[…] dopo avere molte cose esperimentato, trovò che il dar loro una coperta d’invetriato adosso, fatto con stagno, terra ghetta, antimonio et altri minerali e misture cotte al fuoco d’una fornace aposta, faceva benissimo questo effetto e faceva l’opere di terra quasi eterne.
Così, nella seconda edizione delle sue celebri Vite, Giorgio Vasari evocava Luca Della Robbia quale inventore di “un’arte nuova utile e bellissima”: la scultura in terracotta invetriata.
Si trattava di una tecnica del tutto inedita nelle arti plastiche ‘occidentali’ ed elaborata intorno al 1440 proprio dallo scultore fiorentino, perfezionata grazie anche al supporto tecnologico fornitogli da Filippo Brunelleschi, che divenne presto (e per almeno altri quarant’anni) monopolio esclusivo di famiglia. Un’ “arte” non solo nuova ma riconoscibilissima e, tuttora, inimitabile.
A dispetto di un cognome parlante, che alludeva alla pianta erbacea (la robbia, appunto) utilizzata sin dall’antichità per estrarne quel ruber intenso, il rosso è proprio il grande assente nella tavolozza ceramica impiegata nella loro bottega. Il colore, quasi certamente, evocava piuttosto l’attività commerciale tintoria a cui erano dediti gli avi di Luca e che praticava ancora suo padre Simone, tanto da ritrovare la maggior parte dei membri della famiglia immatricolati all’Arte dei Medici e Speziali (la corporazione fiorentina a cui si associavano anche i merciai) o all’Arte della Lana.
Ben diversa sarebbe stata invece la strada intrapresa da Luca, nato allo scoccar del secolo (tra 1399 e 1400), del quale tuttavia si ignorano la formazione e le prime esperienze artistiche.
Con tutta probabilità dovette però frequentare anche quella ‘scuola del mondo’ ante litteram quale fu a Firenze la nutrita bottega ‘delle porte’ bronzee del Battistero, che impegnò il suo artefice Lorenzo Ghiberti per quasi cinquant’anni, dove decine di giovani collaboratori mossero i primi passi della loro carriera artistica e personale. Secondo le fonti, il discepolato di Luca sarebbe da rintracciare nel cantiere della seconda porta realizzata dalla bottega di Ghiberti e destinata al lato est del Battistero: così bella che secondo Michelangelo, così come riporta Vasari, sarebbe stata degna del paradiso.
Il grandioso debutto autonomo, il primo ad essere documentato, di un Luca Della Robbia poco più che trentenne fu la cosiddetta Cantoria per la Cattedrale fiorentina: la balconata marmorea dell’organo maggiore, a cui lavorò tra 1431 e 1438. Negli stessi anni l’esecuzione di un’altra cantoria venne poi affidata a Donatello e destinata ad arredare il lato dirimpetto della tribuna, laddove si ergeva la cupola progettata da Brunelleschi che sarebbe stata solennemente consacrata da papa Eugenio IV il 25 marzo 1436.
Un esordio illustre quello di Luca ed intriso di potenti suggestioni derivanti dalla cultura classica, ben evidenti nell’eleganza ‘neoattica’ dei fanciulli che affollano le scene della sua cantoria, ora musici, cantori o variamente impegnati in un leggiadro volteggiare di danze.
Nella Firenze della prima metà del Quattrocento l’antico non rappresentava infatti solo il modello di una Rinascita ma soprattutto un elemento con il quale potersi fondere e convivere, confermato anche dal crescente desiderio di collezionare antichità greche e romane. Ben note erano le raccolte private di artisti come Ghiberti e Donatello o di umanisti quali Niccolò Niccoli e Ambrogio Traversari, intorno ai quali lo scultore poté facilmente orbitare e coltivare il suo gusto antiquario.
Non è un caso dunque se tra i cinque padri di quella Rinascita l’umanista Leon Battista Alberti avesse deciso di annoverare anche Luca Della Robbia, in un ideale pantheon fiorentino dove questi figurava insieme a Brunelleschi, Ghiberti, Donatello e Masaccio. Una vera e propria primavera del Rinascimento che fiorì più che mai nella scultura, se si considera che tra quei cinque illustri ingegni solo uno era pittore, Masaccio, peraltro morto a soli ventisette anni già nel 1428.
