Solo una croce, vorrebbe adesso. Solo una voce.
Una croce da guardare per l’ultima volta, prima che i suoi occhi siano chiusi dalle fiamme. Una voce che la benedica. Che la rassicuri. Che le dica che, no, Giovanna, tu non sei un’eretica: gli eretici sono quelli che ti hanno legato a questo palo. Gesù è con te: è sempre stato con te e anche adesso è con te, e muore con te su questo patibolo. E tu muori con lui sul suo.
Non sei un’eretica, Giovanna. Dio è con te. La storia è con te. E anche il Papa, sarebbe con te, se solo sapesse cosa stanno combinando in suo nome.
Non sei un’eretica, Giovanna la Pulzella, tu sei una martire e sei un’eroina. Hai combattuto per una nobile causa, sei sempre rimasta fedele a Dio: con il tuo corpo vergine che nessuno è riuscito a violare, con il tuo cuore indomito che nessuno è riuscito a piegare; con la tua fede salda che niente ha potuto far vacillare. Con il tuo amore per la patria, che nessuno è riuscito a far rinnegare.
Non sei un’eretica, Giovanna la Pulzella, non sei una figlia del demonio. Tu sei un’eroina, Giovanna, tu sei una santa. Ti hanno umiliata, ti hanno condannata, e oggi – 30 maggio 1431 – ti bruciano sul rogo come una strega. Ma la storia ti darà ragione. Perché le fiamme bruciano il tuo corpo ma non riusciranno a incenerire il tuo cuore. Perché vincerai la tua guerra: sì, gli inglesi saranno cacciati dal suolo francese, gli stessi abitanti della città in cui ti stanno uccidendo si ribelleranno contro l’invasore e scateneranno la riscossa e la tua amata Patria sarà una grande nazione, nei secoli dei secoli, che non si piegherà mai di fronte a nessuno straniero.
E anche la Chiesa ti darà ragione: faranno un altro processo, dopo la tua morte. Un processo a chi ti ha processato, e sarai completamente riabilitata. Non solo, ma sarai proclamata addirittura santa, e diventerai la santa patrona della tua amata Francia.
Quindi non piangere, piccola Giovanna, ma sorridi. Perché il vincitore non è colui che vince sempre, ma colui che anche quando perde, non è vinto mai!
Ecco, una voce che le dicesse tutto questo, vorrebbe. Ma dove sono santa Caterina, santa Margherita e l’arcangelo Michele? Dove sono adesso? Perché restano in silenzio? Perché la lasciano sola proprio adesso che più che mai ha bisogno di qualcuno che le asciughi le lacrime e la confermi nella sua missione?
Perché non sente più le loro voci, ma solo quelle degli inglesi che urlano: “Death to the witch! Death to the witch!”. Perché non vede croci, ma solo gli sguardi gelidi degli uomini che l’hanno condannata? Uomini di chiesa: vescovi, preti, frati, che in nome del Papa e di Dio l’hanno messa al rogo come strega ed eretica.
E se avessero ragione loro? E se davvero quelle voci non fossero state di Dio ma del demonio? Cosa può saperne lei? E’ solo una ragazzina di 19 anni, una contadina analfabeta che si è messa a capo di un esercito solo perché sapeva – perché sentiva – che era Dio a chiederglielo.
E se anche Dio ora la stesse condannando? Se davvero dopo quelle del rogo ci fossero le fiamme dell’inferno ad aspettarla? Se davvero il perfido vescovo Cauchon non fosse al soldo degli inglesi ma inviato dal Signore per punirla e per correggerla?
No, non è possibile. Perché il Signore non tende trappole, il Signore non si serve della menzogna, non inganna per fare del male. Perché Dio è verità! E quegli uomini di Dio, da quando l’hanno catturata – anzi da quando l’hanno comprata – anzi da quando l’hanno processata abusivamente per conto di quelli che l’avevano comprata, non hanno fatto che tenderle tranelli, inventare accuse totalmente infondate, violare qualsiasi regola.
Anche qui, nella piazza del Mercato di Rouen, un attimo fa: dopo che la sentenza di morte è stata letta, anziché essere presa in custodia dal balivo o dal suo luogotenente come previsto dalla legge, Jehanne è stata abbandonata nelle mani del boia e incatenata sul palo, sopra una gran quantità di legna sistemata in modo tale da scongiurare anche quella che è la prassi per i morti sul rogo: e cioè, che il condannato muoia asfissiato dal fumo e il suo corpo prenda fuoco solo dopo morto. No, Giovanna deve bruciare viva. Così hanno deciso gli Uomini di Dio.
