Il Cammino dei protomartiri francescani

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segnaletica-2Il Cammino dei Protomartiri francescani, promosso da Compagnia dei Romei, Regione Umbria, Sviluppumbria e Provincia di Terni, è un percorso di cento chilometri alla scoperta di alcuni dei luoghi più suggestivi dell’Umbria. Diviso in sei tappe, il percorso si snoda tra le città e i borghi di Terni, Stroncone, Calvi dell’Umbria, Narni, San Gemini e Cesi, e tocca i luoghi natali dei Santi Protomartiri.

Il progetto, coordinato da Sviluppumbria, fornisce lo spunto per la riscoperta delle origini francescane di una porzione ancora segreta del territorio ternano, contribuendo allo sviluppo del turismo religioso e spirituale anche in questa area della regione. A guidare i pellegrini, una fitta rete segnaletica, in legno metallo e ceramica, su alberi, sentieri, palazzi dei centri storici ed edifici adibiti all’accoglienza. I visitatori potranno scegliere tra un’ampia selezione di strutture e alloggi: strutture agrituristiche, alberghi, B&B, affittacamere. Maggiori informazioni su Sviluppumbria | Il cammino dei protomartiri francescani.

Approfondimenti | I cinque ostinatissimi protomartiri francescani

Francisco Henriques, Mártires de Marruecos, 1508, Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona.

Francisco Henriques, Mártires de Marruecos, 1508, Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona

Ottone Petricchi da Stroncone, Berardo dei Leopardi da Calvi, Pietro dei Bonati da San Gemini, Adiuto e Accursio Vacutio da Narni.
Sono i cinque frati francescani che, uccisi in Marocco nel 1220, divennero i primi martiri dell’ordine fondato dal Poverello di Assisi.

Venerati da subito come santi dai propri confratelli (e con un certo disappunto, sembrerebbe, da parte dello stesso Francesco che ne proibì la celebrazione e anche la lettura della Cronaca) i cinque protormartiri francescani sono stati studiati a fondo dal francescanista ternano Paolo Rossi, che nel 2001 ha pubblicato il volume “Francescani e Islam: i primi cinque martiri” (Intra Tevere et Arno editore).

I cinque fraticelli erano nati tutti in una delle zone più “battute” da Francesco, che transitò nella valle ternana almeno cinque volte dal 1209 al 1226, soggiornando a Terni, Piediluco, Collescipoli, Stroncone, Sant’Urbano, Calvi, Narni, San Gemini, Cesi, Acquasparta, Amelia, Lugnano, Alviano, Orvieto e Baschi.

“Per la famigliarità e santa conversazione ch’ebbero li buoni giovani Berardo e Pietro con san Francesco – narra Ludovico Iacobilli in “Vite de’ santi e beati dell’Umbria”, scritto nel 1647 – divennero in breve perfetti religiosi e meritarono ch’esso santo patriarca l’amasse e l’elegesse ad imprese grandi, particolarmente per essere Berardo divenuto ottimo sacerdote e gran predicatore nella lingua arabica”.

Inviati a predicare agli “infedeli”, i cinque frati arrivarono a Coimbra, in Portogallo, nell’autunno del 1219 con l’intento di salpare per il Marocco. Ospitati nel monastero agostiniano di Santa Croce, qui conobbero Ferdinando da Lisbona, che dopo il martirio, alla vista dei loro corpi maciullati, deciderà di entrare nell’ordine francescano diventando Antonio da Padova.
Nello stesso anno anche Francesco decise di intraprendere un viaggio in terra islamica, con un esito però ben diverso da quello che aspettava i cinque frati umbri: il fondatore dell’ordine arrivò in Egitto, a Damietta, e riuscì a incontrare il sultano Malek Al-Kamil senza convertirlo e senza essere ucciso: il sereno e pacifico confronto, diventerà uno dei più straordinari gesti di pace nella storia del dialogo tra Cristianesimo e Islam.

