Giuliano l’apostolo dell’anticonformismo.
Ribelle, irriducibile, stonato, sempre fuori dal coro, “controcorrente rispetto all’onda della storia” come lo ha definito la studiosa della civiltà bizantina Silvia Ronchey. Costantemente in marcia in direzione ostinata e contraria.
Gli altri si rasano? E lui porta la barba; gli altri fanno la guerra e lui la filosofia, gli altri si tuffano nei nuovi stili della retorica e lui riscopre i classici, gli altri cercano il potere e lui cerca sé stesso, gli altri pensano al teatro e alle danze, e lui pensa a Dio. Gli altri si truccano e si danno le arie, e lui è rozzo e semplice. Gli altri si spartiscono il mondo, lui cerca di elevare la sua spiritualità. Gli altri inseguono la conquista del mondo e lui è un condottiero noglobal. Gli altri si convertono al cristianesimo, e lui torna alla religione ellenica.
In fuga da ogni etichetta, è anticonformista anche nei confronti di sé stesso, coerentemente contraddittorio com’è: serioso e sarcastico, razionalista e superstizioso, semplice e megalomane, pacifico e guerrafondaio, tollerante e teocratico, affascinato da Cristo e nemico del cristianesimo.
Chiamatelo pure l’Apostata, ma lui resta il più fedele e il più religioso dei Cesari. Pagano, sì ma laico no, mai.
Laici erano gli imperatori cristiani, che si erano convertiti solo per tenersi buoni il nuovo potere in piena espansione, per cavalcare l’onda che stava travolgendo il mondo, per domare una fede rivoluzionaria: laico era Costantino, che aveva legalizzato il cristianesimo solo per assumerne il controllo e sfruttarlo per le sue ambizioni politiche.
Giuliano no, Giuliano ci crede davvero, in Dio.
Ma non al Galileo buonista che offre un Paradiso a buon mercato: lui crede a a quello dei avi, a quello che ha creato, guidato, protetto, vegliato l’umanità per millenni: Giuliano riscopre le sue radici, non le rinnega.
Perché lui ci crede profondamente, lui – forse solo lui è rimasto, a crederci davvero – nelle radici.
Non vuole imporre a nessuno un culto che non gli appartiene; non vuole imporlo ai cristiani, ma non vuole nemmeno che i cristiani lo impongano agli altri. Ognuno deve pregare il suo Dio: quella che rifiuta è la globalizzazione del culto: tutti i popoli devono riscoprire le proprie radici; anche gli ebrei, tanto che prova persino a ricostruire il Tempio di Gerusalemme, anche se i lavori – appena cominciati – vengono fermati da un terremoto e non riprendono più.
Il Dio dell’universo – secondo Giuliano – ha affidato a ciascun popolo un proprio protettore. Il problema dei cristiani è che loro, un Dio, non ce l’hanno: perché i cristiani non sono un popolo, ma solo un gruppo di eretici: “Non sono né ebrei né greci, ma appartengono all’eresia galilea” scrive:
“Infatti, in un primo tempo seguirono la dottrina di Mosè poi, apostatando, presero una loro via propria mettendo insieme dagli Ebrei e dai Greci i vizi che a questi popoli furono legati dalla maledizione di un demone; presero la negazione degli dei dall’intolleranza ebrea, la vita leggera e corrotta dalla nostra indolenza e volgarità, e osarono chiamare tutto questo religione perfetta. Ne venne fuori un’invenzione messa insieme dalla malizia umana. Nulla avendo essa di divino, e sfruttando la parte irragionevole dell’anima nostra che è incline al favoloso e al puerile, riuscì a far tenere per veritiera una costruzione di mostruose finzioni”.
Lo stesso Gesù, d’altra parte, non è certo un’antica e potente divinità:
“È nominato da poco più di trecento anni, senza che nella sua vita abbia fatto alcunché di memorabile, a meno che non si considerino grandi imprese aver guarito zoppi e ciechi e aver esorcizzato indemoniati nei paesucoli di Betsaida e di Betania”.
È però vero che anche Gesù è considerato dai Cristiani un dio, ma si tratta di una deviazione dalla stessa tradizione apostolica. E Giuliano, che il cristianesimo lo ha studiato a fondo, lo sa bene:
“Che Gesù fosse Dio non osò dirlo né Paolo, né Matteo, né Luca, né Marco, ma solo l’ineffabile Giovanni, quando vide che già molta gente, in molte città di Grecia e d’Italia, era presa da questo contagio”.
In compenso che i cristiani fossero già dissoluti in origine lo dimostra lo stesso Paolo, quando rivolgendosi ai suoi discepoli, scrive che
“né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapinatori erediteranno il Regno di Dio. E voi non ignorate queste cose, fratelli, perché anche voi eravate così”.
