Grande politico, grande monaco, grande papa. E’ stato tutti e tre, Gregorio il grande, e lo è stato insieme, riuscendo ad investire e ad esprimere nel ruolo di vescovo di Roma tutti i carismi che aveva esercitato prima separatamente.
Nato a Roma nel 540 in una delle famiglie più antiche e importanti della capitale – quella degli Anici – è un santo “figlio d’arte”: anche sua madre Silvia, infatti, è santa. Almeno in un primo momento, però, è del padre che segue le orme: Gordiano è senatore e il giovane Gregorio, dopo aver studiato legge, intraprende la carriera politica arrivando a diventare – nel 573, ancora giovanissimo – prefetto della città di Roma.
Contemporaneo, lontano parente e biografo di Benedetto da Norcia, Gregorio vuole seguire il suo esempio: dopo la morte del padre dona tutti i suoi averi ai poveri, abbandona ogni carica pubblica e trasforma la villa di famiglia al Celio in un monastero, ritirandosi nella meditazione e nello studio della Bibbia.
Qualche anno dopo, sedotto dal fascino delle isole britanniche, con alcuni confratelli decide di partire per l’Inghilterra con l’obiettivo di evangelizzarla. Dopo tre giorni di viaggio, però, durante una sosta, mentre è immerso nella lettura vede avvicinarsi una locusta. Osservando l’insetto e riflettendo sul suo nome (loco sta) si convince che Dio gli sta chiedendo di restare. Decide così di tornare nel silenzio del monastero di Sant’Andrea al Celio.
La pace claustrale però, dura poco: anche da religioso Gregorio viene chiamato a mettere a frutto la sua esperienza politica. Papa Pelagio II lo invia infatti come ambasciatore a Costantinopoli per chiedere aiuto contro i Longobardi che stanno scendendo in Italia.
Gregorio resta in oriente per sei anni, guadagnandosi la stima dell’imperatore Maurizio che però, disinteressato ormai al destino di Roma, non si attiva per la sua difesa tanto che il papa, deluso, finisce per sostituire Gregorio come ambasciatore rispedendolo in monastero.
Il monaco diplomatico non chiede di meglio; torna ancora una volta al Celio ma, ancora una volta, viene chiamato a servire la comunità cristiana: nel 590 la peste si abbatte su Roma mietendo, tra le sue vittime, lo stesso papa Pelagio e all’abate viene chiesto di guidare una processione organizzata per invocare la liberazione dall’epidemia.
Il corteo parte dal Vaticano e si dirige verso il centro della città, ma mentre attraversa il ponte Elio, Gregorio vede sulla cima del Mausoleo di Adriano l’arcangelo Michele che rinfodera la sua spada. La visione viene interpretata come l’annuncio dell’imminente fine della pestilenza, donando speranza a una città in ginocchio. Effettivamente, nei giorni seguenti la capitale viene liberata dal flagello e da quel momento il Mausoleo viene ribattezzato Castel Sant’Angelo mentre Gregorio è acclamato da clero e popolo nuovo vescovo di Roma.
Il monaco, però, non ha nessuna intenzione di fare il papa e tenta di svincolarsi scrivendo una lettera all’imperatore in cui gli chiede di non ratificare l’elezione, rifiutandosi – al contempo – di assumere il ruolo finché non arriverà la conferma da Costantinopoli. Ma non ha fatto i conti con Germano – suo successore come prefetto di Roma – che intercetta la lettera e la sostituisce con la petizione del popolo di Roma perché il celebre monaco diventi papa.
Gregorio sembra non avere vie d’uscita. “Sarò dunque vescovo – commenta – quale spavento per me”.
Uno spavento che lo induce a fare un ultimo tentativo di sottrarsi al suo destino: convince alcuni mercanti a nasconderlo nel loro convoglio e lascia la città. Ma anche stavolta viene riacciuffato: una colonna di luce segnala la grotta dove si è rifugiato e i romani arrivati “lo presero, lo trascinarono con la forza nel tempio di San Pietro e lo consacrarono Papa”. E’ il 3 settembre 590.