La storia dei cinque protomartiri francescani, iniziò invece durante il capitolo di Pentecoste di quell’anno, al quale aveva preso parte – come osservatore – anche San Domenico con sette suoi frati. Durante la grande assemblea era stato affrontato il tema delle missioni in terra islamica: l’anno precedente, infatti, frate Egidio e frate Eletto erano partiti alla volta della Tunisia: il primo era stato fermato dagli stessi cristiani – che temevano rappresaglie – e imbarcato su una nave per l’Italia. Frate Eletto invece, molto giovane e gracile, era rimasto nel paese musulmano, dove sarebbe morto tragicamente.

La sua scomparsa aveva galvanizzato i frati, dando nuovo impulso alle missioni all’estero: ecco dunque che al capitolo di Pentecoste vennero decise le nuove partenze per la Germania, la Francia, l’Ungheria e la Spagna, che doveva servire da ponte naturale per il Marocco, verso cui lo stesso Francesco aveva già tentato invano di avventurarsi.

Iniziò così l’avventura di Berardo, Pietro, Ottone, Adiuto, Accursio e Vitale. “Figli miei diletti – aveva detto Francesco a detta del Martyrum quinque fratrum minorum apud Marochium scritto, secondo la tradizione, nel 1221 – Dio mi ha ordinato di mandarvi nel paese dei Saraceni per confessarvi e predicarvi la sua fede e combattere la legge di Maometto”. “Anche io – aveva aggiunto – andrò tra gli infedeli in un’altra regione e invierò altri frati in ogni parte del mondo. Preparatevi, dunque, figli miei, a compiere la volontà del Signore”.

Ad essere costituito superiore fu frate Vitale. Dopo un commosso addio a Francesco i frati lasciarono alle loro spalle la Porziuncola incamminandosi in direzione della Spagna.
“L’Africa sconosciuta si presentava davanti a loro – scrive Rossi – c’era Maometto che nelle Chanson de geste, negli scritti di Pietro il Venerabile e nei discorsi dei pontefici era additato come l’anticristo, la bestia dell’apocalisse, il mostro dalla testa d’uomo, il collo di cavallo e il corpo di uccello e c’erano i saraceni, qualificati in quei tempi come “gente turpe, degenere, serva dei demoni”.

Un lungo viaggio aspettava i cinque fraticelli. Nella primavera del 1219 fecero tappa in Toscana, dove avevano vissuto negli ultimi cinque anni. Si fermarono a Firenze, poi procedettero verso Lucca, Lerici, Genova, Alessandria. Da qui continuarono per Asti, Susa, Moncenisio. Poi entrarono in Francia nel Delfinato e finalmente raggiunsero il valico franco-spagnolo di Roncisvalle e insieme a altri pellegrini entrarono nel regno di Navarra e successivamente in quello di Aragona.

La chiesa di Santa Croce a Coimbra.

La chiesa del monastero di Santa Croce a Coimbra, dove le reliquie dei protomartiri rimasero fino agli inizi di questo secolo.

Qui, però, Vitale – il frate che guidava il gruppo – si ammalò gravemente. Dopo qualche giorno, racconta Iacobilli, forte della sua autorità, rivolgendosi ai suoi compagni esclamò: “Fratelli carissimi non voglio che la mia malattia ostacoli la nostra missione. Può darsi che il Signore non mi giudichi degno, a causa dei miei peccati. Proseguite dunque il cammino”.
Dopo un’iniziale resistenza, i cinque accettarono di ripartire. Ad assumere la guida del gruppo fu frate Berardo. Entrati in Portogallo, giunsero a Coimbra dove nel convento di Santa Croce conobbero il futuro Antonio da Padova e furono ospiti della regina Urraca.

“Lasciata Coimbra – scrive Rossi – scesero verso il sud del Regno, raggiungendo Alanguer, e là si presentano alla principessa Sancia”.
Fu proprio lei che, ammirata dal desiderio di martirio dei cinque frati, decise di aiutarli e offrì loro degli abiti borghesi da indossare al posto delle tuniche. Sancia infatti intuì da subito che vestiti da predicatori i cinque frati non sarebbero andati lontano: gli stessi commercianti cristiani li avrebbero allontanati per non mettere in pericolo gli affari con i mori.