Flavio Claudio Giuliano è nato a Costantinopoli nel 331, nel mezzo di quei settant’anni che separano la legalizzazione del cristianesimo dalla sua imposizione come religione ufficiale dell’impero. Si chiama Flavio come tutti i membri della famiglia di Costantino, Claudio come il fondatore della dinastia Claudio il Gotico, e Giuliano come il nonno materno.
La madre Basilina muore pochi mesi dopo il parto: si dirà poi che aveva sognato di dare alla luce un nuovo Achille. Giuliano porterà con sé la nostalgia di una figura che non ha mai conosciuto e le dedicherà un giorno una città di nuova fondazione: Basilinopoli.
Suo padre è Giulio Costanzo, fratellastro di Costantino e tra i suoi possibili eredi. Ma nemmeno lui vedrà crescere il figlio: quando Costantino muore improvvisamente nel 337 la situazione precipita nel caos. Il figlio Costanzo II arriva subito a Costantinopoli per organizzare i funerali e prepararsi alla successione, ma i pretendenti al trono sono fin troppi. Così, per fare un po’ di pulizia vengono massacrati gran parte dei parenti del defunto imperatore, tra cui lo stesso Giulio Costanzo.
Gli unici a sopravvivere alla strage sono Giuliano e il fratellastro Gallo. Oltre al padre vengono uccisi anche il fratellastro maggiore, uno zio e sei cugini.
“Tutto quel giorno fu una carneficina – ricorderà – e per l’intervento divino la maledizione tragica si avverò. Si divisero il patrimonio dei miei avi a fil di spada e tutto fu messo a soqquadro”.
Divenuto adulto, Giuliano rintraccerà nella bramosia di potere di Costantino l’origine di tutti i mali dei suoi discendenti:
“Ignorante com’era credeva che bastasse avere un gran numero di figli per conservare la sostanza, che aveva accumulato senza intelligenza, non preoccupandosi di fare in modo che i figli fossero educati da persone sagge”.
Chi abbia ordinato la strage non si è mai saputo: ufficialmente è un’iniziativa presa dai soldati stessi, che vogliono sul trono solo figli dell’imperatore. Ma sicuramente Costanzo II non muove un dito per impedirla, né punisce i responsabili. Secondo alcune fonti è stato lo stesso Costantino, in un testamento affidato al vescovo ariano Eusebio, ad accusare i fratellastri di averlo avvelenato.
Quel che è certo è che quando rimane orfano di entrambi i genitori Giuliano ha solo sei anni e viene affidato proprio al vescovo Eusebio, trascorrendo le estati nella villa della nonna a Nicomedia, dove studia retorica e filosofia e viene educato alla religione cristiana.
“In quella profonda calma ci si poteva sdraiare e leggere un libro e di tanto in tanto riposare gli occhi. Quando ero un bambino, quella casa mi sembrava il luogo di villeggiatura più bello del mondo”.
Qui avviene l’incontro con l’eunuco Mardonio, già precettore della madre, che viene incaricato di provvedere alla sua istruzione. Da lui Giuliano apprende la letteratura classica e soprattutto Omero, che gli apre la fantasia sul mondo favoloso dell’epica:
“Il mio pedagogo mi abituava a chiamare serietà l’essere rozzo, saggezza l’essere insensibile, e forza d’animo il resistere alle passioni, e mi ammoniva dicendomi: – Non lasciarti trascinare dai tuoi coetanei che frequentano i teatri ad appassionarti per gli spettacoli. Ami le corse dei cavalli? Ce n’è una bellissima in Omero. Prendi il libro e leggi”.
Successivamente per ordine dell’imperatore viene trasferito insieme al fratellastro Costanzo Gallo nella villa imperiale di Macellum in Cappadocia:
“Che cosa dovrei dire dei sei anni passati in quel podere altrui, come coloro che i Persiani tengono sotto guardia nelle fortezze, senza che nessun estraneo si avvicinasse, né fosse concesso a nessuno degli antichi conoscenti di farci visita? Vivevamo esclusi da ogni serio insegnamento, da ogni libera conversazione, allevati in mezzo a uno splendido servitorame, esercitandoci con i nostri schiavi come con dei colleghi”.
Ritornato finalmente alla corte di Costantinopoli, Giuliano a vent’anni si allontana dal cristianesimo, maturando una concezione religiosa ispirata all’antico politeismo e al misticismo neoplatonico.
Secondo la filosofia neoplatonica – inaugurata da Plotino e proseguita dai suoi diretti allievi Porfirio e Giamblico – tutta la realtà è concepita come emanazione dell’entità divina assoluta, l’Uno: compito supremo dell’uomo è cercare di risalire a quell’unità, giungendo all’assimilazione mistica con il divino, che è possibile raggiungere attraverso la razionalità del pensiero, con la contemplazione o le pratiche magiche.
