Scene di un casto erotismo coniugale animano due splendidi affreschi di Memmo di Filippuccio conservati a San Gimignano, sulle pareti della Camera del Podestà. Ma le immagini non ci devono ingannare. Nel Medioevo si andava a letto nudi. E nelle case delle persone benestanti, prendere un bagno caldo prima di dormire era una abitudine che seguivano in molti.
La pregevole e inconsueta testimonianza della pittura senese dei primi anni del Trecento fa parte del percorso museale della Pinacoteca e dei Musei Civici di San Gimignano. Il ciclo di affreschi è dedicato all’amore profano. Memmo di Filippuccio realizzò le opere tra il 1305 e il 1311. Alcuni dipinti affrontano amori tormentati e dagli esiti tragici. C’è, per esempio, Aristotele, follemente innamorato della cortigiana Fillide. E Paolo e Francesca che leggono insieme il libro “galeotto”.
Altri affreschi raccontano invece la felicità dell’amore coniugale. La casa appare allora come un luogo felice: i mali del mondo rimangono fuori, lontani dalla seduzione dei sensi che avvolge l’atmosfera domestica.
La prima scena racconta le tenere carezze e gli sguardi complici degli sposi, immersi con gioia nell’acqua calda di una tinozza. Vicino a loro, vigila una serva, a cui ore prima il padrone ha chiesto di accendere il fuoco e scaldare l’acqua: ora vuole solo accertarsi che tutto vada bene e che i padroni godano di un piacere atteso lungo tutta la giornata.
Nell’altra sequenza gli sposi si stanno coricando: la moglie è già a letto e aspetta il marito che scosta le coperte, ansioso di raggiungerla. La domestica, con gesto ampio e teatrale, afferra le tende e si appresta a chiuderle, come si farebbe con un sipario, per celare a altri sguardi l’intima felicità della coppia.
I colori caldi e accoglienti degli affreschi di San Gimignano riemersero sotto vari strati di imbiancatura durante gli anni Venti del Novecento. Li individuò Giovanni Battista Cavalcaselle, uno dei primi storici dell’arte italiani, che intuì subito che le pitture erano di un artista di scuola senese.
L’attribuzione definitiva a Memmo di Filippuccio arrivò dallo studioso Roberto Longhi. Memmo fu il pittore civico per eccellenza di San Gimignano, dopo essersi formato alla scuola di Duccio di Boninsegna e nel cantiere pittorico della Basilica superiore di Assisi dove fu attivo anche Giotto.
All’artista e ai suoi figli Lippo e Tederigo si devono anche il “Ciclo del Nuovo Testamento” nella Collegiata di Santa Maria Assunta e la grande “Maestà” della sala del Consiglio del Palazzo Comunale, nella quale sono evidenti le influenze del grande pittore Simone Martini, che aveva sposato Giovanna, la figlia di Memmo di Filippuccio.
Molte miniature medievali raccontano con dovizia di particolari come si svolgeva il rito del bagno, che era più o meno frequente, a seconda delle possibilità economiche di chi poteva permetterselo.
Nelle corti e i palazzi, i nobili si facevano sistemare la tinozza con l’acqua calda direttamente nella stanza da letto. Essenze pregiate e petali di rosa profumavano l’ambiente.
L’usanza del bagno, che per molti storici era più praticata nel Medioevo che nell’Ottocento, risale ai re Carolingi. Carlo Magno, come ricorda il suo biografo Eginardo, “invitava non solo i propri figli a bagnarsi con lui, ma anche nobili e amici”. Così poteva accadere che al rito quotidiano celebrato ad Aquisgrana potessero partecipare anche le guardie e i servitori. Con il risultato che insieme al grande re, si mettevano a mollo un centinaio di uomini per volta.
L’esperienza dei bagni pubblici e degli hamam orientali fu introdotta in Europa dai crociati che tornavano dalla Terra Santa. I bagni, chiamati “stufe”, si diffusero molto rapidamente. Tanto che nel 1292 a Parigi ce n’erano 26 e nella fiamminga Bruges addirittura 40. Nella Londra del re Plantageneto Enrico II l’apertura dei frequentatissimi bagni era annunciata dagli strilloni: “Signori che voi andiate a bagnarvi, a prendere un bagno caldo, senza indugio, i bagni sono caldi, non c’è inganno!”.
I frequentatori delle “stufe” diminuirono molto nel Trecento, a seguito delle epidemie, causate anche dal mancato rispetto di elementari regole d’igiene, che falcidiarono la popolazione.
L’invenzione medievale del camino, che spesso troneggiava al centro della cucina, favorì, soprattutto nelle dimore signorili, l’abitudine del bagno caldo.
Nei castelli e più tardi nei palazzi, l’acqua veniva attinta da un pozzo, che a volte si elevava oltre il livello della corte per consentire un agile rifornimento anche nei piani superiori degli edifici.
Le tinozze per il bagno in genere erano di legno, cilindriche, ma spesso anche di forma allungata per consentirne l’uso a più persone contemporaneamente.
Nei periodi più caldi, la vasca veniva sistemata nei giardini esterni dei palazzi. Nelle famiglie benestanti, offrire un bagno era uno “status symbol” che i padroni di casa amavano rimarcare nelle conversazioni con i loro pari.
Nei romanzi di cavalleria, al bagno caldo dell’ospite che arrivava al castello stanco e impolverato dopo un lungo e faticoso viaggio, provvedevano spesso la moglie e le figlie del padrone di casa.
Tra i doveri delle consorti, c’era anche quello di dare ristoro al coniuge con un bagno ristoratore. Nel libro “Storia di un giorno in una città medievale” (Laterza, 1997) Arsenio e Chiara Frugoni ricordano l’episodio di una moglie tradita ma di animo nobile che quando scopre in quali condizioni di indigenza vive la giovane amante del marito, assicura alla donna una bacinella per l’acqua calda, insieme a molta legna da ardere, ai cuscini e a un buon letto con trapunte, coperte e lenzuola pulite, in modo tale che il marito possa stare in quella povera stanza “come se fosse nella casa famigliare” (Le mesnagier de Paris, libro I, pagine 403-407).
I vapori domestici erano il sogno di molti amanti, come preludio a altre gioie, consumate nell’alcova.
Nella seconda giornata del “Decameron” di Giovanni Boccaccio (novella n.2) si racconta la storia di una piacente vedova che preparava immancabilmente un bagno caldo e anche una bella cena per il marchese Azzo che sovente passava la sera con lei. Ma una volta, per un impegno improvviso, il marchese non venne. E la vedova, sconsolata, fece il bagno da sola. Mentre però si crogiolava nell’acqua calda, sentì i lamenti di un giovane che piangeva e tremava di freddo fuori dalla sua porta. La donna ordinò allora alla sua fantesca di far entrare in casa quel giovane che era “quasi assiderato”. E mossa a pietà, gli offrì anche il bagno che ancora era caldo. L’ospite inatteso, rivestito dei panni del defunto marito della donna, fu invitato anche alla cena, apparecchiata davanti a un grandissimo fuoco. Lavate le mani, il giovane e la vedova iniziarono a mangiare conversando amabilmente. E così il ragazzo finì per sostituire il marchese, in tutto e per tutto.
Federico Fioravanti