Fu dunque sotto falsa identità che gli aspiranti martiri riuscirono a penetrare in territorio saraceno, a Siviglia: “Là incontrarono un buon cristiano il quale li accolse nella propria abitazione, dove rimasero nascosti alcuni giorni. Dopo circa una settimana, usciti dalla clausura senza guida né consiglio alcuni, si diressero alla moschea principale con l’intenzione di entrarvi”.
I saraceni, vista la scena, prima furono colti da stupore, poi pervasi di rabbia li cacciarono con grida furiose, ricorrendo a pugni e bastonate.

AlcazarSiviglia

L’Alcazar, il palazzo reale di Siviglia, dove i frati entrarono e pretesero un colloquio con il sultano.

I colpi subiti e l’insuccesso però non avvilirono i propositi dei cinque. Al contrario, fecero crescere in loro la febbre del martirio: incoraggiandosi vicendevolmente, i frati si avvicinarono alla porta del palazzo reale, decisi ad entrare e predicare davanti allo stesso califfo.

Il principe moro, figlio del Califfo, sbarrò loro il passo. “Da dove venite?”
“Veniamo da Roma”. “E cosa cercate qui?”, “Vogliamo parlare con il sultano di cose che interessano lui e tutto il suo regno”. “Avete delle credenziali?”. “Il messaggio affidatoci non lo portiamo per iscritto, esso è scolpito nella nostra mente e fissato nelle nostre parole”.
Il principe si propose di fare da mediatore, ma i frati insistettero nel voler parlare con il sultano, che dopo aver ricevuto dal figlio i dettagli di quel serrato dialogo, decise di riceverli.
“Di quale paese siete? Chi ha inviati? Per quale motivo siete venuti?”
“Chi ci invia è il Re dei Re, nostro Dio e Signore, e ci invia per la salvezza della tua anima. Abbandona la falsa setta dell’infame Maometto, abbraccia la fede del Signore Gesù Cristo e battezzati: solo così facendo ti potrai salvare”. “Uomini malvagi e perversi! – rispose con rabbia il sultano – dite questo a me solo o a tutto il popolo?”.
“I cinque – scrive Paolo Rossi in Francescani e Islam – nel constatare che era già scoppiata la desiderata tempesta, insistettero: “Sappi o re, poiché sei il capo del falso culto e dell’iniqua legge di quel Maometto ingannatore, sei peggiore degli altri e ti aspetta all’inferno una pena maggiore”.
Il sultano, colmo d’ira, ordinò l’immediata decapitazione degli imprudenti religiosi. Ma la loro reazione fu la gioia: “Questa sì che è fortuna fratelli! Abbiamo trovato quello che stavamo cercando. Non ci resta che perseverare, senza il minimo timore di morire per Cristo”.
“Il principe, che aveva assistito alla singolare scena – spiega Iacobilli – suggerì loro: “Disgraziati! Perché tutto questo desiderio di morire così da codardi? Seguite il mio consiglio: smentite quanto avete detto sulla nostra legge e contro il profeta di Dio, Maometto: fatevi saraceni e continuerete a vivere: provvederemo inoltre a procurarvi immense ricchezze”.
“Disgraziato tu – risposero i frati – se conoscessi quali e quanti tesori ci aspettano nella vita eterna per il fatto di morire in questo modo, non penseresti assolutamente di offrirci tali beni fugaci”.

A questo punto, spiega Iacobilli, il principe ebbe pietà di “quella pazzia così rara” e tornato dal padre, cercò di calmarne lo sdegno del sultano e gli ricordò che la legge prevedeva che prima di una condanna a morte venissero consultati gli anziani.
Il sultano si calmò, ma come primo provvedimento ordinò che i cinque venissero isolati sul terrazzo di un’alta torre. Con scarsi risultati: “Essi, presala per un pulpito, con ancor più accesa febbre di martirio gridarono ai passanti la verità della fede cristiana e la falsità della fede islamica. Il sultano venuto a conoscenza del fatto, li fece rinchiudere nella prigione sotterranea della torre”.
Poi li chiamò per un nuovo faccia a faccia, cercando di convincerli a desistere dal loro proposito. Infine, convintosi che il tentativo è inutile, convocò il Consiglio dei saggi e degli anziani del regno. Ma i cinque frati “inflessibili, approfittarono di quell’assemblea per annunciare con fermezza la loro fede. A questo punto il re, deciso a porre fine a quell’ingrata sfida, ordinò l’immediato esilio di quei pazzi frati”.