Giuliano viene descritto “di media statura, con i capelli lisci, un’ispida barba a punta, con begli occhi lampeggianti, segno di viva intelligenza, le sopracciglia ben marcate, il naso diritto e la bocca piuttosto grande, con il labbro inferiore pendulo, il collo grosso e curvo, le spalle larghe, ben fatto dalla testa ai piedi, così da essere eccellente nella corsa”.
È di carattere estroverso, di modi semplici e si fa avvicinare volentieri, senza mostrare l’alterigia e il distacco comuni ai personaggi d’alto rango.
A Efeso Giuliano viene istruito alla teurgia giamblica:
“Sentì parlare – scrive Libanio – degli dei e dei dèmoni che hanno creato questo universo e lo mantengono in vita, apprese che cos’è l’anima, da dove viene, dove va, ciò che la fa cadere e ciò che la risolleva, che cosa sono per essa la prigionia e la libertà”.
Infine, viene iniziato al culto mitralico:
“L’oscurità attraversata da improvvisi lampi di luce – scrive Ignazio Tantilo – lunghi silenzi rotti da mormorii, voci, grida, e poi il frastuono di musiche cadenzate da un ritmo ripetitivo, profumi d’incenso e di altre fragranze, oggetti animati da formule magiche, porte che si spalancano e si chiudono da sole, statue che si animano e tanto fuoco di torce”.
Ufficialmente si dichiara ancora cristiano praticante, ma nella sua villa a Nicomedia si intrattiene con “amici delle Muse e degli altri dei”, tra cui retori, sacerdoti e sacerdotesse.
“Fin da fanciullo – dirà – fu insito in me un immenso amore per i raggi del dio, e alla luce eterea indirizzavo il pensiero tanto che, non stanco di guardare sempre al Sole, se uscivo di notte con un cielo puro e senza nubi, subito, dimentico di tutto, mi volgevo alle bellezze celesti”.
Nel frattempo Costanzo II riesce a impadronirsi di tutto l’impero, mentre Gallo fa una carriera lampante che lo porta a diventare uno dei più stretti collaboratori dell’imperatore, ma finisce per tradirlo ed essere condannato a morte nel 354.
Giuliano, che ha 23 anni, viene convocato dal cugino a Milano.
Durante il viaggio visita la Ilio cantata da Omero, dove Pegasio, un vescovo che si definisce cristiano ma che segretamente adora il Sole, favorisce il culto di Ettore, la cui statua di bronzo “brillava, tutta lucida d’olio” e accompagna Giuliano a visitare il tempio di Atena e la presunta tomba di Achille.
Arrivato a Milano viene accusato di aver tramato con il fratellastro contro l’imperatore e incarcerato per sei mesi. Poi viene esiliato ad Atene, dove arriva nell’estate del 355. Mai esilio fu più gradito:
“Era come se Alcinoo, dovendo punire un Feace colpevole, l’avesse messo in prigione nei propri giardini”.
In Grecia visita le rovine dei templi, partecipa a culti misterici e si intrattiene con sacerdoti, ma conosce anche i futuri vescovi Basilio di Cesarea e Gregorio di Nazianzo.
“Non prevedevo nulla di buono – scriverà Gregorio – vedendo il suo collo sempre in movimento, le spalle sobbalzanti come piatti di una bilancia, gli occhi dallo sguardo esaltato, l’andatura incerta, il naso insolente, il riso sguaiato e convulso, i movimenti della testa senza ragion d’essere, la parola esitante, le domande poste senza ordine né intelligenza e le risposte che si accavallavano le une con le altre come quelle di un uomo senza cultura”.
Già in autunno viene però richiamato da Costanzo II a Milano. Si affida completamente alla volontà degli dei, che non lo tradiscono: questa volta, infatti, le intenzioni dell’imperatore si rivelano tutt’altro che ostili: Giuliano riceve il titolo di Cesare, sposa la sorella dell’imperatore Elena e viene mandato in Gallia a difendere l’impero dalla minaccia dei Franchi e degli Alamanni.
Giuliano continua a praticare segretamente i culti pagani, mentre la moglie Elena – come la nonna – è una fervente cristiana; tra i due non c’è idillio né dialogo, e nemmeno eredi: Elena rimane infatti incinta due volte ma una volta perde il figlio durante la gravidanza e l’altra lo partorisce morto.