D’altra parte per essere un vescovo, Pierre Cauchon, se ne è sempre fregato con una certa disinvoltura delle regole: è arrivato persino a farla spiare durante la confessione, d’accordo con il prete sacrilego, per cercare di strapparle qualche segreto che potesse incriminarla, peraltro inutilmente. D’altra parte è vero anche, che sempre in violazione delle più sacre regole, stamattina ha esaudito il suo ultimo desiderio di ricevere la comunione, nonostante l’avesse appena scomunicata come eretica.
L’ha anche costretta a firmare un’abiura fasulla, una settimana fa.
Era avvenuto nel cimitero della chiesa di Saint Ouen: di fronte alla forca già pronta e al cardinale di Whinchester Beaufort le era stato chiesto di rinnegare tutte le affermazioni fatte durante il processo.
Grazie a Dio, però, tra quei sedicenti uomini di Dio ce ne era anche qualcuno che a Dio ci credeva veramente e si era ribellato a quel sistema marcio, e due inquisitori domenicani e uno dei giudici l’avevano informata dei suoi diritti.
“Mi rimetto a Dio e al nostro santo padre il Papa” aveva risposto Jehanne.
L’appello al Papa avrebbe dovuto interrompere immediatamente il processo e trasferirlo a Roma. Eppure, nonostante la presenza di un cardinale, la ragazza si era sentita rispondere che “il Papa è troppo lontano”. E subito dopo Cauchon aveva iniziato a leggere la sentenza di morte. “Accetto tutto quello che i giudici e la chiesa vorranno sentenziare!” l’aveva interrotto la ragazza.
A quel punto le avevano consegnato l’abiura da firmare: otto righe in cui la Pulzella d’Orleans si impegnava a non riprendere le armi, né portare abiti maschili, né capelli corti: agli atti, però, metteranno un documento di 44 righe.
Ma Giovanna non era stupida e nemmeno una sprovveduta; anzi, era più furba di quanto i suoi giudici pensassero, e quell’abiura l’aveva firmata – sì – ma con una X. Peraltro, ostentando un enigmatico sorriso.
Normale, avevano pensato loro, è solo una povera analfabeta. Peccato però che – quantunque analfabeta – il suo nome Giovanna lo sapesse scrivere eccome, e con esso avesse firmato molte lettere, mentre la X, come aveva dichiarato durante lo stesso processo, la usava in guerra come codice, per far capire a un capitano che doveva fare esattamente il contrario di quanto scritto nella lettera.
La firma di Jehanne, quindi, rappresentava tutto l’opposto di un’abiura.
La sentenza emessa era stata comunque durissima: Giovanna era stata condannata alla carcerazione a vita nelle prigioni ecclesiastiche, a “pane di dolore e acqua di tristezza”. Ma, quantomeno, sarebbe stata sorvegliata da donne e non da uomini, non più costretta ai ferri giorno e notte e libera dal tormento dei continui interrogatori.
Cauchon, però, ancora una volta sprezzante di ogni regola, aveva ordinato di riportarla nella prigione da cui era stata presa, e in cui si trovava dal 23 dicembre 1430, dove lui, vescovo di Beauvais, l’aveva fatta rinchiudere dopo averla “comprata” a nome del Re d’Inghilterra da Giovanni di Lussemburgo, che l’aveva tenuta in custodia dopo la sua cattura avvenuta il 23 maggio 1430 a Margny. Una cattura resa possibile grazie al tradimento del governatore della città di Compiègne: mentre Giovanna stava ancora tentando un ultimo assalto al nemico, quello aveva dato ordine di chiudere le mura della città pur sapendo che le ultime compagnie non erano ancora rientrate.
Così la Pulzella, che proteggeva la ritirata dell’esercito, era rimasta fuori dalle mura e catturata dagli ufficiali di Giovanni di Lussemburgo, vassallo del duca di Borgogna e a servizio del Re d’Inghilterra.