Intuendo che se li avesse inviati in Portogallo o in Castiglia, una volta oltrepassata la frontiera i cinque sarebbero stati capaci di tornare nel suo regno, il Califfo li mise sulla strada per il Marocco, tanto più che in quei giorni doveva salpare per l’Africa l’infante don Pedro, fratello del re di Portogallo e di donna Sancia che – in attrito con Alfonso II – era passato alle dipendenze dei Mori pur mantenendo fede alla religione cattolica. Fu dunque Pedro, grande ammiratore dei francescani, a condurre i cinque nella sua abitazione e a ospitarli.

Marrakech fu un'altra tappa nel cammino dei cinque ostinatissimi francescani.

Marrakech fu un’altra tappa nel cammino dei cinque ostinatissimi francescani.

Arrivati a Marrakech i cinque frati ripresero a predicare; fu in particolare frate Berardo, discreto conoscitore della lingua araba, a lanciare strali contro l’Islam e a invitare alla conversione.
“I Mori – racconta Rossi – vedutili e convinti che si trattasse di girovaghi privi di intelletto, si fermarono, curiosi ad ascoltarli”.

Un giorno frate Berardo, mentre era ritto su di una carrozza abbandonata e predicava a quanti passavano, vide avvicinarsi Abu-Yaqub, l’emiro “capo dei credenti”, in arabo “amìru-l-mù minin”, indicato come Miramolino dai cronachisti cattolici medievali.
Il sultano, insieme al suo seguito, si stava recando a visitare il sepolcro dei suoi antenati, fuori dalle mura della città: “Stizzito nel vedere quei frati e udendo l’audacia predicatoria di Berardo, ordinò l’immediato silenzio. Ma il predicatore, imperterrito, continuò a proclamare la verità del Vangelo di Cristo e a criticare, con toni gravi, la filosofia di Maometto. Convintosi della gravità del fatto, Abu-Yaqub, ardendo di collera, decretò che i cinque autori della grave offesa alla fede islamica fossero immediatamente espulsi della città e obbligati a tornarsene in un paese cristiano”.
“Meno feroce di come viene descritto nelle antiche biografie antoniane – scrive Paolo Rossi – il Miramolino aveva tollerato la presenza di navigatori e commercianti spagnoli e portoghesi, stabilitisi nelle sue terre per affari, senza esigerne la conversione, a patto che non manifestassero in pubblico la propria fede. Ma per quanto tollerante, non poté far finta di nulla quando i nostri francescani cominciarono a predicare il Vangelo di Cristo, invitando addirittura i musulmani a convertirsi”.

I protomartiri in un dipinto cinquecentesco di Bernardino Licinio.

I protomartiri in un dipinto cinquecentesco di Bernardino Licinio.

Miramolino, però, volle mostrarsi generoso: non li condannò a morte ma li affidò a don Pedro perché li conducesse a Ceuta per poi rimpatriarli. Ma i cinque elusero la vigilanza delle guardie e sfidarono ancora i divieti del califfo. E tornarono a predicare di fronte all’attonita popolazione musulmana nel suk, il formicolante mercato di Marrakesch. Accorse don Pedro che li prelevò di nuovo, anche per evitare che la furia del sultano si riversasse contro gli altri cristiani. I cinque vennnero scortati a Ceuta da un picchetto di soldati. Ma lungo il percorso evasero ancora, tornarono in città e ripresero la predicazione nel mercato. Il sultano, sempre più irritato, ordinò che i frati venissero incarcerati e lasciati senza cibo né acqua.

Dopo tre settimane di digiuno totale, uno dei consiglieri del Miramolino, di nome Abatourim, “uomo islamico che non nascondeva le proprie simpatie per i cristiani” suggerì di lasciarli liberi ritenendo che il castigo postesse essere sufficiente a scoraggiarli.
Il sultano si convinse: li liberò e li espulse ancora una volta dal paese. Ma ancora una volta, i cinque, fuggirono e tentarono di riprendere la predicazione.

