L’importanza di Ibn Hishām, morto in Egitto l’8 maggio 883, fu fondamentale per la storia dell’Islam: ha trasmesso ai posteri il più antico testo arabo dopo il Corano: la prima biografia di Maometto che era stata scritta da Ibn Ishaq, uno storico arabo, collezionista di tradizioni orali (khabar) vissuto cento anni prima di lui e morto a Baghdād nel 768 (151 secondo l’egira, il calendario islamico).
Hishām era nato a Bassora la città dell’attuale Iraq all’epoca celebre per la grande attività culturale nel campo della filologia e della teologia islamica. Fu lui a divulgare la sira, che in arabo si può tradurre come “condotta, modo di vita”: il genere storiografico arabo relativo alla biografia del profeta Maometto. La prima sira fu composta da Ibn Isḥāq, ma è giunta sino a noi grazie alla recensione di Ibn Hishām che cambiò molte cose rispetto all’opera del suo predecessore.
Ibn Hishām voleva celebrare il Profeta. E quindi eliminò molti episodi della vita di Maometto legati alla vita quotidiana o ad episodi più lontani dalla sfera religiosa. Non lo fece per volontà censoria. Voleva proporre il Profeta come modello di vita e di virtù, esortando i musulmani a quella che gli orientalisti definiscono la imitatio Muhammadis.
La versione di Hishām ebbe subito una grande fortuna in tutto il mondo islamico. E ancora oggi ha una amplissima diffusione. Particolare fortuna ha avuto anche la traduzione inglese, curata nel 1955 da Alfred Guillame per la Oxford University Press.
L’Islam è la forma più rigorosa di monoteismo apparsa nella grande famiglia delle religioni abramitiche che comprende anche l’Ebraismo e il Cristianesimo.
Grazie alle biografie canoniche raccolte di Ibn Isḥāq e Ibn Hishām sappiamo che Maometto, orfano e povero, visse in condizioni disagiate fino al matrimonio con la ricca vedova Khadīgia. Dopo una profonda crisi spirituale, abbracciò con fermezza una fede monoteistica rigettando il politeismo praticato fino ad allora dalle tribù arabe.
Iniziò la sua predicazione all’età di 40 anni, intorno al 610. La sua dottrina, basata sull’eguaglianza tra gli uomini, all’inizio fu accolta con ostilità dai maggiorenti arabi che vedevano nella sua predicazione una minaccia per i loro interessi economici. Maometto predicò la fede in un Dio unico, creatore onnipotente, al quale gli uomini debbono una sottomissione totale (islām) e per seguire il quale devono condurre una vita casta oltre che osservare con regolarità la preghiera, il digiuno e altri precetti religiosi. Tra gli obblighi del buon musulmano c’è innanzitutto l’aiuto verso il prossimo, soprattutto verso i poveri.
La morte, in continuità con il pensiero giudaico-cristiano, livella tutti gli esseri umani di fronte al loro ultimo destino, in attesa di una rigenerazione finale in un giorno stabilito da Allāh:
Innā li’llāhi wa-innā ilayhi rāği‘ūna
A Dio apparteniamo e a Lui facciamo ritorno
(Corano, 2: 156)
Dopo la morte ogni essere umano viene richiamato brevemente in vita per ricevere il suo giudizio. Poi il sonno della tomba, c’è la resurrezione finale, quando verranno pesate tutte le azioni. Gli angeli aiutano Allah negli atti del giudizio finale.
Nel Corano si parla anche di un passaggio su un ponte sopra l’inferno che conduce dal luogo del giudizio al paradiso. Gli infedeli cadranno nell’abisso infernale.
I buoni musulmani entreranno invece in paradiso, un giardino
alla cui ombra scorrono i fiumi, dove rimarranno in eterno, e dimore belle dei giardini di Eden, e il dono più grande sarà il compiacimento di Dio, ecco il successo supremo.
(Corano. 9: 72-73)
Oggi, secondo una indagine del centro statistico statunitense Pew Research (2019) su dieci abitanti della Terra, 2,5 sono musulmani. Con circa 1,9 miliardi di praticanti, l’Islam è la seconda religione del mondo dopo il Cristianesimo che conta 2,3 miliardi di fedeli. Gli induisti sono invece 1 miliardo e cento milioni. In tutto il mondo, dichiarano di non professare nessuna religione 1 miliardo e 200 milioni di persone.
Virginia Valente