nomina. Infine, è stato stabilito per la prima volta il cosiddetto piatto cardinalizio, ossia un appannaggio mensile di 100 fiorini, che il papa dovrà corrispondere ai porporati che godano di rendite annue inferiori ai 4.000.
Il 18 agosto, terzo giorno di conclave, sono iniziati gli scrutini, che hanno confermato le previsioni di un duello fra la nazione francese e quella italiana.
Il cardinale normanno non ha esitato ad accusare Piccolomini di inaffidabilità per i suoi trascorsi di conciliarista e per la vocazione di “poeta”, oltre che per essere una creatura dell’imperatore e per la sua ignoranza in materia teologica, ma Enea gli ha ridato pan per focaccia denunciando i rischi della sua elezione per gli equilibri politici e religiosi dell’Europa intera.
Alla fine è stato proprio Barbo, nel secondo scrutinio, a spostare l’ago della bilancia facendo convergere sul poeta senese il pacchetto dei sette voti da lui controllati. “Visto che io non sarò eletto comunque – ha pensato – meglio almeno mantenere il papato sotto la custodia della nazione italiana”.
E ora Enea Silvio Piccolomini è diventato Pio II: ha 53 anni, un fisico minato dalla malattia e una vita intensa e avventurosa alle spalle. Eppure lo sa: il meglio deve ancora venire.
Arnaldo Casali