In Gallia Guliano arriva con 360 soldati e nessuna preparazione militare. La guerra la conosce solo dai libri di Giulio Cesare, ma non ha bisogno di esperienza: l’imperatore – diffidente nei confronti del cugino – gli ha affidato i suoi migliori generali che rispondono del proprio operato direttamente all’imperatore. Solo dopo un anno di guerra Costanzo gli affida finalmente il controllo effettivo della spedizione, e Giuliano non lo delude: dopo aver sconfitto gli alemanni a Strasburgo attraversa il Reno e si riprende tutti i presidi romani che erano stati occupati dal nemico, per ritirarsi poi a Parigi.
“La mia cara Lutezia. I Celti chiamano così la cittadina dei Parisii. È un’isola non grande, posta sul fiume, e un muro la cinge tutta intorno: ponti di legno permettono il passaggio da entrambi i lati, e raramente il fiume cala o s’ingrossa, in generale rimane uguale d’estate e d’inverno, offrendo un’acqua dolcissima e purissima a chi vuole vederla o berla”.
Nella primavera del 358 si spinge fino alle Fiandre per combattere i Franchi, riuscendo a gestire una situazione delicatissima a causa delle poche risorse a disposizione. Le sue non sono vittorie effimere:
“Dopo che ebbe lasciato le provincie occidentali e per tutto il tempo che rimase in vita – scrive Ammiano Marcellino – tutti i popoli si mantennero quieti, quasi fossero stati pacificati dal caduceo di Mercurio”.
Il giovane Cesare non si limita a riconquistare dei territori, ma procede ad una riforma radicale delle amministrazioni, riducendo di due terzi le tasse e riuscendo a farsele bastare in modo molto saggio: da una parte smette di opprimere le zone colpite di guerra e dall’altra di concedere condoni ai ricchi evasori di altre province. Riforma anche la giustizia, presiedendo i processi di appello e pretendendo prove.
“Chi sarà colpevole se basterà negare?” gli dicono: “E chi sarà innocente se basterà accusare?” replica.
Mentre dimostra di essere un eccellente amministratore, inizia anche la sua attività di scrittore, componendo una serie di Panegirici, alcuni dei quali ironicamente dedicati a Costanzo, che definisce “un cittadino sottoposto alla legge, non un monarca al di sopra di essa”. Che potrebbe sembrare un complimento, se non fosse che proprio Costanzo nella sua Lettera al Senato aveva teorizzato una società senza leggi, bastando la figura dell’imperatore a regolare secondo giustizia il civile consesso umano.
Nel gennaio del 360 proprio Costanzo – impegnato nella guerra contro i persiani – chiede a Giuliano di inviargli metà del suo esercito e della sua guardia personale.
“La popolazione di Parigi – scrive Libanio – credeva di essere alla vigilia di una nuova invasione e della rinascita dei mali che erano stati estirpati con grande fatica. Le madri che avevano dato dei figli ai soldati mostravano loro i nuovi nati che allattavano ancora e supplicavano che non li abbandonassero”.
Salutato l’esercito riunito in Campo di Marte, Giuliano si intrattiene con i comandanti per il banchetto dell’addio. Quella notte, grandi clamori si alzano fino alle finestre del palazzo:
“Mentre le grida si facevano sempre più forti e tutto il palazzo era in subbuglio – scrive – chiesi al Dio di mostrarmi un segno, ed egli subito mi accontentò e mi ordinò di cedere e di non oppormi alla volontà dell’esercito”.
La mattina dopo, issato sugli scudi, viene portato in trionfo dai soldati. In una lettera inviata a Costanzo offre un contingente militare limitato e chiede piena autonomia nel governo della Gallia.
È un vero e proprio atto di insubordinazione: Costanzo respinge ogni accordo e gli aizza contro Vadomario, re degli Alemanni:
“Costanzo ci solleva contro i barbari – protesta Giuliano – mi proclama presso di loro suo aperto nemico”.
Nella primavera del 361, arrestato e deportato Vadomario, Giuliano inizia la sua marcia contro Costanzo. Non ha, in realtà, nemmeno bisogno di sconfiggerlo: l’imperatore muore il 3 novembre, a 44 anni e dopo 24 di regno, designandolo – sembra – come suo successore. E Giuliano ricambia la cortesia: l’11 dicembre, appena arrivato a Costantinopoli la prima cosa che fa è tributare tutti gli onori al suo predecessore, anche se poi fa bruciare vivi i consiglieri che erano stati suoi delatori.
La seconda è ordinare di erigere un mitreo nell’interno del palazzo imperiale. Tanto per far capire che l’aria è cambiata. Durante il regno di Costanzo i cristiani hanno acquistato sempre più potere: la religione del Galileo è diventata un’arma nelle mani del figlio di Costantino, che ha sostenuto l’intolleranza nei confronti dei pagani e degli ebrei e si è messo alla guida degli ariani. Giuliano, invece, proclama la tolleranza generale nei confronti di tutte le religioni e di tutti i culti: vengono riaperti i templi pagani chiusi e celebrati i sacrifici, mentre tornano dall’esilio i vescovi cristiani che le reciproche dispute tra ortodossi e ariani avevano allontanato dalle loro città.
