L’Ottocento fu il secolo dell’innamoramento della cultura europea per il Medioevo. È stato scritto – forse non ancora abbastanza e soprattutto in maniera organica – su come il Romanticismo abbia scoperto, se non letteralmente inventato, i secoli di mezzo.
Si trattò non soltanto di un semplice fatto estetico o di una fugace infatuazione: quell’epoca lontana offriva, più di ogni altra, una formidabile base mitico-simbolica su cui fondare l’identità dei nascenti stati nazionali. È in particolare l’architettura, con le sue tendenze neomedievali, quella che sembra offrire in questo periodo alcuni dei più interessanti sviluppi sull’uso dell’età di mezzo. E in Italia ne abbiamo un bell’esempio.
A Torino, all’interno del Parco del Valentino, è possibile visitare un borgo “medievale”, che di medievale porta solo il nome in quanto realizzato nel 1884, come padiglione dell’Esposizione Generale Italiana. Potrà apparire magari controverso il fatto che, in una manifestazione nata per mostrare al mondo la forza industriale, la modernità e il progresso di una nazione, il Medioevo occupi un posto così di rilievo. Tuttavia il Borgo medievale di Torino non costituisce un caso isolato.
Già nel 1851 a Londra, durante la prima Esposizione Universale, ad Hyde Park, all’interno del Crystal Palace, la grandiosa e avveniristica struttura in vetro costruita per ospitare i padiglioni, fu possibile ammirare la “Medieval Court” ideata dall’architetto A. W. Pugin.
Più in grande furono fatte le cose per l’Esposizione Universale del 1900 a Parigi in cui venne realizzata una grandiosa ricostruzione della città medievale lungo le rive della Senna. Ancora nel 1911, all’Esposizione nazionale scozzese di Glasgow, una “Auld Toon”, una tipica città scozzese, era stata ricostruita con tanto di castello in stile baroniale.
Il Medioevo incarnava in questi casi un paradigma positivo, fatto di innovazione, crescita e prosperità, in cui le nazioni, che iniziavano a proiettarsi verso la conquista di sconfinati mercati mondiali, si rispecchiavano. E lo stesso principio anima gli ideatori del borgo di Torino.
Giuseppe Giacosa, autore dell’introduzione alla Guida illustrata al Castello feudale del XV secolo, realizzata per i visitatori del complesso, non mancò di esaltare come ricco e fiorente il Piemonte del XV secolo, similmente coinvolto in quella rivoluzione industriale che aveva investito le stesse zone a partire dalla metà del XIX secolo (la nascita della FIAT avverrà soltanto quindici anni dopo l’inaugurazione del Borgo medievale!). Le stesse tecniche costruttive e i materiali utilizzati per la messa in opera degli edifici – come l’utilizzo di cemento, calcestruzzo e pilastri in acciaio – denotano, con tutta evidenza, la potente modernità di un Borgo medievale figlio dell’Ottocento industrializzato.
Il Borgo Medievale di Torino era stato pensato come un compendio dell’architettura civile e militare di un borgo piemontese del XV secolo. Il lavoro di progettazione e costruzione fu curato da una Commissione di esperti – sotto la supervisione dell’architetto Alfredo D’Andrade – che riuniva architetti, pittori, ingegneri, letterati. Più appassionati del Medioevo che storici in senso stretto, la loro opera è una delle tante prove del sottile confine, spesso inestricabile e sfumato, tra recupero romantico, indagine e valorizzazione di un’epoca, immaginazione e incanto, che sta in larga parte all’origine della medievistica. Una disciplina che muove i suoi passi – è bene ricordarlo – da una rivalutazione positiva – insieme erudita, romantica e nazionale – del passato medievale dopo le ubbie illuministiche. Ne è un esempio lo stesso Giacosa sopra citato: letterato e drammaturgo, dopo l’enorme esperienza accumulata nella costruzione del borgo medievale, pubblicherà nel 1897, la raccolta dei suoi studi in Castelli valdostani e canavesani.