Nei primi mesi Jehanne era stata trattata come una prigioniera di alto rango e si era anche conquistata la simpatia di tre dame del castello di Beaurevoir, che – peraltro – portavano il suo stesso nome: Jeanne de Béthune, moglie di Giovanni di Lussemburgo, la figlia Jeanne de Bar e Jeanne di Lussemburgo, zia del potente vassallo, che era giunta persino a minacciare di diseredarlo se la Pulzella fosse stata consegnata agli inglesi.
Giovanni, da parte sua, aveva fissato – come da uso – un’ingente somma per il riscatto della prigioniera: 10mila lire tornesi. Tanto avrebbe dovuto pagare il Re di Francia per rimettere in libertà la sua più grande condottiera.
A sorpresa, però, non era stato Carlo VII a pagare il riscatto ma il vescovo Cauchon, per conto del Re d’Inghilterra. E quando l’anziana Jeanne di Lussemburgo era morta, il nipote aveva potuto incassare tranquillamente quel patrimonio (per raccogliere il quale erano state aumentate le tasse alla popolazione della Normandia) e consegnare, il 21 novembre 1430, la Pulzella nelle mani del nemico.
Dopo aver girato diverse fortezze, il 23 dicembre la più grande minaccia per gli inglesi era approdata a Rouen. Nel frattempo il Bastardo di Orléans aveva tentato varie missioni segrete per liberarla, mentre Giovanna stessa aveva tentato due volte la fuga: la prima volta aveva approfittato di una distrazione delle guardie, che però erano riuscite a riacciuffarla; la seconda volta, invece, aveva annodato le lenzuola e ci si era calata da una finestra per poi lasciarsi cadere nel vuoto, sfiorando la morte e finendo immobilizzata a letto per due giorni.
A Rouen Giovanna era stata rinchiusa in una cella stretta, con i piedi serrati in ceppi di ferro giorno e notte, guardata a vista da tre soldati all’interno della stessa cella e due da fuori, con una seconda pattuglia piazzata al piano superiore.
Il processo era iniziato all’insegna dell’illegalità: era accusata di eresia e giudicata dal tribunale dell’Inquisizione, eppure era detenuta in un carcere militare come prigioniera di guerra; d’altra parte lo stesso inquisitore generale di Francia Jean Graverent si era rifiutato di istruire il processo, e il suo vicario per Rouen Jean Lemaistre aveva declinato “per la serenità della propria coscienza”.
Cauchon, dopo aver mandato tre delegati in giro per la Francia a cercare informazioni che potessero incastrare l’imputata, aveva quindi avviato il processo da solo, affidando la sentenza a quarantadue “assessori” scelti fra teologi e uomini di Chiesa di fama che avrebbero interrogato la ragazza.
Il processo era dunque iniziato il 3 gennaio 1431, con una certa confusione riguardo al capo di imputazione: dopo averlo promosso “per stregoneria”, infatti, Cauchon l’aveva cambiato in “per eresia”.
Che la Pulzella fosse Pulzella, cioè vergine, era impossibile, pensava il vescovo inquisitore: è bella, giovane, piena di grinta e di passione e ha passato tre anni in mezzo ai soldati; sicuramente se li sarà passati tutti. Sputtanarla – è proprio il caso di dire – sarà la scintilla che farà incendiare il rogo di questa nemica della Borgogna e dell’Inghilterra.
Così l’aveva fatta sottoporre, ancora una volta, a un esame ginecologico. Con sua amara sorpresa, però, le matrone che l’avevano esaminata avevano sentenziato: la ragazza era illibata. La Pulzella era davvero Pulzella.
Il 21 febbraio 1431 si era tenuta la prima udienza pubblica nella cappella del Castello di Rouen e Giovanna aveva dimostrato subito la sua lucidità e la sua grinta.
“Giuri di dire la verità a qualsiasi domanda ti verrà posta?”
“No – aveva risposto lei – lo farò solo su domande che riguardano la fede”.
Visto che si trattava di un processo per eresia i giudici erano stati costretti ad accettare la condizione posta. Non potevano certo pretendere che un prigioniero di guerra rivelasse a un tribunale ecclesiastico segreti politici riguardanti il conflitto in corso.
Quando però Cauchon le aveva ordinato di recitare il Padre Nostro, lei gli aveva risposto che lo avrebbe fatto solo in confessione.