Non tardano ad arrivare, però, vere e proprie discriminazioni: il 17 giugno 362 emana un editto con il quale stabilisce l’incompatibilità tra la professione di fede cristiana e l’insegnamento nelle scuole pubbliche. Non vuole essere – almeno formalmente – una forma di persecuzione, ma una richiesta di coerenza:
“È necessario che tutti gli insegnanti abbiano una buona condotta e non professino in pubblico opinioni diverse da quelle intimamente osservate. In particolare, tali dovranno essere coloro che istruiscono i giovani e hanno il compito di interpretare le opere degli antichi, siano essi retori, grammatici e ancor più sofisti, poiché questi ultimi, più degli altri, intendono essere maestri non di sola eloquenza ma anche di morale, e sostengono che a loro spetta l’insegnamento della filosofia civile. Trovo assurdo che chi spiega gli scritti di Omero, Esiodo, Demostene, Erodono, Tucidide, Isocrate e Lisia disprezzi gli dèi che quelli onoravano. Io li lascio liberi di non insegnare ciò che non credono buono ma, se invece vogliono insegnare, insegnino prima con l’esempio”.
D’altra parte l’incompatibilità tra la cultura greco-romana e il cristianesimo è condivisa da buona parte degli intellettuali cristiani. Non a caso, appena vent’anni dopo, sant’Ambrogio convincerà l’imperatore Teodosio ad abolire i Giochi Olimpici.
“Finora, si avevano molte ragioni per non frequentare i templi e la paura, ovunque avvertita, giustificava la dissimulazione delle vere opinioni sugli dei. Ora, poiché questi dei ci hanno reso la libertà, mi sembra assurdo che si insegni ciò che non si crede giusto. Se i maestri cristiani credono che questi autori si siano sbagliati circa le entità da venerare, vadano allora nelle chiese dei Galilei a spiegare Matteo e Luca. Voi affermate che bisogna rifiutare le offerte dei sacrifici? Bene, anch’io voglio che le vostre orecchie e la vostra parola si purifichino astenendosi da tutto ciò a cui io ho sempre desiderato partecipare insieme con coloro che pensano e fanno quello che io amo”.
Al tempo stesso Giuliano si preoccupa di offrire ai pagani un’alternativa credibile al cristianesimo, e così si adopera per organizzare una vera e propria “chiesa”, con gerarchie che imitano quelle cristiane: al vertice c’è lo stesso imperatore, nella sua qualità di pontefice massimo, seguito da sommi sacerdoti, responsabili ciascuno per ogni provincia i quali, a loro volta, nominano i sacerdoti delle diverse città.
Anche sotto il profilo dell’assistenza sociale la chiesa pagana di Giuliano segue l’esempio di quella cristiana:
“Dobbiamo dividere i nostri averi con tutti, ma più generosamente con i poveri e i derelitti, in modo che possano soddisfare le loro esigenze. E posso aggiungere, senza timore di apparire paradossale, che dovremmo dividere cibo e vestiti anche con i malvagi. Poiché è all’umanità che è in ognuno che noi dobbiamo dare, non al singolo individuo”.
Ecco dunque che la spiritualità dell’Apostata si spinge fino all’assistenza ai detenuti (proibita dall’imperatore pagano Licinio) e all’istituzione di ricoveri per mendicanti, ostelli per stranieri, asili per donne e orfanotrofi.
Nell’estate del 362 Giuliano – deciso a riprendere la guerra mai vinta contro i persiani – si trasferisce ad Antiochia. Qui l’accoglienza è festosa, ma l’idillio finisce presto.
L’incompatibilità di carattere tra l’austero e mistico imperatore e la città frivolissima e a maggioranza cristiana crea subito un corto circuito. Cominciano a circolare persino epigrammi che lo deridono: il suo aspetto è troppo trascurato per essere quello dell’uomo più potente del mondo: la barba è fuori moda, il taglio di capelli rozzo. Gli rimproverano di essere troppo serioso e al tempo stesso troppo alla mano per un imperatore.
Insomma, in definitiva, Giuliano è un cafone che non sa vestirsi né truccarsi, né stare in società, né farsi rispettare. E che, peraltro, non ne azzecca una: il calmiere che impone per abbassare i prezzi degli alimentari finisce per irritare i commercianti che fanno sparire i prodotti dai mercati danneggiando tutti. Non solo, ma è grottesco e paradossale che mentre cerca di risanare l’economia intervenendo a gamba tesa sui mercati, spenda cifre assurde per i sacrifici rituali con cui cerca di ingraziarsi gli dei in vista della guerra.