Sin dagli albori del Quattrocento si era diffuso un nuovo interesse per la scultura ‘in terra’ dove il cotto venne finalmente emancipato dal suo ruolo di materiale gregario e destinato quasi solo alla confezione di vasi, mattoni o stoviglie. Una pratica, quella della scultura in terracotta, che iniziò a consolidarsi nel cantiere di Ghiberti per la Porta Nord del Battistero (la prima delle due realizzate dal maestro) dove già si praticava la modellazione in cera e in creta per creare i bozzetti delle formelle, che sarebbero state poi fuse in bronzo. Un’abitudine a cui si conformarono progressivamente i suoi allievi e collaboratori.
Ghiberti era infatti l’unico a Firenze che poteva disporre di una grande fonderia e i segreti delle arti del fuoco (la conoscenza delle proprietà delle terre, della legna per la combustione, le caratteristiche dei forni) erano indispensabili anche per la pratica della scultura in terracotta.
Come molti artisti che si formarono nella ‘bottega delle porte’ (Donatello, Michelozzo e Michele da Firenze, tra gli altri) fu lì che Luca Della Robbia apprese la tecnica della plastica fittile, perfezionandola poi nel tempo fino a crearne un genere a sé. Ecco dunque l’idea di un rivestimento ceramico – l’invetriatura – ottenuto con procedimenti simili a quelli già in uso per la maiolica, lavorando uno smalto stannifero solidificato in seconda cottura e poi colorato con ossidi metallici.
A partire dagli anni Quaranta del Quattrocento, Luca si dedicò quasi esclusivamente alla pratica della scultura invetriata: di certo più rapida rispetto alla lavorazione di legno, pietra o marmo e molto più remunerativa, grazie al minor costo del materiale e la facilità di replica degli esemplari. Ma oltre ai considerevoli vantaggi pratici l’invetriatura consentiva di raggiungere valori espressivi nuovi e sofisticati.
La prima opera interamente realizzata con la nuova tecnica fu la monumentale lunetta con la Resurrezione di Cristo, destinata a sormontare il portale della Sagrestia delle Messe nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore. Solo qualche anno dopo Luca avrebbe inoltre iniziato a lavorare (insieme a Michelozzo e Maso di Bartolomeo) anche alla fusione di quei battenti, gli stessi che il 26 aprile del 1478 salvarono letteralmente la vita a Lorenzo il Magnifico che li richiuse dietro di sé per trovare rifugio in sagrestia durante la congiura dei Pazzi.
La plastica robbiana iniziò così ad impreziosire le architetture fiorentine: dagli stemmi delle Arti incastonati sui fianchi della chiesa di Orsanmichele, agli inserti invetriati con le figure di Apostoli per il portico della Cappella Pazzi nel chiostro della Basilica di Santa Croce, fino ai medaglioni con le Virtù per la cappella del Cardinale del Portogallo in San Miniato al Monte.
Le immagini luminose nel candore politissimo delle superfici e le integrazioni cromatiche costituirono uno dei fattori di maggior successo che presto riscosse la scultura in terracotta invetriata. A decretarne la fortuna fu soprattutto l’impiego duraturo del colore che vi veniva applicato, anche se i pigmenti erano relativamente pochi: per ottenere il blu si utilizzava il cobalto, per il bruno il manganese, per il verde il rame, per il giallo l’antimonio e il ferro per l’arancio. Per uno smalto più bianco e fortemente coprente si aggiungeva invece una maggior quantità di stagno nella miscela.
L’ “arte nuova” non tardò a soddisfare anche il gusto dei committenti privati, come nel caso dei Lavori dei Mesi per lo studiolo di Piero di Cosimo de’ Medici, nel palazzo di famiglia in via Larga. Una vera e propria Wunderkammer, andata purtroppo perduta, dove i tesori di gemme antiche, manoscritti miniati e oreficerie facevano mostra di sé negli armadi a tarsie prospettiche, amorevolmente sorvegliati dalla volta ‘celeste’ in cui rilucevano i Mesi.
L’attività della bottega di Luca non mancò poi di declinarsi verso una delle produzioni più popolari nella Firenze del Quattrocento, quella dei rilievi mariani destinati alla devozione domestica. Così, le madonne robbiane si diffusero capillarmente anche nei monasteri, negli oratori e nelle numerose confraternite devozionali.
Una seduzione ottica di smalti lucenti ben esemplata dalla cosiddetta Madonna Bliss, oggi conservata al Metropolitan Museum of Art di New York, dove al candore latteo degli incarnati si alternano l’oro e il turchese (un colore raro nella tavolozza di Luca): con un riverbero di echi donatelliani il Bambino si stringe affettuosamente al collo della Madre nella calda intimità della nicchia, appena violata dallo sguardo indiscreto dell’osservatore. Un prototipo iconografico, già adottato da Luca in altri rilievi mariani, caro anche a Filippo Lippi che lo tradusse in pittura nella sua Madonna Medici Riccardi.