Così lo aveva messo con le spalle al muro e in forte imbarazzo: Cauchon era un prete, prima che un giudice. E poteva rifiutare di confessare una penitente che con quella stessa richiesta dimostrava la sua buona fede e la sua volontà a sottomettersi all’autorità della Chiesa?
No, non poteva. Ma l’aveva fatto.
Poi era iniziato il bombardamento di domande. Lei aveva una risposta per ognuna, ma veniva interrotta in continuazione e i segretari del processo trascrivevano le sue parole omettendo tutto quello che le risultasse favorevole, tanto che il notaio Guillame Manchon aveva minacciato di astenersi dal presenziare ulteriormente.
Dal giorno seguente il processo si era spostato in una sala del castello sorvegliata da guardie inglesi.
Di chi erano le voci che le parlavano e le davano consigli, perché aveva guidato l’assalto di Parigi in un giorno festivo e – soprattutto – perché indossava abiti maschili?
Perché? Perché andare a cavallo con la gonna non è molto pratico, e nemmeno indossare pizzi e merletti sotto l’armatura. E anche perché quando sei in prigione e i tuoi carcerieri sono maschi, se porti i pantaloni quanto meno gli complichi un po’ più la vita, se cercano di violentarti.
Tentavano di suggerirle anche le risposte, i giudici; ma lei non si faceva intimidire: “Stai attento, vescovo Cauchon – aveva detto – pensa alla salvezza della tua anima!”.
Si rifiutava con pacata fermezza di rispondere a qualsiasi domanda riguardasse strategie di guerra, mentre non aveva problemi a raccontare i suoi dialoghi con santa Margherita, santa Caterina e l’arcangelo Michele. Purché le domande, s’intende, fossero pertinenti.
“Le tue voci ti hanno detto che saresti riuscita ad evadere dalla prigione?”
le avevano domandato.
“E io dovrei venire a dirvelo?” aveva risposto lei con sarcasmo.
Per accusarla di stregoneria si erano attaccati persino ai suoi giochi di infanzia.
“E’ vero che da bambina giocavi intorno a una pianta detta L’Albero delle fate e intrecciavi ghirlande?”.
“Sì, è vero”.
“E c’erano delle fate, in quell’albero?”
“Se c’erano io non le ho viste”.
Le udienze si susseguivano, giorno dopo giorno.
I giudici continuavano ad accanirsi sulla sua abitudine di portare abiti maschili e capelli corti, come se ci fosse qualcosa di eretico in tutto questo. Cercavano di farla cadere in contraddizione o di estirparle qualche notizia sul nemico.
“Quanto era luminosa la sala, quando hai incontrato per la prima volta il Delfino di Francia?”
“Cinquanta torce, senza contare la luce spirituale!”
“Non ritieni di aver peccato mettendoti in viaggio per incontrare il Delfino di Francia contro il parere dei tuoi genitori?”
“Poiché era stato Dio a chiedermelo, avessi avuto anche cento padri e cento madri, fossi anche nata figlia di re, sarei partita ugualmente”.
“Hai tentato di suicidarti, quando sei saltata giù dalla torre del castello di Beaurevoir?”
“No, era un tentativo di evadere. Ed era un mio diritto, visto che sono prigioniera di guerra”.
“E’ vero che portavi con te una mandragora?”
“No. So che molti ritengono che porti fortuna e denaro, ma io non ci credo”.
“Perché in battaglia portavi sempre lo stendardo?”
“Perché non volevo uccidere nessuno. E non ho mai ucciso nessuno”.
“Sei certa di non cadere più in peccato mortale?”
“Mi rimetto in tutto a Nostro Signore”
“Sei certa di trovarti in stato di grazia?”
“Se non lo sono, che Dio mi ci metta; se lo sono che Dio mi ci mantenga!”
“Quale è stato il segno che è stato dato al Delfino per convincerlo a prestarti fede?”
“Un angelo ha consegnato al Delfino Carlo una corona di grande valore, simbolo della volontà divina che guidava le sue azioni al fine di far riconquistare il regno di Francia”
“Dunque tu hai visto un angelo?”
“Vengono spesso tra gli uomini senza che nessuno li veda; io stessa li ho visti molte volte in mezzo alla gente”
“L’arcangelo Michele, con cui dici di parlare, ha i capelli?”
“E per quale ragione avrebbero dovuto tagliarglieli?”