“Inondò gli altari con il sangue di innumerevoli vittime, giungendo a sacrificare fino a cento buoi per volta – scrive Ammiano Marcellinio – insieme a greggi e a candidi uccelli provenienti da ogni parte dell’Impero, provocando un esborso di denaro inusitato e onerosissimo. Chiunque si dichiarasse, a torto o a ragione, esperto nelle pratiche divinatorie, era ammesso, senza alcun rispetto per le regole prescritte”.
Nei pressi della città si stende, in una valle ricca di boschi e di acque, il sobborgo di Dafne, dove sorge un santuario dedicato ad Apollo, rappresentato da una statua di avorio e lambito dalla fonte Castalia, che la leggenda sostiene essere parlante. Fatto chiudere da Costanzo e andato in rovina, ci è stata costruita sopra una cappella dove è stato sepolto il vescovo Babila.
Giuliano, che prima ancora di arrivare ad Antiochia aveva chiesto di restaurare il tempio, quando in agosto cade la ricorrenza della festa del dio si reca a Dafne ma qui trova una brutta sorpresa: il Consiglio municipale, formato in gran parte di cristiani, non ha preparato alcun festeggiamento.
Le interrogazioni votive di Giuliano non ottengono risposta dalla statua o dalla fonte Castalia, e – consigliato da un sacerdote – si convince che è la presenza del sepolcro del vescovo ad essere responsabile del silenzio degli dei. Così fa riesumare i resti di Babila e li seppellisce ad Antiochia, creando una sollevazione dei cristiani. Poco tempo dopo, nella notte del 22 ottobre il tempio di Dafne viene distrutto da un violento incendio. Le indagini volte a scoprire i responsabili non approdano a nulla ma Giuliano si convince che siano stati i cristiani e per ritorsione fa chiudere la cattedrale di Antiochia.
Poi sfoga la sua rabbia con un libro satirico che esce nel febbraio 363 e che non è altro che una grande invettiva contro Antiochia e i suoi cittadini. E se loro lo deridono per la sua barbetta da capra, lui risponde chiamando il libro Misopogon, ovvero “Il nemico della barba”.
Secondo l’imperatore, Antiochia si presenta come un esempio estremo di polis tryphosa, cioè città preda della tryphè, vocabolo che può essere tradotto con “mollezza di carattere”, “delicatezza”, “voluttuosità”, “indolenza”. Giuliano ce l’ha in particolare con la predilezione degli antiocheni per gli spettacoli teatrali e per le gare all’ippodromo.
Lui, d’altra parte, si vanta di avere sempre evitato il teatro e detestato i ludi circenses e anche per questo si era trovato benissimo in Gallia: perché i celti e i germani, propensi alla frugalità e alla semplicità non potevano in nessun modo apprezzare gli spettacoli teatrali reputandoli grotteschi e osceni:
“Così dunque anche tra i Celti, come il Misantropo di Menandro, io recavo affanni a me stesso. Tuttavia, se la selvatichezza dei Celti sopportava ciò, logicamente lo tollera male una città felice come questa, beata e popolosa di uomini, dove ci sono molti ballerini, molti flautisti, più mimi che cittadini, e dove non c’è rispetto per chi governa”.
“Ai deboli infatti conviene arrossire – scrive sarcastico – mentre ai valorosi, come voi, si addice far baldoria fin dall’alba e gozzovigliare di notte, per non insegnare a parole, ma dimostrare con i fatti, che non vi preoccupate delle leggi; tutti belli, alti, lisci e senza barba, emuli, giovani allo stesso tempo e vecchi”.
“E tu – dice rivolto a se stesso – pensavi davvero che la tua selvatichezza, la tua misantropia, la tua goffaggine, potessero andar d’accordo con tutto questo? Tu, il più idiota e attaccabrighe di tutti gli uomini tanto sciocca e leggera è questa animuccia, che i più ignobili dicono sapiente, da credere di doverla adornare ed abbellire con la saggezza?”
“Mi ha in odio la maggioranza – scrive ancora con amarezza – per non dire la totalità del popolo, che professa l’incredulità negli dèi e mi vede attaccato ai dettami della religione patria; mi hanno in odio i ricchi, a cui impedisco di vendere ogni cosa ad alto prezzo; tutti poi, mi odiano a motivo dei ballerini e dei teatri, non perché io li privi di queste delizie, ma perché a me di queste delizie importa meno dei ranocchi delle paludi”.
“Di tutti i mali – continua l’invettiva – sono io l’autore, perché ho posto benefici e favori in animi ingrati. La colpa è della mia stupidità, non della vostra libertà”.