L’ex prefetto di Roma accetta suo malgrado il nuovo ruolo, ma ne rifiuta qualsiasi dimensione di potere.
Il papa, secondo il vescovo monaco, non è priore ma servo. Servo di tutti coloro che servono Dio. Per questo nelle lettere ufficiali si definisce “Servus servorum dei”, ovvero servo dei servi di Dio, un appellativo che il papa conserverà fino a oggi.
Questa denominazione, della quale esistevano già attestazioni precedenti e che trova la sua matrice nella citazione evangelica “chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di tutti”, divenne l’emblema del suo grandioso pontificato.
Come spiega Lucia Castaldi, ordinario di Letteratura latina medievale all’Università di Udine, “dall’età carolingia la dicitura è stata collegata indissolubilmente alla figura del Papa, quasi sinonimo di Pontefice romano”.
Convinto di essere stato chiamato a reggere la Chiesa nell’imminenza della fine dei tempi e consapevole della sua responsabilità, una volta accettato il gravoso incarico, Gregorio non si risparmia per svolgerlo al massimo delle possibilità: si adopera per migliorare le condizioni materiali e religiose di Roma, dell’Italia, dell’Europa, nel pieno delle invasioni barbariche e del progressivo disimpegno da parte di Bisanzio.
Esile sotto il profilo fisico, umile e allergico al potere, diventa il più grande papa della storia: amministratore energico, politico accorto, pastore attento ai poveri, riformatore della Chiesa. La prima cosa che fa Gregorio, infatti, è ripulire il Vaticano da personaggi corrotti e mondani chiamando in soccorso i monaci benedettini. Poi si adopera nell’aiuto al popolo di Roma, che “oppressa da uno smisurato dolore – dice in una predica – si spopola di cittadini; assalita dal nemico, non è più che un cumulo di macerie”.
Ma il papa-prefetto si interessa anche di riordinare la vita monastica, assicurando una maggiore autonomia giuridica ai monasteri e allontanando l’ingerenza dei vescovi.
La lotta più difficile è però quella per salvare l’Italia dall’invasione dei barbari scesi dal nord.
I Longobardi, di religione ariana, continuano infatti a devastare l’Italia saccheggiando città e catturando prigionieri che Gregorio è costretto a riscattare con il suo patrimonio privato.
Le sue richieste d’aiuto all’imperatore cadono nel vuoto mentre l’esarca della Repubblica di Ravenna, suo rappresentante in Italia, si mette addirittura di traverso: “Si rifiuta di combattere i nostri nemici – scrive Gregorio – e vieta a noi di concludere la pace”.
Agilulfo, re dei Longobardi, arriva a porre d’assedio Roma. Ed è ancora una volta il grande vescovo e grande politico che tratta la resa pagando di tasca sua 5000 lire d’oro e assicurando al re un ingente tributo annuale.
Se il popolo lo acclama come suo salvatore, l’imperatore Maurizio reagisce accusandolo di infedeltà. “Mi è stato detto di essere stato ingannato da Ariulfo – risponde il papa in una lettera – e sono stato definito ‘sempliciotto’… che significa indubbiamente che sono uno sciocco. E io stesso debbo confessare che avete ragione… Se non lo fossi, non avrei mai accettato di patire tutti i mali che ho sofferto qui per le spade dei Longobardi. Voi non credete a quello che dico riguardo ad Ariulfo, riguardo al fatto che sarebbe disposto a passare dalla parte della Repubblica, accusandomi di dire menzogne. Dato che una delle responsabilità di un prete è di servire la verità, è un grave insulto essere accusati di menzogna. Ma quello che mi affligge è che la stessa tempra che mi accusa di falsità permette ai Longobardi di condurre giorno dopo giorno tutta l’Italia prigioniera sotto il loro giogo, mentre nessuna fiducia è riposta nelle mie asserzioni”.
Per conquistare la pace con Agilulfo, in realtà, Gregorio ha fatto leva anche sull’amicizia con la regina longobarda Teodolinda, e sta puntando alla conversione al cattolicesimo dell’intero popolo. Nel frattempo non manca di scontrarsi con il patriarca di Costantinopoli quando si dichiara “ecumenico”, ovvero universale, spalleggiato ovviamente dall’imperatore.