Se da un lato allora a muovere gli ideatori del Borgo vi è senz’altro l’attesa, tipica del medievalismo romantico, ad anelare a un’epoca essenzialmente dorata, ordinata, rispettosa della dimensione umana, dall’altro lato l’attenzione filologica che investe il progetto fa di esso uno studio quasi scientifico e metodologico. Per ogni edificio o struttura – dalle case del borgo, alle mura, passando dalla rocca sino agli affreschi disseminati ovunque – è possibile rintracciare un puntuale modello piemontese o valdostano. In particolare la rocca adotta elementi dei castelli di Fénis, d’Issogne, di Verrès e di Ivrea. La chiesa, dedicata alla Vergine, riprende elementi architettonici e decorativi di edifici simili sparsi nel Canavese. L’attenzione dei costruttori è evidente anche nei più piccoli dettagli: ai lati del portale d’ingresso della chiesa sono addirittura affisse le stampelle ex voto di invalidi tornati a camminare. Straordinario, nella sala Baronale all’interno della Rocca, il Ciclo dei prodi ed eroine, che riproduce fedelmente quello del salone del castello della Manta (per ulteriori elementi descrittivi del Borgo rinvio al sito www.borgomedievaletorino.it).
Gli scopi del Borgo, dichiarati dai suoi ideatori nella Guida, oltre a essere didattici, educativi, di tutela del patrimonio storico-artistico piemontese e valdostano, sono anche (o forse sopratutto?) di natura politica e ideologica. La cosa forse potrà sfuggire al visitatore trasportato dall’incanto del luogo: attraverso questa struttura “medievale” passa infatti una legittimazione del potere di casa Savoia; la glorificazione dell’antichità di una dinastia che era riuscita a imporsi, tutto sommato recentemente e senza non troppe peripezie, nella costruzione del Regno d’Italia. Come Giacosa tiene a sottolineare il gotico è lo stile che contraddistingue il Borgo. Uno stile – sottolinea sempre Giacosa – non esclusivamente francese ma anche italiano. Il gotico diventa allora un simbolo con il quale rivendicare non soltanto l’italianità delle regioni transalpine al confine con la Francia ma la stessa italianità della dinastia sabauda. Insomma, il gotico si delinea in questo caso come uno stile italiano nella misura in cui era storicamente attestato e diffuso, secondo i costruttori del Borgo, nei territori sabaudi. Ma l’italianità a cui si fa riferimento è quella della “piccola patria” sabauda – e non quella della grande nazione nel suo complesso.
Rispetto ad altre realtà nazionali europee, in Italia la riscoperta del Medioevo non si tradusse infatti nell’adozione di un preciso stile nazionale: neanche il romanico – inteso come un prodotto nazionale, italico, dell’età dei liberi Comuni in lotta contro l’Impero e perciò adatto a esprimere il legame tra Comuni e Italia risorgimentale, tra religiosità medievale e cattolicesimo romantico – riuscì ad imporsi. Al contrario, fu lo stile neoclassico prima e razionalista poi – richiamo al mito romano – quello scelto dalle élites politiche per rappresentare il neonato Regno d’Italia. Gli stili medievali proseguirono, al contrario, nel delineare l’identità delle realtà municipali e regionali, ovvero di quelle che Stefano Cavazza ha definito “piccole patrie”. In questo senso, emblematico, è l’Altare della Patria a Roma, dove allo stile neoclassico è affidato il compito di rappresentare nella sua totalità l’ideale nazionale (la Patria è raffigurata come un enorme guerriero in una classica panoplia) mentre le personificazioni delle più importanti città della penisola sfoggiano abiti o armature medievali (come nel caso della cavalleresca città di Torino).
Questo utilizzo politico dell’architettura per affermare un potere che trova legittimazione in un mitico passato medievale vede corrispettivi ad esempio anche nella stessa Germania dell’epoca.