Il mercato della scultura robbiana si estese rapidamente a macchia d’olio e fino alle corti d’Europa, grazie all’agevole mobilità dei suoi oggetti che potevano essere spediti verso le più remote e impervie destinazioni fino alle Fiandre, in Francia o in Inghilterra oltre che in quei centri mediterranei dove il fascino per la maiolica era ben radicato: il Portogallo, la Spagna e il Regno di Napoli.
I segreti della terracotta invetriata furono trasmessi da Luca al nipote Andrea, che lo scultore adottò dopo la morte di suo fratello Marco, con il quale condivideva la bottega in via Guelfa a Firenze.
Il contributo di Andrea fu plausibilmente precoce, poiché doveva aiutare a soddisfare l’alta richiesta della prolifica attività di famiglia, tanto che almeno fino agli Settanta del secolo risulta spesso difficile riconoscere nelle opere la sua mano da quella dello zio Luca.
Andrea iniziò presto però a distinguersi, orientandosi verso una nuova complessità narrativa sentimentale e più incline agli effetti pittorici, coniando anche sigle personali, ad esempio, nel colorare le iridi di giallo oro (a differenza di quelle grigio-azzurre di Luca). Il successo dell’erede del sapere robbiano è ben testimoniato dalla produzione di grandi tavole per il territorio ‘toscano’, ‘umbro’ e fino al meridione aragonese. Lo stesso Vasari ricordava come fossero “infinite” le opere sfornate dalla bottega di via Guelfa durante gli anni più fecondi di Andrea.
I notevoli vantaggi economici raggiunti da quest’ultimo, grazie anche ad una struttura produttiva ampiamente collaudata, dovettero peraltro contribuire ad una alterna disarmonia nei rapporti con lo zio che, con l’avanzare degli anni, andava incontro ad un’attività sempre meno operosa. Già nel 1471 infatti Luca negava al nipote ogni vantaggio testamentario, ritenendolo già abbastanza favorito nell’aver appreso i preziosi segreti di famiglia.
Gran parte dell’attività di Andrea si mostrò in profonda sintonia con gli orientamenti della spiritualità francescana, come dimostrano le numerose committenze da parte dell’ordine per i suoi maggiori centri cultuali: la grande pala con l’Incoronazione della Vergine per l’Osservanza di Siena, il Trittico per la Basilica di Santa Maria degli Angeli ad Assisi (dove lasciò anche una delle più note immagini di San Francesco) o ancora le opere per la basilica fiorentina di Santa Croce e quella di San Bernardino a L’Aquila.
Ma soprattutto è dagli anni Ottanta del Quattrocento che Andrea Della Robbia iniziò a lavorare alla serie di sette tavole per il monastero de La Verna, nel Casentino.
Una delle qualità principali delle terrecotte invetriate era quella di sapersi adattare anche a località montane, com’era nel caso del santuario francescano, dimostrando di saper resistere a freddo e umidità. Quella tecnica “faceva l’opere di terra quasi eterne”, come ricordava Vasari.
Dopo essersi arrampicato su quel crinale dell’appennino tosco-romagnolo, anche il poeta Dino Campana nel 1910 rimase folgorato davanti all’Annunciazione di Andrea (posta nella Chiesa Maggiore) tanto da descriverla puntualmente nei suoi Canti Orfici:
[…] e nella chiesa l’angiolo, purità dolce che il giglio divide e la Vergine eletta, e un cirro azzurreggia nel cielo e un’anfora classica rinchiude la terra ed i gigli: che appare nello scorcio giusto in cui appare il sogno, e nella nuvola bianca della sua bellezza che posa un istante il ginocchio a terra, lassù così presso al cielo.
Oltre al fruttuoso e inesauribile filone delle madonne robbiane, la produzione di pale d’altare si moltiplicò anche grazie alla collaborazione di almeno cinque dei figli di Andrea, che lavorarono inizialmente con lui in bottega: Marco, Giovanni, Luca, Francesco e Girolamo.