Vennero fermati, questa volta, dagli stessi cristiani. Scrive Rossi: “Frate Berardo venuto a conoscenza del timore dei cristiani che l’odio islamico potesse ritorcersi anche contro di loro, rise e si addolorò. Tuttavia, per pietà di quell’ingenuo credere, non proferì parola”.
I cristiani li presero in custodia e “posero nuovamente quei cinque testardi sulla strada per Ceuta”. Sottovalutando ancora una volta, però, le loro capacità di fuga.
La situazione divenne presto insostenibile: don Pedro, esasperato, si arrese all’evidenza: quei frati stavano facendo di tutto per farsi uccidere dal sultano di Marrakesch. La conseguenza fu la rovina dei rapporti tra la comunità islamica e quella cristiana.

“L’infante – scrive Rossi – dovendo in quei giorni partire con una truppa composta da mori e cristiani per soffocare una ribellione, prese con sé i nostri protagonisti. Nell’attraversare una regione desertica, l’intero drappello trascorse tre intere giornate senza che si riuscisse a reperire una sola stilla d’acqua”.

Ma un colpo di scena cambiò la situazione. Berardo bucò la sabbia con un bastone e subito dal deserto scaturì una fonte copiosa d’acqua, grazie alla quale uomini e bestie placarono la sete. Lo zampillio si esaurì una volta riempiti tutti gli otri e i recipienti in pelle. Si invocò il miracolo: “Maomettani e cristiani, giubilando per quella meraviglia, baciarono i piedi e gli abiti dei frati taumaturghi”.

I protomartiri francescani in un moderno santino.

I protomartiri con San Francesco in un moderno santino.

La spedizione proseguì e nel continuo convivere e conversare tra mori e cristiani, un dotto e fervente islamico discusse con i cinque ma rimase schiacciato dalla loro dialettica. Rossi annota: “Un’umiliazione che non poteva assolutamente tollerare”.
Al ritorno della truppa, il Miramolino venne a conoscenza del prodigio dell’acqua e della pessima figura a cui i cinque avevano costretto il saggio imam. Poi, “la sua rinnovata rabbia divenne incontrollabile quando nel recarsi alle tombe dei suoi predecessori, s’imbatté nuovamente nei nostri protagonisti, intenti a predicare”.
Il sultano convocò subito il principe Abosaid al quale ordinò la cattura e la decapitazione dei “cinque intrusi”. Il principe, però, un po’ per segreta ammirazione e un po’ per compassione, sperando che l’intervento di alcuni nobili cristiani potesse convincere il sultano a revocare la sentenza, riuscì a ritardare l’esecuzione dal mattino fino al tramonto.
In realtà nessuno, né nobile né plebeo, si offrì di fare pubblicamente da paciere, anche per il fondato timore che si scatenasse una vera e propria caccia al cristiano.
Giunta la notte, dunque, il principale Abosaid ordinò a un picchetto di soldati di portare i cinque prigionieri al suo cospetto, ma poi non si fece trovare in casa. I soldati tornarono con i prigionieri al mattino presto, ma il principe era ancora assente.

I cinque prigionieri vennero allora trasportati nel carcere principale di Marrakesch. Dopo tre giorni di detenzione, Berardo, Accursio, Adiuto, Pietro e Ottone vennero spogliati, legati, colpiti e frustati a sangue. Il principe si incaricò personalmente dell’interrogatorio.
Ma i cinque cercarono, ancora una volta, di convertirlo, minacciandolo delle pene dell’inferno. Abosaid ordinò dunque che, condotti separatamente in case diverse, ricevessero un’ulteriore dose di frustate. “Allora – scrive Giacomo Oddi in La Franceschina – furono loro messe la fune al loro colli como ad bestie, e tiravanli in qua e là mandondoli como animali salvati frustandoli e percotendoli per fine all’effusione del sangue”.
Sulle ferite dei frati venne versato aceto e olio bollente e i corpi dei religiosi furono trascinati per tutta la notte su pezzi di vetro.
Scrive la fonte cristiana: “Erano ben trenta i saraceni che con inaudita crudeltà, infierirono sui nostri eroi. Gli aguzzini si presero un po’ di riposo prima dell’alba. E nel dormiveglia ebbero tutti la stessa visione: sembrava loro che una fulgida luce discesa dal cielo, dopo aver avvolto i corpi straziati dei cinque frati, li avesse trasportati in Paradiso, tra un’innumerevole schiera celeste”. Risvegliatisi, vennero rassicurati da don Pedro che i cinque erano ancora in carcere.