“Ti sottometti all’autorità della Chiesa?”
“Sì, ma per primo a quella di Dio”.
“Tu sai che esiste una Chiesa trionfante e una Chiesa militante?”
“Che Dio e la Chiesa siano una cosa sola, mi sembra chiaro. Ma voi, perché fate tanti cavilli?”.
Per sei interrogatori i giudici avevano cercato qualunque appiglio per dichiararla eretica o strega, per sei interrogatori Jehanne aveva riconosciuto l’autorità della Chiesa e aveva ribadito di affidarsi completamente a Dio.
Alla fine, il 27 e il 28 marzo le avevano letto i 70 articoli che componevano il suo atto di accusa: secondo loro Giovanna avrebbe bestemmiato, portato con sé una mandragora, stregato lo stendardo, la spada e il suo anello conferendo ad essi virtù magiche; frequentato le fate, venerato spiriti maligni, tenuto commercio con due “consiglieri della sorgente”, fatto venerare la propria armatura, formulato divinazioni, preteso di entrare in contatto direttamente con il divino senza la mediazione della Chiesa, e – soprattutto – indossato abiti maschili.
Il 31 marzo, interrogata nella sua cella, Jehanne aveva acconsentito a sottomettersi alla Chiesa, a patto che non le fosse chiesto di affermare che le voci non provenissero da Dio. Nonostante le sue suppliche, però, non le fu acconsentito di partecipare alla messa di Pasqua né di fare la comunione.
I settanta articoli erano stati poi condensati in 12 sottoposti alla giuria degli assessori, in cui la si definiva “idolatra”, “invocatrice di diavoli”, “blasfema”, “eretica” e “scismatica”.
Molti dei giudici, però, si erano trovati a difendere Giovanna: Raoul le Sauvage aveva ritenuto che tutto il processo dovesse essere inviato al Papa, il vescovo di Avranches aveva detto che non c’era nulla di impossibile in quanto affermato dalla ragazza, mentre Jean Lohier aveva sbottato: “Questo processo è illegale nella forma e nella sostanza: gli assessori non sono liberi ma costretti a giudicare sotto minaccia, le sedute si tengono a porte chiuse, gli argomenti trattati sono troppo complessi per una ragazzina; e soprattutto, questo processo non ha niente a che fare con l’eresia: è un processo politico con cui si vuole colpire il re di Francia!”.
La reazione nei confronti del giudice era stata durissima, tanto da costringerlo a fuggire immediatamente da Rouen.
Il 16 aprile, poi, c’era stato il presunto tentato avvelenamento: Giovanna si era ridotta in fin di vita dopo aver mangiato un pesce che le aveva mandato Cauchon.
All’inizio di maggio la Pulzella aveva subito “ammonizioni caritatevoli” e minacce di tortura, continuando ad appellarsi inutilmente al Papa.
Poi, il 24 maggio, c’era stata quell’abiura fasulla, al termine della quale Jehanne si era ritrovata ancora nella sua cella e con un trattamento ancora più pesante. Il Vescovo voleva indurla a riprendere gli abiti maschili per poterla mandare finalmente al rogo, così aveva autorizzato una delle guardie a violentarla.
Quello le era saltato addosso all’improvviso, ma in tre anni di guerra in prima linea la ragazza aveva imparato a difendersi e il tentato stupro era finito con una lotta da cui era uscita ferocemente massacrata.
La mattina di domenica 27 maggio un altro soldato le aveva rubato gli abiti femminili e le aveva gettato in cella quelli da uomo. Nonostante le sue proteste, non le erano stati concessi altri vestiti, e così – a mezzogiorno – Giovanna era stata costretta a cedere. Quando il giorno dopo erano arrivati Cauchon e il viceinquisitore Lemaistre (che aveva da tempo abdicato alla sua coscienza a causa delle pressioni subite) Giovanna aveva affermato di aver ripreso l’abito maschile di propria iniziativa, poiché si trovava tra uomini e non, come suo diritto, in una prigione ecclesiastica, sorvegliata da donne.