La tecnica dell’invetriatura cominciò però a mutare, assumendo una policromia più variegata e dall’intonazione popolare che ben si adattava ai nuovi canoni artistici dettati da Girolamo Savonarola nella Firenze di fine Quattrocento. I Della Robbia furono infatti tra coloro che subirono il fascino del frate domenicano, tanto che due dei figli di Andrea (Marco e Francesco) avrebbero preso i voti nel convento fiorentino di San Marco e vestiti proprio da Savonarola. Sembra dunque assumere un valore simbolico quell’ideale abbraccio tra San Francesco e San Domenico nella lunetta dell’Ospedale di San Paolo, eseguita nell’ultimo decennio del secolo dalla bottega dei Della Robbia, in anni in cui il rapporto tra i due ordini si era fatto particolarmente teso.
Presto, Giovanni Della Robbia si sganciò dall’orbita paterna mostrandosi il più prolifico ed ingegnoso tra i figli di Andrea. La sua invetriatura, così vivacemente policroma, si concretizzò in strutture notevolmente enfatizzate di tutti quegli elementi ricorrenti nel repertorio robbiano (ghirlande, candelabre, canestri di fiori e frutta). Un’esuberanza decorativa che sarà tipica del suo lessico personale e che già si intravedeva nel Lavabo per la sagrestia di Santa Maria Novella, tra le opere più importanti del suo esordio autonomo (1498). Frequente era anche in Giovanni l’uso di figure bianche su sfondi naturalistici, insieme all’impiego di smalti policromi, come ad esempio nel noto fonte battesimale per la pieve di San Leonardo a Cerreto Guidi.
Anche se la sua clientela richiedeva soprattutto una produzione più tradizionale – orientata verso quei prodotti seriali che la bottega sapeva garantire da decenni, tra cui proliferavano tabernacoli viari e rilievi devozionali – non mancarono opere monumentali come la Resurrezione commissionata dalla famiglia fiorentina degli Antinori per la sua Villa Le Rose, nella campagna fiorentina (oggi al Brooklyn Museum di New York).
Ma l’episodio di maggiore significato scultoreo dell’attività di Giovanni Della Robbia rimane quello delle sessantasei teste clipeate che popolano il chiostro dei Monaci nella Certosa del Galluzzo, monastero certosino alle porte di Firenze.
Un rapido declino della scultura in terracotta invetriata sarebbe tuttavia iniziato dopo la morte di Andrea Della Robbia (1525), a cui seguì solo pochi anni dopo anche quella del figlio Giovanni (1529), complice oltre ai dissidi fra gli eredi anche la peste del 1527/1529. Un tramonto a cui non fu di certo estraneo anche il giudizio della severa estetica classicista, quasi ossessionata dalla monocromia.
Così il ruolo di attrattore visivo della plastica robbiana mutò presto identità, da genere speciale della scultura monumentale a mera decorazione policroma e sempre più assimilabile alle predilezioni visive della maiolica.
Opere divenute progressivamente invisibili, eco lontana di un mondo rinascimentale che ancora oggi, non di rado, si accontenta di illustrare cartoline ricordo nei bookshop delle chiese o bomboniere di matrimonio.
Eppure tra Otto e Novecento la figura di Luca Della Robbia, che molto piacque alla cultura preraffaellita, conobbe una nuova fortuna tanto che John Ruskin tratteggiò un profilo dello scultore definendolo:
brillantemente toscano, con la dignità di un greco; ha la semplicità inglese, la grazia francese, la devozione italiana.
A poco a poco, le famose ‘robbiane’ cominciarono a divenire uno di quei pezzi incontournables per le collezioni dei musei di tutto il mondo, amate ed apprezzate anche da persone totalmente estranee ai percorsi dell’arte.
D’altronde, come affermava icasticamente il grande esteta inglese Walter Pater nel 1888:
suppongo che nulla porti alla mente la vera aria di una città toscana così vividamente come quei pezzi di terracotta blu e bianca.
Caterina Fioravanti
Bibliografia essenziale:
La primavera del Rinascimento. La scultura e le arti a Firenze 1400 – 1460, catalogo della mostra (Firenze, marzo-agosto 2013), a cura di B. Paolozzi Strozzi e M. Bormand, Firenze 2013 (Mandragora).
I Della Robbia e l’ “arte nuova” della scultura invetriata, catalogo della mostra (Fiesole maggio-novembre 1998) a cura di G. Gentilini e C. Acidini Luchinat, Firenze 1998 (Giunti).
La scultura in terracotta. Tecniche e conservazione, a cura di M.G. Vaccari, Firenze 1996 (Centro Di).
G. Gentilini, I Della Robbia: la scultura invetriata nel Rinascimento, Firenze 1992 (Cantini).