Trascinati nel palazzo del Miramolino, totalmente, nudi, con le mani legate e il sangue che continuava a uscire dalla bocca, i frati vennero condotti per le strade, spinti dallo schioccare dei colpi dei frusta. Abosaid tentò per l’ultima volta di convincere i cinque a ritrattare le frasi dette contro gli islamici e contro Maometto, promettendo il perdono. Ma frate Ottone rispose mandando al diavolo “la legge empia” e bestemmiando contro il profeta Maometto. E sprezzante, chiuse il discorso sputando a terra.

Finalmente, pensarono i francescani, era giunta l’ora del martirio. Il principe arabo fu costretto ad arrendersi di fronte all’ostinato atteggiamento dei cinque frati. Li rimandò allora dal padre che tentò, ancora una volta, di convertirli promettendo donne, ricchezze e posti d’onore. Ma ricevette l’ennesimo rifiuto.
A questo punto fu lo stesso Miramolino – secondo Giacomo Oddi – a decapitare i cinque “per mezzo la fronte, et ne tagliare ce ruppe tre spade, sempre ferendo più crudelmente. Et quilli santi frati, sempre chiamando el santo nome de Yehsu, portaro con alegreza et gaudio patientemente quillo santo martirio, per amocre de crocefixo Yeshu Christo, rendendo l’anime loro cun gloriosa corona de martirio ad l’omnipotente Dio”. Era il 6 gennaio 1220.

I protomartiri francescani, dipinto di Piero Casentini per la chiesa del monastero Ss. Annunziata delle Clarisse di Terni.

I protomartiri francescani, dipinto di Piero Casentini per la chiesa del monastero Ss. Annunziata delle Clarisse di Terni

A completare l’orgia di sangue pensarono poi le odalische. Scrive Rossi: “Come pazze, quasi esibendosi in una danza macabra, afferrarono i corpi e le teste dei cinque e li gettarono sulla strada. La plebaglia, ebbra anch’essa di furore e di sangue, legò con delle corde i piedi e le mani delle singole vittime e urlando e schiamazzando come in una scena di trionfo, le portarono fuori dai giardini del sultano e li buttarono giù dalle mura della città. Altri poi, prese come trofeo le teste e le altre parti del corpo, le portarono in mostra per le strade abbandonandosi a sfrenatezze selvagge che durarono fino a notte”.

Tramanda Iacobilli che proprio mentre morivano, i cinque frati martiri apparvero nella villa dell’infanta Sancia, figlia del re del Portogallo, mentre lei pregava in camera, portando ognuno una scimitarra nelle mani in segno di trionfo.
Intanto nella piazza i mori giocavano a palla con le teste dei cinque martiri, poi accesero un grande fuoco e ci gettarono dentro teste e corpi, che miracolosamente, secondo il racconto cristiano, non bruciarono. Una tempesta di lampi e grandine provvide poi a liberare i corpi dalla custodia dei mori e a farli finire nelle mani di due nobili cristiani che li riconsegnarono a don Pedro. I resti furono inviati a Coimbra dentro vasi d’argento.

Dalla città portoghese le reliquie vennero portate al monastero di Santa Croce e custodite in una cappella. Lì sono rimaste fino all’inizio degli anni Duemila quando, su richiesta del vescovo di Terni Vincenzo Paglia, i resti dei protomartiri sono tornati in Italia: oggi riposano in un nuovo reliquiario nella chiesa di Sant’Antonio da Padova a Terni, proprio di fronte alla cappella dove è venerata una reliquia del santo.

Arnaldo Casali