Penso al castello di Haut-Kœnigsbourg, in Alsazia, la cui ricostruzione per volere dell’Imperatore Guglielmo II, sottese all’idea di legittimare il kaiser come erede al trono dell’Impero – attraverso un nesso che, senza soluzione di continuità, univa gli Hohenstaufen (fondatori originari del castello), gli Asburgo (i successivi proprietari) e la sua casata, gli Hohenzollern – e rafforzava storicamente il legame tra la Germania e l’Alsazia, acquisita dopo la guerra franco-prussiana del 1870-1871. Si collegava così non soltanto idealmente ma anche fisicamente il primo medievale Reich, a un secondo, moderno e prussiano. Si tratta solo di un piccolo esempio parte di un più vasto programma di studio e ricostruzioni castellane – ennesima prova del nesso medievista-politiche nazionali – che giungerà sino alla Germania del terzo Reich a sostegno di un pan-germanesimo europeo: ogni castello, la cui costruzione attestava storicamente l’origine teutonica, costituiva una giustificazione al possesso di quell’area. Una sorta di Risiko. Però molto più serio. In questo senso D’Andrade stesso, che sarà impegnato nella riqualifica e nel restauro di molti altri castelli piemontesi e valdostani legati alla dinastia sabauda, potrebbe essere in piccolo ciò che Bodo Ebhardt, il più famoso e influente studioso di castelli tedeschi della prima metà del XX secolo, ha rappresentato per la Germania.
Ma torniamo in Italia. Il medievalismo di casa Savoia, l’evocazione delle medievali glorie dinastiche, risalivano – come analizza Renato Bordone, in quello che è un libro imprescindibile per lo studio dei medievalismi, Lo Specchio di Shalott – ai tempi di Carlo Felice e del figlio Carlo Alberto: il primo promotore della riedificazione in stile neogotico dell’abbazia di Altacomba in Savoia, che con il restauro dei sepolcri dei signori di casa Savoia, si profilava come un monumento dinastico; mentre il secondo protagonista indiscusso della precisa medievalizzazione e celebrazione in chiave eroico-cavalleresca della dinastia sabauda. Al lui si devono gli interventi architettonici che riconfigurarono come neomedievali le residenze reali di Rocconigi e Pollenzo; la fondazione dell’Armeria Reale; la promozione di spettacolari tornei e giostre; il sostegno a studi storici in funzione politica e dinastica; il culto per la figura del Conte Verde, Amedeo VI.
Si tratta di tendenze attualizzanti che giungeranno fino agli anni della costruzione del Borgo e oltre.
È evidente infatti negli intenti della Commissione la volontà di instaurare legami tra passato e presente con la decisione di inserire a prefazione della Guida un verbale di una visita di Amedeo IX di Savoia in cui riceve le chiavi della città di Friburgo nel 1469, sì da ricalcare la consegna delle chiavi del Borgo in occasione della visita di Umberto I quattrocentoquindici anni dopo. Anche la raffigurazione nella sala da pranzo della Rocca di re Arduino d’Ivrea, il mitico re d’Italia, considerato nel Risorgimento un precursore dell’Unità d’Italia e della stessa casa sabauda, costituisce, a mio avviso, un dettaglio che tradisce il messaggio nazional-dinastico del Borgo.
Il Borgo, che doveva essere smantellato al termine dell’Esposizione Generale, dopo il suo enorme successo venne acquistato dalla città di Torino che lo trasformò in un museo. Fino agli anni Trenta del XX secolo la fortuna e la vivacità del Borgo fu notevole: nelle botteghe, gli artigiani, abbigliati secondo la moda quattrocentesca, continuavano a tramandare tecniche di lavorazione dei materiali (legno, metalli, ceramica, carta); le osterie all’interno delle mura accoglievano e ristoravano i visitatori; furono effettuati lavori di rinnovamento. Nell’ambiente culturale torinese gli intenti originari della costruzione del Borgo apparivano ancora vivi e attuali. Una volta venuto meno il contesto storico e la temperie culturale che aveva visto la sua nascita, il Borgo apparve come un relitto vetusto, una vestigia incompresa. Un “falso”. Si pensò addirittura di abbatterlo dopo i bombardamenti che danneggiarono parte della rocca e della casa di Ozegna.
Oggi il Borgo ospita circa 145.000 visitatori ogni anno e costituisce un importante complesso museale che ospita manifestazioni ed eventi culturali.
Davide Iacono
“IL MEDIOEVO FRA NOI” | 7-9 GIUGNO 2018 | URBINO E GRADARA
Perché siamo incantati dal Medioevo?
Quali sono i rapporti tra quel millennio lontano e le sue reinterpretazioni nel mondo di oggi?
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Qui per il programma: Il Medioevo fra noi – V edizione – 7-9 giugno 2018