Mancano ancora cinquecento anni allo scisma tra chiesa cattolica e chiesa ortodossa, ma i presupposti ci sono già tutti: “Colui che ricevette le chiavi del Regno dei Cieli – dice il papa – non fu mai chiamato Apostolo Universale; e ora il più Santo Uomo, il mio vescovo collega Giovanni rivendica il titolo di Vescovo Universale. Tutta l’Europa è nelle mani dei barbari e, malgrado tutto, i preti cercano ancora per se stessi e fanno sfoggio di nuovi e profani titoli di superbia!”.
D’altra parte Gregorio, che di universale vuole solo il servizio, ecumenico – nell’accezione moderna del termine – dimostra di esserlo veramente, battendosi in difesa degli ebrei di Roma, ai quali assicura tranquillo esercizio di culto. Non abbandona nemmeno l’idea di conquistare al cristianesimo la Gran Bretagna e approfittando delle nozze del re anglosassone Etelberto del Kent con la principessa cattolica francese Berta invia 40 monaci di Sant’Andrea al Celio, di cui è diventato priore il romano Agostino. Il benedettino – dopo un’iniziale resistenza (spaventato dai racconti sulla crudeltà dei sassoni ascoltati in Provenza fugge dalla missione tornando a Roma, e deve intervenire lo stesso Gregorio per rincuorarlo) – diventerà l’apostolo d’Inghilterra e il primo vescovo di Canterbury.
Scrittore impetuoso e prolifico, Gregorio ha lasciato tra l’altro 854 lettere raccolte in 14 libri, un commento al libro di Giobbe (Moralia in Iob) divenuto uno dei testi più influenti del Medioevo, 62 omelie e i Dialoghi che contengono anche la prima biografia di San Benedetto.
Ma anche la musica gli deve moltissimo: è proprio lui, infatti, a promuovere quella modalità di canto che prende il nome di “gregoriano” e che diventa il canto liturgico ufficiale della Chiesa.
Secondo una leggenda Gregorio dettava i suoi canti ad un monaco, alternando la dettatura a lunghe pause; il monaco, incuriosito, avrebbe scostato un lembo del paravento di stoffa che lo separava dal pontefice per vedere cosa egli facesse durante i lunghi silenzi, e avrebbe visto una colomba posata su una spalla del papa che gli dettava a sua volta i canti all’orecchio.
Gregorio avrà anche una enorme influenza sul nome stesso dei suoi successori. Dopo Giovanni, il suo nome è quello più scelto dai papi. Saranno ben 15 a portarlo, l’ultimo Gregorio XV: come il primo anche lui monaco benedettino, segnato anch’egli da un doppio ruolo religioso e politico. papa dal 1831 al 1846, sarà l’ultimo vescovo di Roma a morire come re dello Stato pontificio. In anni più recenti, invece, è stato scelto da Clemente Dominguez Gomez, fondatore della chiesa scismatica palmariana, che dopo la morte di Paolo VI si è autoproclamato papa con il nome di Gregorio XVII.
Gregorio Magno muore il 12 marzo del 604 e viene sepolto nella basilica di San Pietro. Il suo successore Sabiniano attua una radicale inversione di tendenza rispetto alla sua opera: con una vera e propria restaurazione, allontana i monaci dalla Curia tornando ad assegnare gli uffici ecclesiastici al clero secolare, torna ad ingraziarsi l’aristocrazia romana e interrompe l’attività di assistenza gratuita ai bisognosi accusando il suo predecessore di aver dissipato il patrimonio della Chiesa pur di essere lodato e ottenere fama di benefattore; infine fa distribuire il grano alla popolazione affamata dietro pagamento, provocando una rivolta popolare di cui rimane vittima.
Secondo una leggenda, lo stesso Gregorio gli appare in sogno ammonendolo per il suo comportamento. E poiché Sabiniano non accenna a voler cambiare atteggiamento, Gregorio lo colpisce con il pastorale uccidendolo.
Paladino del popolo romano anche da morto.
Arnaldo Casali