Per consolarsi del pessimo rapporto con gli uomini, Giuliano si rifugia in Dio, e in particolare nel dio del Sole, a cui dedica un inno in cui la figura di Helios sembra ricalcare – in realtà – quella di Cristo, Verbo fatto carne.
“Helios Re procedette come unico dio da un dio unico, cioè dal mondo intelligibile che è uno, unifica l’infimo con il supremo, contiene in sé il mezzo della perfezione, dell’unione, del principio vitale e dell’uniformità della sostanza. Nel mondo sensibile è la sorgente di tutti i benefici e racchiude in sé la causa eterna delle cose generate”.
“Helios re universale – prega – donami la tua grazia, una vita buona, una sapienza più perfetta, una mente ispirata e nel modo più lieve e al momento opportuno il distacco dalla vita stabilito dal destino. Possa io salire a lui e stargli accanto per l’eternità, ma se ciò fosse troppo per i miei meriti, almeno per molti e lunghi periodi di anni!”.
Complice anche la scarsa vita sociale, quello di Antiochia è un periodo particolarmente prolifico sotto il profilo letterario: l’imperatore scrittore si cimenta infatti anche con tre libri di polemica anticristiana: Contro i Galilei (ai quali risponderà Cirillo di Alessandria con Contra Iulianum) e con un vero e proprio “kolossal”: la satira I Cesari, che racconta di una festa data da Romolo nella casa degli dèi, alla quale vengono invitati tutti gli imperatori romani. Di ogni Cesare vengono così delineati i molti vizi e le poche virtù: dall’ambizioso Giulio Cesare al camaleontico Ottaviano, Tiberio, grave all’apparenza ma crudele e vizioso, Caligola, “mostro crudele”, Claudio “corpo senz’anima” e l’intrattabile Settimio Severo.
Ogni imperatore si sceglie una divinità protettrice, e Costantino corre subito incontro alla Lussuria che, accoltolo teneramente lo adorna di vesti femminili colorate, lo liscia tutto e lo porta dall’Empietà dove si trovava anche Gesù che si aggira da quelle parti e predica: “Chi è corruttore, assassino, maledetto, rifiutato da tutti, venga con fiducia: lavandolo con quest’acqua lo renderò puro in un attimo”.
Il 5 marzo 363 Giuliano lascia finalmente Antiochia con un esercito di 65mila uomini. Rifiuta il trattato di pace del re persiano Sapore e – accompagnato dal cugino Procopio (“bello, grande e triste – lo descrive Temisto – dalla figura sempre curva, dallo sguardo sempre a terra, che nessuno ha mai visto ridere”) arrivato all’ultimo avamposto romano, nonostante tutti gli auspici siano negativi, si inoltra nel regno sasanide.
La spedizione in un primo momento si rivela trionfale: Giuliano conquista una fortezza dopo l’altra, costringendo il nemico a chiudersi tra le mura della capitale Ctesifonte. La città, però, appare imprendibile e l’imperatore rinuncia all’assedio risalendo il Tigri.
La marcia è tormentata dal caldo, dalla guerriglia, dalla sete e dalla fame, perché i persiani bruciano i raccolti nelle terre attraversate dai Romani. Il 16 giugno appare finalmente all’orizzonte l’esercito di Sapore, che però si limita a seguire da lontano le truppe di Giuliano, rifiutando il combattimento aperto e ingaggiando solo brevi incursioni di cavallerie. Il 21 giugno l’esercito romano si ferma a Maranga per una sosta di tre giorni. Giuliano impiega come al solito il tempo libero dalle occupazioni militari leggendo e scrivendo.
La notte del 25 giugno gli sembra di scorgere nel buio della sua tenda una figura: è il Genius Publicus, quello che gli era apparso nell’esaltante notte di Lutetia e lo aveva invitato a non lasciarsi sfuggire l’occasione di prendere il potere. Ora ha però il capo velato a lutto, lo guarda senza parlare, poi si volta e lentamente svanisce.
La mattina dopo, malgrado l’opinione contraria degli aruspici, fa levare le tende per riprendere la marcia. Gli dicono che nella retroguardia è scoppiata una guerriglia; l’imperatore – senza nemmeno indossare l’armatura – accorre a cavallo e si lancia nella mischia quando un giavellotto lo colpisce sul fianco. Cerca subito di estrarlo da solo, ma cade da cavallo e sviene. Portato nella sua tenda, “si rianimò, credette di star meglio, volle le sue armi ma le forze non risposero alla volontà; chiese il nome della località: ‘è Frigia’, gli risposero. Allora Giuliano comprese che tutto era perduto: un tempo aveva sognato un uomo biondo che gli aveva predetto la morte in un luogo con quel nome”.