Interrogata per l’ennesima volta, aveva ribadito di credere che le voci che la consigliavano erano quelle di santa Caterina e santa Margherita, di essere stata inviata da Dio per la liberazione della Francia e di non aver capito una sola parola dell’atto di abiura: “Dio mi ha mandato a dire per bocca di santa Caterina e santa Margherita quale miserabile tradimento ho commesso accettando di ritrattare tutto per paura della morte; mi ha fatto capire che, volendo salvarmi, stavo per dannarmi l’anima!”. “Preferisco fare penitenza in una sola volta e morire – aveva aggiunto – piuttosto che sopportare più a lungo la sofferenza di questa prigione”.
Il 29 maggio Cauchon ha riunito per l’ultima volta il tribunale per decidere la sorte di Giovanna. Su 42 assessori 39 hanno dichiarato che è necessario leggerle nuovamente l’abiura formale e proporle la “Parola di Dio”. Cauchon e Lemaistre, però, hanno ignorato completamente il parere della giuria e condannato Giovanna al rogo.
No, Dio non può accettare tutto questo. Non può. Dio è giustizia. Dio è misericordia.
Ma allora perché resta in silenzio proprio adesso? Adesso che la sua diletta, la Pulzella di Orléans mandata a salvare la Francia, vestita di bianco come una sposa sta per essere divorata dalle fiamme insieme a tutto ciò che le è appartenuto, tutto ciò che ha anche soltanto toccato, perché nessuna sua traccia possa restare in questo mondo?
Perché nessuna voce arriva a confortarla? Perché nessuna croce si para davanti al suo sguardo a dirle che – sì – è da cristiana che muore, Giovanna d’Arco, non da eretica, non da strega, non da adoratrice del demonio.
Cade in ginocchio, la Pulzella, mentre le fiamme si alzano a divorarla. E invoca Dio, la Vergine, l’Arcangelo Michele, santa Margherita e santa Caterina. Chiede disperatamente una croce. Una croce da stringere al petto.
“Datemi una croce!”
A quel punto quasi un miracolo: un soldato inglese prende dalla fascina che sta ardendo due rami secchi, li lega a forma di croce e li porta alla condannata. Jehanne se li stringe al petto mentre le fiamme divorano il suo corpo vergine.
La Pulzella piange e invoca Dio. Vorrebbe vedere una croce ma vede solo fumo davanti a sé. “Perdono! Perdono! Perdono!” grida. Invoca il perdono, offre il perdono. Prega Dio, chiede una croce.
Il boia esita, ma i soldati inglesi lo aggrediscono per costringerlo a gettare nel fuoco zolfo, olio e carbone: ci vuole un fuoco bello grosso e potente, per far scomparire subito dalla faccia della terra la Pulzella di Orléans. Perché della Puttana dei Armagnac non resti che cenere.
“Vi prego, datemi dell’acqua benedetta! Vi prego!” grida Jehanne.
Ma ormai nessuno può più avvicinarsi: Giovanna d’Arco è una torcia umana. Ormai brucia. Brucia tutto. Brucia la carne. Brucia la vita. Brucia il mondo intorno. Fuoco di dannazione? Fuoco di purificazione?
Una croce. Vorrebbe morire guardando una croce. Una croce, ti prego.
E all’improvviso tra le fiamme scorge proprio una croce. Una grande croce di luce che sembra ardere con lei. La croce, sì, la croce! La vede!
Il dolore è atroce. Tutto il suo corpo è in fiamme. Ma Cristo è lì con lei.
“Gesù!” grida Giovanna prima che la sua vita ardendo si spenga.
Ma quella croce rimane lì, di fronte al rogo, sorretta con tutta la sua forza da Isambart de La Pierre, il frate domenicano che aveva cercato di aiutarla in quei mesi, e che aveva risposto alla sua ultima invocazione.
Brucia Giovanna d’Arco. Ma non tutta. Quando il rogo si spegne, la Pulzella d’Orléans non c’è più ma il suo cuore è ancora lì. Nessuno riuscirà a distruggerlo, e nessuno potrà impedirgli di continuare a battere nel petto di milioni di persone negli anni, nei decenni, nei secoli.
E nel profondo del suo cuore rovente
lui prese ad avvolgere Giovanna d’Arco
e là in alto e davanti alla gente
lui appese le ceneri inutili del suo abito bianco
Ho visto la smorfia del suo dolore
ho visto la gloria nel suo sguardo raggiante
anche io vorrei luce ed amore
ma se arriva deve essere sempre
così crudele e accecante
Arnaldo Casali