Le sue guide spirituali gli ricordano il suo destino, fissato dall’oracolo di Helios:
“Quando avrai sottomesso al tuo scettro la razza persiana, inseguendoli fino a Seleucia a colpi di spada, allora salirai all’Olimpo su un carro di fuoco attraverso le vertiginose orbite del cosmo. Liberato dalla dolorosa sofferenza delle tue membra mortali, raggiungerai la dimora senza tempo della luce eterea, che abbandonasti per entrare nel corpo di un mortale”.
Sentendosi soffocare, Giuliano chiede dell’acqua: appena finito di bere perde conoscenza.
Ha 32 anni e ha regnato meno di venti mesi.
“Udite, popoli! – scrive esultante Gregorio di Nazianzio – fu estinto il tiranno, il dragone, l’Apostata, il Grande Intelletto, l’Assiro, il comune nemico e abominio dell’universo, la furia che molto minacciò sulla Terra, molto contro il Cielo operò con la lingua e con la mano”.
Giuliano sarà l’ultimo imperatore pagano. Solo una minuscola pausa nella marcia trionfale del nuovo potere religioso. I cristiani lo sanno e non lo nascondono: oltre a rovesciare altari e distruggere templi, avviano subito la demolizione della figura dell’Apostata, arrivando ad accusarlo di sacrifici umani.
I discepoli e gli amici dell’imperatore, invece, cercano di farsi dimenticare, aspettandosi persecuzioni che – in effetti – non tardano ad arrivare. Solo Libanio – che era stato suo maestro, e poi strettissimo collaboratore – lo celebra e arriva ad accusare un cristiano del suo omicidio.
Nella sua Historia Ecclesiastica, scritta quasi un secolo dopo i fatti, Teodoreto di Cirro racconterà che Giuliano raccolse con le mani il sangue uscito dalla sua ferita e lo alzò al cielo gridando: “Hai vinto, Galileo!”, mentre secondo Filostorgio Giuliano dopo aver raccolto il suo sangue con le mani lo lanciò verso il Sole gridando “Korèstheti” (“Saziati!”) e maledicendo gli altri Dei “cattivi e distruttori”.
Col passare dei secoli, Giuliano l’Apostata diventerà un simbolo contraddittorio – nemico del cristianesimo ma ottimo amministratore, fondamentalista pagano ed emblema laicista – che affascinerà e ispirerà per secoli artisti e intellettuali, da Lorenzo il Magnifico a Voltaire, da Gibbon a Ibsen.
“Col formare non molti, ma anche solo tre o quattro filosofi, tu puoi arrecare al genere umano maggiori benefici di quanto non possano fare parecchi imperatori messi insieme. Quanto a me, sono consapevole di non possedere nessuna speciale virtù, tranne quella di non credere di avere le più belle virtù. Rimetto tutto nelle mani di Dio, così da essere scusato delle mie mancanze e da poter apparire discreto e onesto per gli eventuali successi della mia opera di governo”.
Arnaldo Casali
Da leggere:
La rinascita degli dei: opere filosofiche e politiche dell’ultimo grande imperatore pagano, I Dioscuri, 1988.
Cirillo di Alessandria, Contra Iulianum, Patrologia Graeca 76
Filostorgio, Historia Ecclesiastica, Berlino 1972
Giamblico, De vita Pythagorica, Stoccarda 1975
Ammiano Marcellino, Res gestae, Berlino 1915
Libanio, Orazioni
Polymnia Athanassiadi, Giuliano. Ultimo degli imperatori pagani, Genova, ECIG, 1992
Jacques Benoist-Méchin, L’imperatore Giuliano, Milano, Rusconi, 1979
Luca Desiato, Giuliano l’Apostata, Milano, Mondadori, 1997
Goffredo Coppola, La politica religiosa di Giuliano l’Apostata, Bari, Edizioni di Pagina, 2007
Maria Carmen De Vita, Giuliano imperatore filosofo neoplatonico, Milano, Vita e Pensiero, 2011
Giovanni Filoramo, La croce e il potere, Roma-Bari, Laterza, 2011
Giuliano, Contra Galilaeos, Lipsia 1880
Nello Gatta, Giuliano Imperatore. Un asceta dell’idea dello Stato, Padova, Ar, 1995
Ignazio Tantillo, L’imperatore Giuliano, Roma-Bari, Laterza, 2001
Voltaire, Dizionario filosofico, Milano, Mondadori, 1955
Edward Gibbon, The History of the Decline and Fall of the Roman Empire, 6 voll., London, Strahan & Cadell 1776-1789
Arnaldo Marcone, Giuliano. L’imperatore filosofo e sacerdote che tentò la restaurazione del paganesimo, Salerno editrice, 2019
Henrik Ibsen, Imperatore e Galileo, 1873
Joseph Bidez, Vita di Giuliano Imperatore, (1930), Rimini, Il Cerchio, 2004